Bernhard, Thomas - Correzione

ayuthaya

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Non si può parlare di un libro di Thomas Bernhard senza parlare di lui, della sua poetica. Perché, molto prima dei contenuti dei suoi romanzi (in ogni caso sempre piuttosto tetri, cupi, intrisi di pessimismo), il lettore ha a che fare col suo modo di scrivere, elemento di attrazione per alcuni (fra cui la sottoscritta), ostacolo insuperabile per molti.
Bernhard prende per sfinimento. Davvero. Avete presente la regola imparata a scuola per una grammatica corretta e fluida, secondo cui se lo stesso nome viene ripetuto più e più volte, anziché riscrivere lo stesso identico termine si utilizzano i pronomi relativi? O si sottintende, o si cercano dei sinonimi in modo da non appesantire eccessivamente la comprensione del testo? Ecco, scordatevelo. In una sola pagina scritta da Bernhard possiamo trovare lo stesso identico termine scritto anche decine di volte. I pronomi relativi per Bernhard non esistono.
E avete presente la meravigliosa definizione (del grande architetto Mies) per cui “il meno è più” (less is more)? Ecco, scordatevi anche questo. Bernhard non si stancherà mai di ripetere la stessa frase, lo stesso concetto all'infinito, quasi fossimo degli stolti o dei distratti. Noi forse ci stancheremo, lui no.
Eppure… quanta poesia nella sua scrittura. È la poesia dell’assillo, dell’ossessione, della follia. È quella cosa che non prende né alla testa né al cuore, ma alla pancia. E, quando prende, non molla più.

Detto questo, parlare di questo romanzo è facile e allo stesso tempo difficile, motivo per cui ho intenzione di far parlare soprattutto lui, Bernhard, in modo tale che ne approfittate per capire se è un autore che fa per voi oppure no…
La trama, come al solito, è poca cosa, pochissima.
Uno studioso e professore di scienze naturali, Roithamer (personaggio ispirato allo scienziato Wittgenstein), il quale ha da sempre un rapporto estremamente conflittuale con la sua famiglia d’origine a eccezione della sorella, che adora, decide di dedicarsi anima e corpo alla progettazione e poi alla realizzazione di un edificio a forma di cono posto al centro del Kobernausserwald (nella selvaggia natura austriaca), il quale secondo le sue intenzioni dovrebbe corrispondere in tutto e per tutto alla natura e al carattere della sorella e per questo (sempre secondo le sue intenzioni) dovrebbe costituire per lei il presupposto della massima felicità possibile. Lo studio e poi (contro ogni aspettativa) il completamento – che lui chiama significativamente compimento – di questo cono, gli portano via sei anni di intenso lavoro intellettuale, che si riversa poi in un lunghissimo manoscritto che altro non è che il racconto di questo percorso e insieme la sua eredità.
Il cono è la sua idea, la sua opera d'arte, la sua ossessione, l'immane che egli decide di affrontare a costo di tutto: “Così le persone a un certo punto della loro vita, e sempre nel momento decisivo della loro vita riferita al punto in questione, si chiedono se devono affrontare l’immane della loro vita o lasciarsi annientare dall’immane anzichè affrontarlo, perchè la loro natura non è tale da poter affrontare e realizzare e portare a termine l’immane, è una natura che viene annientata dall’immane prima di averlo affrontato. Già la formulazione dell’idea annienta la maggior parte delle persone, così Roithamer. E l’immane è un’opera d’arte, l’opera d’arte della vita, comunque sia l’immane, e ognuno ha la possibilità di arrivarci, perchè la sua natura stessa è sempre questa possibilità , bisogna affrontarlo e realizzarlo e portarlo a termine solo con tutto il proprio sè.” E ancora: “Tutt’a un tratto c’è un’idea e vuole essere realizzata, tutta la nostra vita, tutta la nostra esistenza è fatta solo di idee che sono nate in noi e che noi vogliamo realizzare, che dobbiamo realizzare, perchè altrimenti siamo morti, così Roithamer. Ogni idea e ogni perseguimento di un’idea in noi è la vita così Roithamer, la mancanza di idee è la morte.”
Ecco entrare in gioco la morte, assoluta protagonista di quest’opera (e presenza costante in tutti gli altri romanzi dello scrittore austriaco). Dopo aver portato a compimento il cono, sua sorella va ad abitarvi e dopo poco tempo muore: muore di malattia, ma in realtà – ne prendiamo consapevolezza man mano che la lettura prosegue – muore a causa del cono. Quello che doveva essere il culmine della felicità si trasforma invece nel suo contrario, nella fine di tutto. E Roithamer, morta sua sorella, si toglie la vita a sua volta impiccandosi a un albero nel profondo di una radura. Il suicidio costituisce per Roithamer la massima correzione possibile: dopo aver rimaneggiato, quindi corretto, più e più volte il proprio scritto, egli compie la correzione estrema che è appunto il suicidio. “Correggiamo in continuazione e correggiamo noi stessi con la massima durezza, perché a ogni istante riconosciamo che abbiamo fatto (scritto, pensato, eseguito) tutto in modo falso, che abbiamo agito in modo falso, come abbiamo agito in modo falso, che tutto fino a questo momento è una falsificazione, per cui correggiamo questa falsificazione e ricorreggiamo la correzione di questa falsificazione e correggiamo il risultato di questa correzione della correzione e così via, così Roithamer. Ma rimandiamo la vera correzione, quella che altri hanno fatto senza esitare da un momento all’altro, penso, così Roithamer, hanno potuto fare quando anche loro non ci hanno pensato più perché hanno avuto paura anche solo di pensarci, ma poi si sono corretti, come mio cugino, come suo padre, mio zio, come tutti gli altri che abbiamo conosciuto, che abbiamo creduto di conoscere fino in fondo, ma non conoscevamo tutte queste persone come caratteri perché siamo stati sorpresi dalla loro correzione, diversamente non saremmo stati sorpresi dalla loro vera correzione fondamentale, il loro suicidio.”

Siamo quindi di fronte a un libro che istiga al suicidio, che inneggia alla morte? Da un certo punto di vista è così: la stessa morte della sorella a causa del cono non gli giunge del tutto inaspettata e questo è uno degli aspetti più inquietanti del romanzo: “Ma l’edificio come opera d’arte è compiuto solo quando subentra la morte di colui per il quale è stato costruito e portato a termine, così Roithamer”.

Allo stesso tempo però, ed è questa la cosa che mi affascina di più della “filosofia” di Bernhard che traspare in special modo da questa sua opera, è che questa sorta di attrazione verso la morte, verso il nulla assoluto, si accompagna a un’estrema tensione alla vita. Ancora una volta, il cono – questo benedetto cono! – ne è la dimostrazione. E’ indubbio che il progetto di Roithamer, e ancora di più la sua realizzazione, sia qualcosa di assurdo, di folle, lui stesso ne è consapevole – “Quanto più parlavo apertamente del mio progetto, tanto più i miei ascoltatori mi ritenevano pazzo, ma in fondo non mi preoccupava tanto il parere di tutte queste persone che credevano di essere dei periti, quanto ormai solo il mio progetto, l’esecuzione del mio progetto, la realizzazione della mia idea, che anche a me, quanto più l’approfondivo, tanto più sembrava folle, ma ogni idea è un’idea folle, così Roithamer” – ma, come dice lui stesso appunto, qualsiasi idea è folle. La differenza è che nella sua follia (che è la follia della poetica di Bernhard) la sua idea è stata portata a compimento; a costo dell’infelicità, a costo di porsi contro tutto e tutti, ma è stata realizzata. “Mentre loro (i cosiddetti architetti), che si sono sempre considerati competenti, rinnovatori della superficie terrestre, progettisti audaci, aperti e liberi, non sono mai stati altro che rinunciatari del pensiero, realizzatori mancati, costruttori mancati, sempre solo esecutori di frammenti, così R., l’intera superficie terrestre è riempita di frammenti.”
Si capisce bene la forza di quest’opera (e qui posso riferirmi indifferentemente al cono e al romanzo stesso) risiede proprio nel potenziale che nasce dall’inquietudine: “Così tutto quello che penso deriva più da una parte di me, dalla mia inquietudine e non dall’altra, che mi lascia in pace, così Roithamer. Quando parliamo con tutto il nostro essere parliamo sempre solo con quello nato dall’inquietudine, non con l’altro, così R. Io ho sempre solo parlato con il mio essere nato dall’inquietudine, con l’altro non ho parlato mai, perchè l’altro mi lascia in pace e quindi mi rende possibile parlare di ciò che nasce dall’inquietudine. (...) La pace non è la vita, così Roithamer, la pace e la pace assoluta è la morte, così Pascal, così Roithamer.” E ancora “Tutto ci è utile, e quanto più è atroce, tanto più è utile.”
Per questo, per quanto cupi siano sempre i contenuti e lo stile di questo autore, non riesco a non amarlo.

Tanto più che nelle sue opere c’è sempre un contraltare alla genialità e follia del personaggio principale, ed è il narratore. Eccomi quindi a spiegarvi un ultimo aspetto di questo romanzo, un artificio narrativo (ma non solo) che ho ritrovato anche negli altri suoi libri letti e in special modo ne Il soccombente: Roithamer non si racconta da solo o, quanto meno, non lo fa fin dall’inizio. Ci sono altri due personaggi fondamentali che, insieme all’alter ego di Wittgeinstein, costituiscono i “tre punti d'appoggio, che non si trovino in linea retta, perchè un corpo sia stabile”. Si tratta di Holler, nella cui soffitta Roithamer trova il luogo ideale in cui lavorare al suo progetto e successivamente alla stesura del suo manoscritto, e il narratore (alter ego dell’autore stesso?) che, convalescente da una brutta polmonite e avendo ricevuto in eredità tutti gli scritti del defunto, si appresta – sempre nella soffitta di Holler – a “esaminare” e “riordinare” questa immensa mole di materiale. Entrambi amici d’infanzia di Roithamer, sono stati forse gli unici (a parte la sorella) ad averlo amato e gli unici ad averlo compreso davvero. Beh, è difficile da spiegare, ma dal punto di vista non solo narrativo (da qui gli innumerevoli “così Roithamer”) ma anche di contenuti, la mediazione dell’io narrante è fondamentale. L’amico non è solo il portavoce, l’apologeta del protagonista. E’, come dicevo prima, il suo contraltare, e non è un caso che, a fronte di un personaggio che si è tolto la vita, ce ne siano due che continuano a vivere, a raccontare, a esserci (la stessa identica cosa accade con Il soccombente).

Alla fine, che dire? Sarò la solita inguaribile ottimista, la solita amante della vita che la vede inneggiata anche laddove sembra dominare la sua rivale, ma brani come quello con cui chiudo questo commento non possono che convincermi che l’intento di Bernhard non era certo quello di spingerci a farla finita, ma piuttosto a riprenderci in mano la nostra vita, a costo (paradossalmente) dell’infelicità.
“Già fin dai primi accenni della ragione dobbiamo esplorare attentamente la possibilità di trasformare il mondo, questo mondo che ci siamo trovati addosso come un abito logoro e consunto, troppo piccolo o troppo grande per noi ma comunque logoro e lacero davanti e didietro e frusto e puzzolente che ci è stato tirato addosso, per così dire, dalle confezioni universali, sondare sempre più a fondo e sempre più addentro questo sovrastrato e poi anche substrato per arrivare alla possibilità di fare nostro il mondo che non è nostro, tutta la nostra esistenza dev’essere concentrata esclusivamente su questa possibilità, e cioè come e in qual mondo possiamo trasformare e infine trasformeremo questo mondo che non è il nostro, così Roithamer. Poichè infine, al termine della nostra vita possiamo dire, almeno per un momento abbiamo vissuto nel nostro mondo, e non in un mondo che ci è stato dato dai nostri genitori.”
 
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