La Sfida per la quale ho letto questo romanzo, ovvero “Libri di autori che amiamo”, mi ha dato l’occasione di rincontrare, dopo diversi mesi e persino anni, scrittori dai quali non ho certo bisogno di ricevere ulteriori conferme, ma il cui piacere della lettura non ne resta per questo diminuito, anzi. Questa Sfida è stata anche l’occasione di mettere nero su bianco, l’uno accanto all’altro, autori che probabilmente in comune hanno solo… l’essere amati da me!!! Soprattutto con Robert Walser avevo davvero l’impressione di essere su un altro pianeta rispetto a Virginia Woolf, William Faulkner, Thomas Bernhard e Philip Roth: la sua prosa pacata, discreta, lievemente ironica, la sua assoluta distanza da qualsiasi forma di sperimentalismo linguistico che invece caratterizza gli altri quattro (con risultati più o meno “folli”) lo rendono davvero uno scrittore sui generis. Perché allora lo amo così tanto?
È sempre spettato a me (o quasi) l’onore di aprire, in Piccola Biblioteca, le discussioni sui romanzi di Walser, per cui anche questa volta tocca a me raccontarvi la semplicissima, direi persino banale trama: un giovane disoccupato viene assunto, tramite un agenzia di collocamento, presso un inventore/imprenditore in qualità di suo assistente tecnico. Oltre allo stipendio (che dovrebbe ricevere ma che di fatto, come vedremo, non riceverà mai) gli viene offerto vitto e alloggio e così Giuseppe (Joseph) Marti fa il suo ingresso nella villa Tobler, denominata anche Stella Vespertina, e suo malgrado assisterà all’inarrestabile declino della “carriera” del suo principale nonché padrone di casa. Carlo Tobler è un personaggio molto ben riuscito: inventore ricco di fantasia ma dotato di scarso senso degli affari, non riesce a trovare sufficienti sponsor per le proprie idee nelle quali ha investito tutto il suo patrimonio. Ciononostante non solo non vuole darsi per vinto, ma non vuole neppure accettare responsabilmente la realtà, pertanto continua a comportarsi come se disponesse di risorse inesauribili, con una caparbia altezzosità che rasenta l’incoscienza.
Nonostante i segni sempre più evidenti del fallimento incombente, nemmeno Giuseppe si perde d’animo: il suo amore per le piccole cose e per la natura e la sua pseudo-amicizia con la signora Tobler – oltre che l’altilenante e contraddittorio rapporto che lo unisce a Tobler stesso, per cui prova insieme “pietà”, “paura” e “disprezzo” – fanno sì che Giuseppe sia sempre ottimista, fiducioso e sorridente, fino alla fine.
Per chi conosce Walser, sembrerebbe quasi che a suonare il campanello della Stella Vespertina, munito solo di un ombrello e della sua fedele valigetta, sia Jakob van Gunten* da poco uscito dalla famigerata scuola nella quale ha imparato ad essere “un magnifico zero, rotondo come una palla”. Non che Giuseppe Marti non reputi di avere alcuna capacità, e in fin dei conti non è così inerte come il suo fratello di letteratura Jakob, ma è certo che l’umiltà è un segno distintivo di tutti i personaggi walseriani nonché dell’autore stesso che, soprattutto in quest’opera, ha ammesso di aver inserito molti dettagli autobiografici. Marti si interroga spesso se il suo lavoro come assistente ripaghi sufficientemente il benessere che prova nel condividere gli agii di villa Tobler: buon vino, buon cibo, un’inesauribile scorta di sigari, la compagnia della signora Tobler che all’inizio lui critica (in cuor suo) di eccessiva alterigia, ma per cui prova innegabilmente ammirazione e una certa attrazione.
È tipico dei personaggi creati da Walser anche il non pretendere nulla da nessuno, neppure da chi avrebbe degli obblighi nei loro confronti, e questo non per orgoglio bensì per una patologica mancanza di personalità. Tuttavia mi piace vedere in questa assoluta inettitudine un risvolto positivo: Giuseppe Marti (anche qui perfetto alter ego dello stesso Walser) è talmente innamorato della vita da rendersi conto che la sua condizione di “debitore” non potrà mai essere adeguatamente compensata dai propri “servigi”. Da qui uno squilibrio che assomiglia a un’intollerabile debolezza.
Ma non è vero che egli non sappia ragionare con la propria testa o che non perda mai la pazienza quando qualcosa lo infastidisce: solo che i suoi rimproveri e i suoi (modesti) “scatti d’ira”, pur giustificati, si scontrano subito dopo con la sua innata mitezza e, prima ancora che lo chiedano gli altri, eccolo a porgere le proprie scuse per aver “alzato la cresta”. A proposito di questo duplice sentimento di “rivolta” e sottomissione, molto significative sono le parole che la signora Tobler rivolge all’assistente in una di queste occasioni:
“Lei, Giuseppe, è una strana combinazione di viltà e audacia. Non ha alcun timore di avventurarsi su uno scrimolo e di nuotare al largo in autunno avanzato. È anche capace di mortificare una donna senza batter ciglio. Ma quando si tratta di scusare davanti al suo superiore un fallo innocente, è pieno di paura. Vien fatto di pensare che è molto affezionato al padrone o invece lo odia in segreto. Quale è la giusta? Che cosa significa tanto spiccato rispetto di un uomo di fronte un altro? Non sono ancora riuscita a capire il suo carattere. È forse magnanimo? O è abietto?”
Risponde Claudio Magris nella bellissima postfazione “Davanti alla porta della vita”: “L’eroe di Walser è magnanimo per la grandiosa risolutezza con la quale accetta la propria abiezione, la propria avvilente mancanza di carattere e di personalità.”
Inutile ripetere che le opere di Walser mi colpiscono e mi conquistano per la loro semplice e pura bellezza, per quel loro essere “rivoluzionarie dentro” (e non certamente “fuori”), per questo smisurato amore per la vita e in special modo per la natura (qualsiasi sia il suo aspetto, ovvero la sua stagione) che traspare da ogni singola pagina. Consigliatissimo.
* Per chi invece non conoscesse Walser, Jakob van Gunten è il protagonista dell’omonimo romanzo.
È sempre spettato a me (o quasi) l’onore di aprire, in Piccola Biblioteca, le discussioni sui romanzi di Walser, per cui anche questa volta tocca a me raccontarvi la semplicissima, direi persino banale trama: un giovane disoccupato viene assunto, tramite un agenzia di collocamento, presso un inventore/imprenditore in qualità di suo assistente tecnico. Oltre allo stipendio (che dovrebbe ricevere ma che di fatto, come vedremo, non riceverà mai) gli viene offerto vitto e alloggio e così Giuseppe (Joseph) Marti fa il suo ingresso nella villa Tobler, denominata anche Stella Vespertina, e suo malgrado assisterà all’inarrestabile declino della “carriera” del suo principale nonché padrone di casa. Carlo Tobler è un personaggio molto ben riuscito: inventore ricco di fantasia ma dotato di scarso senso degli affari, non riesce a trovare sufficienti sponsor per le proprie idee nelle quali ha investito tutto il suo patrimonio. Ciononostante non solo non vuole darsi per vinto, ma non vuole neppure accettare responsabilmente la realtà, pertanto continua a comportarsi come se disponesse di risorse inesauribili, con una caparbia altezzosità che rasenta l’incoscienza.
Nonostante i segni sempre più evidenti del fallimento incombente, nemmeno Giuseppe si perde d’animo: il suo amore per le piccole cose e per la natura e la sua pseudo-amicizia con la signora Tobler – oltre che l’altilenante e contraddittorio rapporto che lo unisce a Tobler stesso, per cui prova insieme “pietà”, “paura” e “disprezzo” – fanno sì che Giuseppe sia sempre ottimista, fiducioso e sorridente, fino alla fine.
Per chi conosce Walser, sembrerebbe quasi che a suonare il campanello della Stella Vespertina, munito solo di un ombrello e della sua fedele valigetta, sia Jakob van Gunten* da poco uscito dalla famigerata scuola nella quale ha imparato ad essere “un magnifico zero, rotondo come una palla”. Non che Giuseppe Marti non reputi di avere alcuna capacità, e in fin dei conti non è così inerte come il suo fratello di letteratura Jakob, ma è certo che l’umiltà è un segno distintivo di tutti i personaggi walseriani nonché dell’autore stesso che, soprattutto in quest’opera, ha ammesso di aver inserito molti dettagli autobiografici. Marti si interroga spesso se il suo lavoro come assistente ripaghi sufficientemente il benessere che prova nel condividere gli agii di villa Tobler: buon vino, buon cibo, un’inesauribile scorta di sigari, la compagnia della signora Tobler che all’inizio lui critica (in cuor suo) di eccessiva alterigia, ma per cui prova innegabilmente ammirazione e una certa attrazione.
È tipico dei personaggi creati da Walser anche il non pretendere nulla da nessuno, neppure da chi avrebbe degli obblighi nei loro confronti, e questo non per orgoglio bensì per una patologica mancanza di personalità. Tuttavia mi piace vedere in questa assoluta inettitudine un risvolto positivo: Giuseppe Marti (anche qui perfetto alter ego dello stesso Walser) è talmente innamorato della vita da rendersi conto che la sua condizione di “debitore” non potrà mai essere adeguatamente compensata dai propri “servigi”. Da qui uno squilibrio che assomiglia a un’intollerabile debolezza.
Ma non è vero che egli non sappia ragionare con la propria testa o che non perda mai la pazienza quando qualcosa lo infastidisce: solo che i suoi rimproveri e i suoi (modesti) “scatti d’ira”, pur giustificati, si scontrano subito dopo con la sua innata mitezza e, prima ancora che lo chiedano gli altri, eccolo a porgere le proprie scuse per aver “alzato la cresta”. A proposito di questo duplice sentimento di “rivolta” e sottomissione, molto significative sono le parole che la signora Tobler rivolge all’assistente in una di queste occasioni:
“Lei, Giuseppe, è una strana combinazione di viltà e audacia. Non ha alcun timore di avventurarsi su uno scrimolo e di nuotare al largo in autunno avanzato. È anche capace di mortificare una donna senza batter ciglio. Ma quando si tratta di scusare davanti al suo superiore un fallo innocente, è pieno di paura. Vien fatto di pensare che è molto affezionato al padrone o invece lo odia in segreto. Quale è la giusta? Che cosa significa tanto spiccato rispetto di un uomo di fronte un altro? Non sono ancora riuscita a capire il suo carattere. È forse magnanimo? O è abietto?”
Risponde Claudio Magris nella bellissima postfazione “Davanti alla porta della vita”: “L’eroe di Walser è magnanimo per la grandiosa risolutezza con la quale accetta la propria abiezione, la propria avvilente mancanza di carattere e di personalità.”
Inutile ripetere che le opere di Walser mi colpiscono e mi conquistano per la loro semplice e pura bellezza, per quel loro essere “rivoluzionarie dentro” (e non certamente “fuori”), per questo smisurato amore per la vita e in special modo per la natura (qualsiasi sia il suo aspetto, ovvero la sua stagione) che traspare da ogni singola pagina. Consigliatissimo.
* Per chi invece non conoscesse Walser, Jakob van Gunten è il protagonista dell’omonimo romanzo.