Hardinge, Frances - La voce delle ombre

Jessamine

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TRAMA
In una notte cupa e fredda, Makepeace viene costretta a dormire nella gelida cappella di un cimitero: lì nessuno potrà sentirla gridare terrorizzata nel sonno. Perché lei è molto diversa dalle ragazze che, nell'Inghilterra della metà del Seicento, vivono nel suo villaggio. Makepeace ha un dono, che è anche una maledizione: può accogliere gli spiriti dei morti che vagano alla ricerca di un nuovo corpo. E una sera, per la prima volta, è il fantasma di un orso a trovare rifugio dentro di lei.

Quando intorno scoppia la guerra civile e Makepeace viene rapita da una famiglia nobile e misteriosa, l'orso diventa l'unico amico di cui può fidarsi. Insieme potrebbero cambiare le sorti del conflitto. Ma altri spiriti malvagi e potenti vorrebbero piegarla alla loro crudele volontà, per annientare il re e sconvolgere tutta l'Inghilterra…

A volte credo che noi fantasmi non siamo che... ricordi.

Echi. Imitazioni.

Sì, pensiamo, proviamo cose.

Abbiamo rimorsi e rimpianti del passato e temiamo il futuro.

Ma siamo davvero le persone che crediamo di essere?

Dall'autrice de L'albero delle bugie vincitore del Costa Book Award

COMMENTO
Ammetto di essermi avvicinata a questo romanzo soprattutto per la splendida copertina: mi ha colpita in mezzo alla pila delle novità appena arrivate al lavoro, e quando poi ho letto il nome dell’autrice ho saputo di volerlo leggere subito, prima ancora di avvicinarmi alla trama sulla quarta di copertina.
La Hardinge mi aveva già totalmente conquistata con “L’albero delle bugie”, uno dei romanzi per ragazzi più belli che io abbia letto quest’anno, e così mi sono gettata sulla sua ultima fatica con enorme soddisfazione.
Questo romanzo mi è piaciuto tantissimo, e mi è piaciuto soprattutto perché è un libro quasi impossibile da incatenare in un’etichetta ben definita. È un romanzo per ragazzi, ma per ragazzi un po’ più grandi dei lettori ideali de “L’albero delle bugie”. Dei quasi adulti, insomma. È una storia di formazione, ma non c’è nemmeno l’ombra di romanticherie o storie d’amore, ed è tutto perfetto così. È un fantasy dalle tinte fortemente oscure, che vanno quasi a corteggiare l’horror, ma non è mai violento o pauroso in maniera gratuita. Ed è anche un romanzo storico, ambientato al centro della guerra civile che spacca in due l’Inghilterra del diciassettesimo secolo, e lo è anche se la protagonista vorrebbe con tutte le sue forze poter ignorare le potenze in campo. Ecco, io non creo di aver mai incontrato un romanzo storico fantasy horror per ragazzi, dove tutti questi elementi si fondono insieme con una naturalezza sorprendente, tanto che ci si ritrova a riflettere sulle sue peculiarità solamente a romanzo terminato.
Il romanzo è un lento crescere di tensione: si apre nella puritanissima Poplar, dove la giovane Makepeace, figlia di una umile sarta, deve imparare a convivere con gli incubi che minacciano di aprirle la testa in due e farla precipitare nella follia. Ma Makepeace non è pazza: Makepeace ha un dono, o forse una maledizione, che permette agli spiriti dei morti di riconoscerla come un guscio vuoto e ospitale. E da questo dono deve imparare a proteggersi, soprattutto quando la famiglia del padre che non ha mai conosciuto decide di prenderla con sé, come serva.
Il romanzo alterna momenti molto intensi e vagamente inquietanti, come quelli dei tentativi di possessione da parte dei fantasmi, ad altri più riflessivi e metaforici.
Uno dei legami più puri, originali e genuini del romanzo è quello fra Makepeace e lo spirito arrabbiato e terrorizzato di un orso sfuggito ai suoi aguzzini circensi: quando ho letto la quarta di copertina, pensando ad una ragazzina che si fa possedere dallo spirito di un orso, ho pensato che il rischio di caduta nel trash fosse molto alto. Invece, la Hardinge riesce a mantenersi in un perfetto equilibrio, e proprio quello che avrebbe potuto trascinare il romanzo nello squallore diventa un punto di forza originalissimo.
Tutta la gestione delle possessioni e al dono della famiglia Fellmotte è gestita a mio parere molto bene: la Hardinge costruisce un mondo molto originale, pur partendo da un’idea tutto sommato piuttosto semplice, e lo fa in maniera coerente, incastonandolo perfettamente all’interno della cornice storica.
A voler essere estremamente pignoli, devo dire che ho trovato il romanzo un po’ spezzato in due: c’è un salto temporale molto vasto, spiegato con una sola frase, e questo di per sé non sarebbe un male. Il vero problema è che, in questo modo, la Hardinge relega la relazione fra Makepeace e il suo fratellastro James a un mero ricordo, a qualcosa di raccontato, ma mai mostrato, al punto che viene da chiedersi quando, effettivamente, questa relazione abbia preso corpo. Il lettore non ha il tempo di conoscere James, non ha il tempo di affezionarsi a lui, né di comprendere i sentimenti che lo legano a Makepeace, e questo è un po’ un problema, dal momento che proprio questo legame è il motore di gran parte dell’azione, a partire dalla metà del romanzo in poi. La trama è però tanto interessante e incalzante che, lo ammetto, la cosa è passata un po’ in secondo piano.
Ho apprezzato moltissimo le descrizioni delle possessioni, che sembrano avere davvero delle regole estremamente precise e pensate molto bene. Forse c’è una visione un po’ troppo moderna della mente e dell’individualità: in un romanzo dove la componente storica è tanto accurata, sia a livello di avvenimenti e costumi, che di pensiero, trovare certi accenni fin troppo espliciti alla coscienza di sé e al ruolo dell’inconscio mi ha un po’ stranita. Ma capisco quale fosse l’intento della Hardinge, e da un punto di vista più ampio ho del tutto apprezzato l’approfondimento delle vicende, che si possono leggere su piani molto diversi.
Il cammino di presa di consapevolezza di Makepeace, il suo imparare a conoscere sé stessa, la sua mente, i suoi fantasmi, è qualcosa di magistrale. Ho apprezzato molto alcuni momenti che, per certi versi, mi hanno ricordato alcune prese di posizione de “L’albero delle bugie”, seppur in maniera un po’ più sottile: una visione positiva e autodeterminata (nonostante l’ambientazione storica, e in maniera del tutto credibile) delle figure femminili del romanzo, la tenacia con cui Makepeace, seppur solo a livello metaforico, ribadisce di appartenere solo a sé stessa, e di essere l’unica sovrana di sé stessa. Ho anche apprezzato molto gli esempi di sorellanza che la Hardinge propone in maniera del tutto naturale, senza mai andare a ricercarli appositamente, senza manovre artificiose. E’ sempre confortante trovare note positive di questo tipo in un romanzo rivolto anche ai lettori più giovani.
 
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