Lawrence, David H. - Figli e amanti

ayuthaya

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Ho letto questo libro dopo diversi mesi (o nel frattempo anni???) che mi era stato consigliato, con la quasi assoluta certezza che mi sarebbe piaciuto. E, neanche a dirlo, mi è piaciuto!
Sì, mi è piaciuto molto questo romanzo scritto da un autore che conosco per il più famoso “L’amante di lady Chatterley” ma che non avevo mai letto finora. Quando poi l’ho iniziato, dopo poche pagine, ho “sbirciato” l’introduzione e ho temuto di essermi guastata la lettura: “l’ipotesi più probabile è che Lawrence sia partito da esperienze personali e intuizioni personali con il proposito di raccontare il proprio dramma di figlio così morbosamente attaccato alla madre da sentirsi incapace di amare qualsiasi altra donna”, con un riferimento esplicito (è l’autore stesso ad ammetterlo) al mito greco di Edipo re.
Ma allora, mi sono detta, se ho già scoperto che “Figli e amanti” altro non è la trasposizione letteraria del complesso edipico, per quanto interessante possa essere non avrò più l’effetto sorpresa… e invece mi sbagliavo! La bellezza di questo romanzo supera la rigida interpretazione mitologica, la complica e la trascende, arricchendola di infinite sfumature.

Innanzitutto ammetto di aver pensato che avrei avuto a che fare con una mamma oppressiva, soffocante, dichiaratamente “innamorata” del proprio figlio e incapace di lasciarlo libero di vivere la propria vita (dalla quarta di copertina: “...ci sono mamme che i figli li tengono a sè, che vorrebbero pensare anche i loro pensieri. Li abbracciano come coperte sul fuoco, tolgono respiro alle fiamme”). Come mamma di ben due figli maschi (ancora troppo piccoli, per fortuna, per “cederli” a una donna che non sia io... ma prima o poi accadrà!) l’argomento mi interessa non poco: non credo che sarò mai la mamma opprimente che ho appena descritto, ma per certi versi nemmeno Gertrude lo è.
L’amore filiale (come tutte le forme di amore) non è così semplice da etichettare e i rischi non riguardano solo le coppie “padre/figlia” - “madre/figlio”: qualsiasi genitore il quale vorrebbe che i suoi figli non soffrissero mai, è già un genitore che “sbaglia”. D’altra parte credo che trovare un genitore che in cuor suo non abbia questo desiderio sia praticamente impossibile e che, se mai esistesse, saremmo noi per primi a giudicarlo “anormale”.
Questo per dire che c’è un abisso tra ciò che “dovrebbe essere” per il bene dei nostri figli e ciò che – in quanto genitori, ma soprattutto in quanto “umani” e come tali deboli, limitati, imperfetti – riusciamo a mettere in pratica. Non solo. Se anche noi madri e padri avessimo il diritto di ridurre al minimo gli errori e quindi le sofferenze dei nostri figli, se questo fosse giusto, riusciremmo a discernere i primi per evitare le seconde? Ne dubito fortemente.

Oltretutto, come accennavo prima, il romanzo presenta sfaccettature che superano il singolo rapporto madre/figlio interpretato come complesso edipico, per quanto questo aspetto sia preponderante e abbracci tutto il resto. Da una parte, infatti, abbiamo sicuramente un rapporto fra madre e figlio anomalo, in cui l’affetto profondo, insostituibile, degenera in una sorta di passione che conduce, come accadrebbe a due “amanti”, anche a momenti conflittuali e di “rottura”. Dall’altra le relazioni che Paul Morel instaura con Miriam prima e con Clara poi, sono esse stesse insane e solo in parte per “colpa” di sua madre. Le due storie rappresentano i due poli dell’amore: quello platonico, “metafisico”, e quello “carnale”. Nel romanzo, l’una e l’altra relazione falliscono, probabilmente perché in esse un aspetto finiva per escludere l’altro, quando invece l’amore vero, completo e duraturo può esistere solo se entrambi le componenti, magari con proporzioni diverse, coesistono.
In particolare la storia con Miriam è qualcosa di incredibilmente sofferto e trascinato: in certi momenti mi sono persino trovata d’accordo con la madre di Paul nel sostenere che, restando con lei, il giovane sarebbe rimasto soffocato, annichilito dal suo amore "troppo puro"... E chiaramente una madre come Gertrude – che vorrebbe il figlio tutto per sè, che afferma di augurargli di trovare una buona moglie a patto che sia... perfetta, e comunque diversa dalle donne reali che frequenta Paul – tanto meno può accettare una ragazza così castamente appassionata come Miriam, così problematica. D’altra parte è lo stesso Paul che ha paura di “buttarsi” in una relazione, a prescindere da quale essa sia, terrorizzato com’è di poter far soffrire la propria compagna come suo padre, odiato e disprezzato, ha fatto con la sua adorata mamma.
Insomma, gli elementi sono molti e il risultato è qualcosa che fa male, perché vi si legge una sorta di fatalismo che, questo sì, richiama molto il mito classico. Proseguendo la lettura si spera che la situazione si sblocchi, che Paul trovi il coraggio di prendere in mano la propria vita, ma a un certo punto si capisce che, come in Edipo, tutto sembra già scritto e si può solo attendere che il tempo faccia il suo corso.
 
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