Mann, Thomas - Il giovane Giuseppe

ayuthaya

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Da troppo tempo rimandavo il secondo capitolo di questa tetralogia, Giuseppe e i suoi fratelli… Chissà perché poi! Non mi aveva già totalmente conquistato il primo libro, così profondo e intriso di filosofia, scienza (la storia delle religioni non è una scienza?), indagine psicologica? Tutto questo e molto altro è stato per me Le storie di Giacobbe e non mi aspettavo niente di meno da Il giovane Giuseppe. E infatti così è stato.
Certo, questa di Mann è un’opera che richiede attenzione, concentrazione, una certa dose di astrazione… è tutt’altro che la trasposizione di una “favola”. E proprio in questa vocazione filosofica e storica risiede il suo immenso valore.

Se il primo romanzo era tutto incentrato sulla figura di Giacobbe, il Fecondo, il Benedetto per eccellenza, in questo secondo episodio Giuseppe - figlio prediletto avuto dall’unica donna realmente amata, Rachele - suscita l’invidia dei fratelli raccontando i propri sogni, dai quali emerge chiaramente che egli è destinato ad essere venerato da tutti loro, padre compreso. In preda all’indignazione e all’odio, i dieci (Beniamino, fratello carnale di Giuseppe, è l’unico ad amarlo incondizionatamente) decidono di picchiarlo, chiuderlo in una cisterna e in seguito, per non macchiarsi del suo sangue, venderlo a una carovana di Ismaeliti diretti in Egitto. Tornati dal padre, gli faranno credere che Giuseppe è stato sbranato da una belva feroce, mostrando la sue veste, intrisa di sangue (in verità è il sangue di un capro), a testimonianza della loro menzogna.

Non appena incontrato Giuseppe, nel corso della lettura, la prima cosa che ho pensato è “accidenti… ma quanto arrogante è?!”. Ripieno di grazia e di bellezza, oltre che di profonda intelligenza, Giuseppe è un personaggio talmente pieno di sé da risultare quasi insopportabile. Eppure il suo è un egoismo che deriva dall’innocenza, dal candore di un bambino viziato incapace di provare empatia per alcuno. “Dai tempi di Adamo ed Eva, da quando uno divenne due, chiunque per vivere ha dovuto mettersi nei panni altrui, per conoscere veramente se stesso ha dovuto guardarsi con gli occhi di un estraneo. (...) Giuseppe, però, non sapeva nulla di queste regole. La sua fiducia estatica (...) gli faceva credere che tutti gli uomini amassero più lui che se stessi e che egli non dovesse avere alcun riguardo per i loro sentimenti.
Paradossalmente l’unico a comprendere la condotta del giovane non è il padre, vittima egli stesso della sua predilezione, e nemmeno Beniamino, che lo adora ciecamente, bensì Ruben, il maggiore dei fratelli. Dico paradossalmente perché è proprio lui quello che avrebbe più ragione di odiarlo, essendo stato privato del diritto di primogenitura dopo che Giuseppe aveva riferito al padre una sua condotta peccaminosa. Ciononostante, solo Ruben sembra rendersi conto della “predestinazione” voluta da Dio, contro la quale è inutile opporsi...
Resta il fatto che per buona parte del romanzo la mia simpatia si è rivolta tutta verso i fratelli, contro la presunzione del beniamino di Giacobbe. Solo in bilico fra la vita e la morte, nel fondo della cisterna, Giuseppe si rende finalmente conto di essere stato lui il vero responsabile dell’accaduto e prova compassione per i fratelli. D’altra parte, egli sente che non può essere questa la sua fine, che lo scopo della sua esistenza è un altro e soprattutto che, se lui stesso – ingenuamente, ma non del tutto inconsapevolmente – ha provocato i fratelli fino alle estreme conseguenze, era perché “qualcosa” dentro di sé lo spingeva a farlo. E questo qualcosa ha a che fare con un disegno divino, ancora tutto da attuare…

Ecco, qui apro una parentesi per spiegare ciò che più sto amando e apprezzando in questo ciclo di romanzi: il rapporto fra Dio e l'uomo. Nell'opera di Mann, Dio non parla e non agisce: come "personaggio" di fatto non esiste. Si dirà: è chiaro, qui non abbiamo a che fare con Saramago, qui la “verosimiglianza”, la veridicità biblica e persino storica è centrale... eppure non è questo il punto, perché la verità è che non ho mai sentito la divinità tanto presente nella letteratura quanto in Giuseppe e i suoi fratelli, in cui il divino è specchio dell'umano e l'umano è specchio del divino.
La sfera si svolge, e non si potrà mai stabilire dove una storia abbia la sua origine: se in cielo o in terra. Si pone al servizio della verità chi dichiara che tutte le storie si corrispondono e si svolgono contemporaneamente in un luogo o nell’altro, e che solo al nostro occhio sembrano discendere in terra e poi di nuovo ascendere al cielo. (...) Ciò che è lassù scende infatti quaggiù, ma quello che è quaggiù non saprebbe affatto accadere e nemmeno, per così dire, avere l’idea di accadere, senza un suo modello e corrispettivo celeste.

Non voglio fare confronti perché non avrebbe senso vista l'assoluta distanza di stili e di intenti, ma è passato talmente tanto poco tempo dalla mia lettura de Il Vangelo secondo Gesù Cristo, che non ho potuto non pensare a quanto è diversa, nei due autori, l'interpretazione dello stesso Dio biblico! Quanto ho amato questo Dio di Mann che non impone, non condanna, non si vendica (troppo facile è vedere solo questo aspetto nel Dio dell'Antico Testamento!) ma che “si bacia la punta delle dita” perché Abramo lo ha eletto a unica divinità e che “soffre” nell'attesa del compimento del Suo regno: “Ma che questo tonitruante giorno non fosse il presente, bensì un remotissimo futuro (...) conferiva al volto odierno di Dio quel tratto così caratteristico di sofferenza , il tratto del “non ancora”, dell’attesa. Dio languiva in ceppi, Dio soffriva. Dio era tenuto prigioniero. Questa sofferenza mitigava la sua sublimità, fino farne un oggetto di consolante adorazione per tutti coloro che soffrono e aspettano, per coloro che non sono grandi ma piccoli nel mondo”.
L'umanità di Mann costruisce il proprio destino insieme a Dio, non lo subisce ma gli corre incontro. Si potrà obiettare che l'uomo comunque non può “ribellarsi” a Dio e che il suo stesso operato, anche quando crede di essere libero, non fa che realizzare un progetto che lo precede e lo sovrasta. Ma Giacobbe, Giuseppe, Ruben non sono meno liberi dei personaggi di un romanzo di cui conosciamo già il finale perché lo abbiamo già letto. Tornando al nostro protagonista, egli sente che “un irresistibile prurito” lo ha spinto a provocare i suoi fratelli, ma nè lui nè loro sono “burattini” nelle mani di Dio: insieme, Dio e il suo popolo, collaborano nell’attuare un progetto comune.

Ed è proprio questa complicità, questa intimità, massima fra Abramo e Dio (“Abramo in un certo senso era il padre di Dio”), ma presente comunque anche in Giacobbe/Israele, in rappresentanza di tutto il popolo eletto, a permettere che l’uomo, in alcune circostanze, si ribelli a Lui. É quello che accade a Giacobbe quando viene a sapere della presunta morte di Giuseppe.
Rivolgendosi al suo servo e amico Eliezer, Giacobbe dice di Dio: “Si fa egli beffe dello spirito umano, giacché nella sua prepotenza uccide ugualmente i buoni e i malvagi? Ma dove sarebbe egli senza lo spirito umano? Eliezer, il patto è infranto! Iddio non è proceduto di pari passo con l’uomo: mi intendi tu bene? Dio e l’uomo si sono scelti reciprocamente e hanno stretto il patto affinché portino a compimento l’uno nell’altro quel che sono, e l’uno si santifichi nell’altro. Ma se l’uomo si è ingentilito e incivilito in Dio (...) Dio non è proceduto di patri passo con l’uomo ma è rimasto indietro, ed è ancora un bruto”. Parole che mi hanno messo i brividi.
Ma il tempo passa e la disperazione lascia il posto all’assuefazione: “Con muta vergogna ripensava alla sua sfrenata contesa e lite con Dio nel primo erompere del suo dolore, e trovava che se Egli allora non l’aveva senz’altro annientato ma aveva lasciato passare con tollerante silenzio l’impeto protervo del suo dolore, non significava affatto che Dio fosse rimasto indietro sul cammino dell’evoluzione, ma era un segno della sua santità e della sua fine sagacia.

Certo che nell’ambito della Sfida sugli ebrei non potevo scegliere un libro migliore, rappresentando quest’opera la vera “nascita” del popolo ebraico. Consigliatissimo, ma solo a chi è fortemente interessato all'argomento ed è consapevole di affrontare prima di tutto un'opera filosofica.
 
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