Bernhard, Thomas - Un bambino

ayuthaya

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Quando un autore si fa conoscere – e apprezzare – per un determinato stile, che diventa quasi un “marchio di fabbrica”, è ancora più sorprendente scoprire che la potenza della sua scrittura non dipende esclusivamente da quel marchio e che, anche in assenza di quello, ciò che scrive ci piace nello stesso identico modo, se non di più. Nel caso di Bernhard il “marchio”, come sappiamo, è un ossessivo profluvio di parole che non consente di riprendere fiato.
In questo caso, però, sapevo che stavo per affrontare qualcosa di diverso rispetto agli altri suoi romanzi, perché Un bambino è l’ultimo capitolo di un’autobiografia lunga ben cinque libri. Che sia l’ultimo di questi a trattare la sua infanzia è già un paradosso e non mi sarebbe dispiaciuto seguire l’ordine scelto da Bernhard (di solito mi fido degli autori!), se non fosse che, per ragioni legate alla mia “intervista” sul Giornalino, avevo più interesse a conoscere i primi anni della sua vita, in cui a brillare è la figura del nonno, l’essere amato come nessun altro al mondo.

Dicevo insomma che non trattandosi del solito romanzo, ero sinceramente curiosa di scoprire in che modo Bernhard si sarebbe raccontato. Avrebbe fatto nuovamente ricorso alla sua assillante prolissità? Ebbene, no: Un bambino è scritto in modo assolutamente “normale”. Eppure che potenza di linguaggio, che lucidità! Ma come ci riesce, se la sua arma non è solo la conquista per sfinimento?
Difficile dirlo, probabilmente il segreto è tutto racchiuso negli anni di infanzia raccontati in questo libro: innanzitutto il rapporto difficile, difficilissimo con la madre, che lo ama come ogni madre ama il proprio figlio, ma che anche lo detesta, perché in lui vede il padre, l’uomo che l’ha sedotta e abbandonata senza riconoscere il frutto della loro unione. Questa donna fragile non sa come rapportarsi con questo bambino che è il più abominevole di tutti i bambini, imperdonabile, spargitore di zizzania, piscialletto,... e che perciò picchia e soprattutto umilia, senza essere capace di educarlo. Al rapporto di odio-amore nei confronti di sua madre, si aggiungono i continui trasferimenti da una città e l’altra per sfuggire alla vergogna prima e alla povertà poi; il “funambolismo” di questa famiglia circense, che mai, neanche per un istante, si permetteva di venir giù dalla fune, sotto la quale si apriva l’abisso della normalità, che avrebbe significato per il piccolo Thomas e i suoi familiari morte sicura. Vi è quindi il rapporto con la scuola, la quale è vista come un’istituzione raccapricciante volta alla distruzione del giovane individuo, e il paradosso di essere un bambino estremamente dotato eppure destinato a soccombere nel sistema-scuola, il più ricco di talento e nello stesso tempo il più incapace di tutti. A questo fallimento segue l’umiliazione, dopo l’ennesimo trasferimento in Baviera, di essere estriaco (austriaco) in terra tedesca, umiliazione accentuata in seguito all’annessione dell’Austria al Reich e alla frequentazione del bambino alla Jungvolk...
Con queste premesse si potrebbe credere a una storia triste, commovente... e invece no, perché come si evince dalle poche parole che ho riportato esatte dal testo del libro, Thomas non è affatto uno sprovveduto e, pur estremamente sensibile, è incredibilmente forte e testardo. Pensa di togliersi la vita, a causa del fardello disumano che per anni e anni si è sentito addosso ma non lo fa, soprattutto per riguardo a suo nonno, dice, ma in realtà perché – come si ha modo di capire leggendo qualsiasi suo romanzo – Bernhard ama profondamente quell’opera d’arte immane che è la vita.
Ad ogni modo, certamente il nonno svolge un ruolo più che fondamentale nella sua vita: lo guida, lo illumina, lo sprona, lo provoca anche, senza alcun riguardo per la sua giovane età: dispensatore di saggezza, ma anche di spietati giudizi nei confronti della realtà... il nonno: amato e venerato sopra ogni cosa.

Io credo che in queste poche pagine ci sia tutto ciò che ha fatto di Thomas Bernhard l’uomo che è stato: la sua intelligenza eccezionale e la sua incapacità di “appartenere” a qualsiasi cosa, la sua prepotente vitalità e il suo rapporto di seduzione con la morte... ma soprattutto, come dicevo prima, l’assoluta mancanza di autocommiserazione: lo stile si mantiene asciutto, vivace, affilato come un rasoio. Anziché significare freddezza, a mio avviso è un linguaggio di una potenza senza precedenti.
Per tutte queste ragioni, non posso che consigliarvi questo libro breve, intenso ma scorrevole e semplice da leggere. A maggior ragione nel caso in cui siate interessati a lui (magari incuriositi dalla mia “intervista”) ma abbiate paura di affrontare il suo stile ridondante e ossessivo, vi consiglio di iniziare da qui, dal racconto di un bambino “difficile” che lotta contro tutto e tutti per affermare se stesso.
 
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