Van Gogh, Vincent - Lettere a Theo

ayuthaya

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(dal Giornalino n. 13)

So per certo che possiedo un istinto per il colore e che mi verrà sempre di più e che la pittura l’ho fin nel midollo delle ossa.

Ho desiderato leggere questo libro dopo aver visitato la mostra “Van Gogh. Tra il grano e il cielo”, tenutasi a Vicenza nel 2018, il cui filo conduttore era costituito appunto da alcuni brani tratti dal fittissimo epistolario che Vincent intrattenne con suo fratello minore Theo, da quando andò via di casa, all’età di 29 anni, fino alla morte solo 8 anni dopo. Questi brani accompagnavano il percorso della mostra, fungendo da commento e corollario alle opere stesse, ma non solo: aprivano uno spiraglio sulla vita appassionata e tormentata di uno degli artisti più amati del Novecento. Benchè Van Gogh non sia mai stato uno dei miei pittori preferiti non poteva non “tentarmi” un’occasione del genere... e, come spesso succede, la realtà ha superato le aspettative. Non solo sulla mostra, ma soprattutto su questo libro. Perchè non solo ho potuto ritrovare, inseriti nel loro contesto, alcuni dei brani che più mi avevano colpito durante la visita, ma ho scoperto che Lettere a Theo, che temevo per la sua forma di epistolario, si è rivelato molto di più di questo: un’autobiografia, una confessione, una testimonianza di fede, un saggio di arte moderna, un percorso di formazione, un “romanzo” vero e proprio, durante il quale ho seguito con il fiato sospeso il succedersi degli eventi: gli amori, i litigi, le privazioni, e in generale le scelte fatte da un uomo dotato di tanta sensibilità quanto di una caparbia determinazione. È forse questo l’aspetto che mi ha colpito di più: il sentirmi totalmente “avvinta” dalla narrazione, quasi si trattasse di letteratura e non di una vita reale.
E poi c’è la forza del carattere di Vincent, che non mi sarei mai aspettata.

Il motivo per cui non ho mai amato particolarmente Van Gogh è che... lo amano tutti. Di lui, oltre all’indubbio valore artistico, conosciamo soprattutto la “pazzia”, come se questa, sola, possa identificare un uomo. Grazie alle sue stesse parole ho scoperto invece un uomo che prima di diventare “pazzo”, è stato un uomo estremamente coraggioso e forte, che non ha avuto paura di rinunciare ai propri privilegi (i Van Gogh erano benestanti, lui stesso era stato assunto presso un’azienda importante, presso la quale poi lavorerà suo fratello Theo in qualità di mercante d’arte) e di mettersi contro la propria famiglia (in particolar modo suo padre, con il quale ha avuto sempre un rapporto molto burrascoso, al limite della rottura, per fortuna mai avvenuta) per seguire la propria vocazione. E questa vocazione non è tanto l’arte, o almeno non solo e non da subito: ci vorranno alcuni anni infatti perché Vincent capisca che è questo ciò che vuole fare nella vita, e d’altra parte nessuno dei suoi parenti lo ha mai ostacolato in tale cammino, anzi, basti pensare che senza il sostegno anche economico di Theo, Vincent non avrebbe potuto vivere, cioè sopravvivere.
La vera vocazione di Vincent Van Gogh è la scoperta dell’uomo nella sua povertà. E per arrivare a capire, ad amare, a “ritrarre” la povertà dell’uomo, bisogna abbracciare totalmente questa povertà, non come un supplizio ma come un dono, un’occasione.
E chiunque scelga la povertà e l’ami, possiede un grande tesoro e udrà sempre chiaramente la voce della coscienza; chiunque oda tale voce e le obbedisca, troverà in essa un amico e non sarà mai solo.
Vincent amava profondamente “sporcarsi le mani”: basta scorrere i suoi meravigliosi studi a matita di contadini, seminatori, tessitori per sentire la sua convinzione che la Verità dell’uomo risiede nella fatica, nelle mani deformate dal freddo e screpolate dal sole...
È stato davvero uno strano spettacolo vedere i minatori che rincasavano al crepuscolo sulla neve bianca. Gli uomini sono completamente neri: quando risalgono nelle miniere sembrano spazzacamini.
Immergersi in questa dimensione del vivere è la vera vocazione di Vincent e lui le resterà fedele fino alla fine, anche contro se stesso. “Chiunque viva sinceramente e affronti senza piegarsi dolori e delusioni è assai più degno di chi ha sempre ricevuto il vento favorevole, non conoscendo altro che una relativa prosperità. (...) è meglio essere audaci facendo più errori, che non troppo prudenti e di mente ristretta. É bene amare molte cose, poiché nell’amore è la vera forza: chi ama molto può fare e realizzare molto, e ciò che si fa con amore è ben fatto.

Questa dedizione assoluta alla propria causa ha suscitato dissidi molto profondi con i suoi famigliari, che non riuscivano ad accettare il totale rifiuto di Vincent ad accettare compromessi. I suoi amori erano amori tormentati, ossessivi e malati, se non addirittura a senso unico, come nel caso della cugina Kee per la quale conia e ripete ossessivamente l’espressione “lei e nessun’altra”. Nel caso di Sien, ex prostituta incinta butterata dal vaiolo, Vincent combatterà contro tutto e tutti nel suo proposito di volerla sposare: si sente legato a lei dalla sofferenza, dalla malattia, dall’innata compassione verso gli ultimi. Vincent è un uomo che dà tutto se stesso, ma cosa ha da offrire a questa creatura più disgraziata di lui? La lascerà solo quando suo fratello lo farà rinsavire e da allora non ne parlerà più, quasi non fosse mai esistita.
Il suo ritirarsi da una vita “mondana” o almeno socialmente accettabile, la sua indifferenza alla seduzione di qualsiasi “posizione”, venivano interpretate come una forma di “ozio”, una rinuncia piuttosto che una scelta. D’altra parte, le “soluzioni” suggerite dai suoi famigliari non trovano il favore dell’artista: “Migliorare la mia vita; credi davvero che non voglia farlo o non ne senta il bisogno? Vorrei essere migliore di quanto non sia. Ma appunto perché lo desidero profondamente, temo quei rimedi che possono rivelarsi peggiori del male stesso. Si può biasimare un malato che esige di essere curato da un bravo medico anziché da un ciarlatano? (...) No, non si tratta di ostinazione: soltanto, la cosiddetta medicina non era adatta a lui.

E ancora, un passo che mette i brividi: “C’è chi è fannullone per pigrizia e per mollezza di carattere, per la bassezza della sua natura, e tu puoi anche prendermi per uno di quelli. Poi c’è l’altro tipo di fannullone, il fannullone per forza, che è roso intimamente da un grande desiderio di azione, che non fa nulla perché è nell’impossibilità di fare qualcosa, perché gli manca ciò che è necessario per produrre, perché è come in una prigione, chiuso in qualche cosa, perché la fatalità delle circostanze lo ha ridotto a tal punto; non sempre uno sa quello che potrebbe fare, ma lo sente d’istinto: eppure sono buono a qualcosa, sento in me una ragione d’essere! So che potrei essere un uomo completamente diverso! A che cosa potrei essere utile, a cosa potrei servire? C’è qualcosa in me, che è dunque. Questo è un tipo tutto diverso di fannullone, se vuoi puoi considerarmi tale. Un uccello chiuso in gabbia in primavera sa perfettamente che c’è qualcosa per cui egli è adatto, sa benissimo che c’è qualcosa da fare, ma che non può fare; che cosa è? “Gli altri fanno il nido e i loro piccoli e allevano la covata”, e batte la testa contro le sbarre della gabbia. E la gabbia rimane chiusa, e lui è pazzo di dolore.

Da questa crisi profonda (che nulla a che vedere con la “pazzia” vera e propria, la quale lo coglierà solo negli ultimi due anni di vita) egli uscirà, rinnovato, quando si renderà conto che la sua vita è l’arte e l’arte è la sua vita. Da quel momento in poi le cose non andranno “meglio” (nè economicamente nè fisicamente), ma la sua esistenza avrà finalmente trovato uno scopo; per lui significherà anteporre il lavoro al denaro, laddove l’essere artista presupponeva una scelta fra i due, anzi, peggio: “Grazie a Dio ho il mio lavoro; ma anziché guadagnarmi del denaro con esso, ho bisogno di denaro per poter lavorare, questo è il guaio”. Spendere il denaro che gli mandava Theo per colori e tele piuttosto che per il cibo... questo era Van Gogh! Ma fino alla “rottura definitiva” Vincent sarà riuscito, se non a spiccare il volo, almeno ad aprire quella gabbia che lo teneva prigioniero.
L’arte è gelosa, non vuole che a lei si preferiscano altre malattie, così faccio quanto desidera. (...) Voglio che tu capisca bene la mia concezione dell’arte. Bisogna lavorare a lungo e duramente per afferrarne l’essenza. Quello a cui miro è maledettamente difficile, eppure non penso di mirare troppo in alto. Voglio fare dei disegni che vadano al cuore della gente. Sorrow non è che un inizio (...) Sia nella figura che nel paesaggio vorrei esprimere non una malinconia sentimentale ma il dolore vero.
Il suo monito artistico in questi anni è “imparare dalla natura”: il disegno dal vero, lo studio dai modelli, sono queste le priorità di Vincent, “affamato” di verità. “Ritengo che la via più sicura, che non può fallire, è di lavorare dalla natura con fedeltà ed energia. Prima o poi il sentimento e l’amore della natura dovranno provocare una reazione in persone che s’interessino all’arte.
Che cosa è il disegno? Come lo si impara? É lavorare attraverso una muraglia invisibile in ferro che sembra sorgere tra quanto si sente e quanto uno sa fare. Come attraversare quel muro – visto che sbatterci contro è inutile?

Nasce il primo capolavoro (che a dire il vero non è mai stato uno dei miei preferiti)...
“Ho cercato di sottolineare come questa gente che mangia patate al lume della lampada ha zappato la terra con le stesse mani che ora protende nel piatto, e quindi parlo di lavoro manuale e di come essi si siano onestamente guadagnato il cibo. Ho voluto rendere l’idea di un modo di vivere che è del tutto diverso dal nostro di gente civile. (...) Potrà dimostrarsi un vero quadro contadino. So che lo è. Personalmente sono convinto che i risultati migliori si ottengano dipingendoli in tutta la loro rozzezza piuttosto che dando loro un aspetto convenzionalmente aggraziato. (...) Se un quadro di contadini sa di pancetta, fumo, vapori che si levano dalle patate bollenti – va bene, non è malsano; se una stalla sa di concime- va bene, è giusto che tale sia l’odore do stalla; se un campo sa di grano maturo, patate, guano o concime – va bene, soprattutto per la gente di città”.

Una sorta di file rouge che percorre l’intero epistolario è la consapevolezza , acquisita giorno per giorno, che Van Gogh ha di sè come artista: fa quasi sorridere come egli cercasse di “convincere” Theo – che, oltre ad essergli fratello, amico, sostegno morale ed economico, era anche il suo mecenate – di essere sulla buona strada. “Sento che sono in grado di fare qualcosa di valido, che ti ripagherà di tutto ciò che tu hai fatto per me”: questo, a parole mie, è il concetto che egli esprime insistentemente, cercando conferma forse più in se stesso che in suo fratello. D’altra parte, succede anche che Vincent “rimproveri” Theo di non fare abbastanza per piazzare i suoi quadri, quasi non credesse nel loro oggettivo valore (cosa che, dagli scritti di Theo, sappiamo non essere vera). D’altra parte, quando davvero inizierà a riscuotere un certo “successo” (poco tempo prima di morire) lui stesso sembrerà averne paura, quasi che il suo fragile equilibrio potesse spezzarsi sotto il “peso” dell’affermazione pubblica, del mercato.

Molto interessante è il momento (siamo ancora nel 1885, l’anno dei Mangiatori di patate) in cui egli testimonia il passaggio da un realismo puro a una tendenza, se non espressionista, comunque alternativa a quella puramente imitativa.
Non potrei forse dedurre che è meglio per un pittore iniziare dai colori della sua tavolozza che dai colori della natura? (...) Della natura conserverò una certa sequenza e una certa esattezza nel disporre i toni, e studio la natura in modo da non fare sciocchezze e restare nei limiti del ragionevole; tuttavia non mi importa che il mio colore sia proprio lo stesso, purchè sia bello sulla tela, tanto bello quanto in natura. (...) Una testa virile o femminile, osservata bene e con calma, è divinamente bella, non è vero? Ebbene, si perde l’armonia generale dei toni della natura con un’imitazione penosamente esatta; mentre la si mantiene ricreando una gamma cromatica parallela che può non essere precisamente quella del modello, o addirittura ben diversa.

Dalle lettere a Theo traspare poco della sua malattia... Negli ultimi anni (dal 1886 in poi) la corrispondenza si dirada (anche perché per molto tempo Vincent e Theo vivono insieme a Parigi) e i suoi scritti diventano sempre più “tecnici”, non semplici da seguire per chi non sia un esperto d’arte e di teoria dei colori. Il soggiorno parigino si rivela insieme stimolante e faticoso. “Rifugiatosi” ad Arles, nel sud della Francia, Van Gogh vive un momento di massima tensione creativa, una vera esplosione di ispirazioni, idee, progetti... Per molti mesi accarezza il sogno di fondare una comunità di artisti che abbia sede nella famosa “Casa gialla” e sia supportata economicamente da Theo. La consapevolezza della potenzialità “rivoluzionaria” che sprigionava da un folto gruppo di artisti spesso diversi fra loro, ma accomunati dalla ricerca di un nuovo linguaggio, riempie Vincent di illusioni, che si dissolveranno l’una dopo l’altra: il totale fallimento della breve convivenza con Gaugain coincide con il primo manifestarsi della malattia (proprio durante un litigio con l’amico Vincent si ferì l’orecchio)...
Da questo momento inizia la fase più cupa della sua vita e delle sue lettere: dentro e fuori dagli ospedali, poi dalla casa di cura di Saint-Rèmy-de-Provence (dove alloggerà spontaneamente per quasi un anno) e alla fine lo sprazzo di una luce nel breve soggiorno a Auvers-sur-Oise , fino alla morte il 29 luglio 1890. Nelle lettere, momenti di profonda lucidità si susseguono ad altri in cui egli sembra quasi volersi accomiatare da una realtà alla quale forse sente di non appartenere più.

Certo sarebbe meraviglioso ricevere una testimonianza tanto profonda da ogni grande artista che ci ha lasciato, ma avendo avuto in dono dalla sorte questa preziosa occasione non posso che consigliare a chiunque di non farsela scappare.

Dichiaro di non saperne assolutamente nulla, ma la vista delle stelle mi fa sempre sognare, come pure mi fanno pensare i puntini neri che rappresentano sulle carte geografiche città e villaggi. Perché, mi dico, i punti luminosi del firmamento ci dovrebbero essere meno accessibili dei punti neri della carta di Francia? Se prendiamo il treno per andare a Tarascon oppure a Rouen, possiamo prendere la morte per andare in una stella.
 
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