Bellow, Saul - Il re della pioggia

ayuthaya

Moderator
Membro dello Staff
Questo è il terzo libro che leggo di Saul Bellow – autore ebreo nato in Canada e naturalizzato statunitense, premio Nobel 1976 – e il primo che mi sia davvero piaciuto.
Sebbene infatti il punto di partenza nei tre libri sia il medesimo: un uomo di mezza età preso da una crisi esistenziale, lo sviluppo narrativo è completamente diverso, perchè diverso è il carattere del protagonista. Henderson non si lascia sopraffare dagli eventi come Herzog (non ricordo moltissimo di questo romanzo, ma l’impressione era di un uomo che tendesse a piangersi addosso), né, come Joseph, si autocompiace della solitudine a cui lo condanna la sua intelligenza. A differenza dei suoi “fratelli di penna”, in Henderson vi è innanzitutto una buona dose di autoironia, che pervade l'intero romanzo e lo rende leggero e godibile nonostante i temi affrontati non siano affatto superficiali. In secondo luogo, il protagonista non conosce la rassegnazione e non si abbandona all’inazione, anzi.

A un certo punto della sua vita egli si rende conto che la realtà che lo circonda non ha più nulla da offrirgli, si sente stanco e nauseato, ma anziché lasciarsi andare decide di dare finalmente ascolto a quella vocina interiore che per tutta la vita gli ha detto Voglio, voglio, voglio!, senza fra l'altro specificare mai cosa volesse, e che fino a quel momento aveva cercato di mettere a tacere a forza di palliativi. Nonostante le sofferenze sia fisiche sia spirituali accumulate nel corso della sua vita, quest'uomo dotato di una forza fisica smisurata e di un'altrettanto smisurata voglia di vivere, decide che per sopravvivere il cambiamento deve essere radicale. Per questo motivo abbandona i suoi genitori, le sue mogli, le sue ragazze, i suoi figli, la sua fattoria, i suoi animali, le sue abitudini, i suoi soldi, le sue lezioni di musica, le sue sbornie, i suoi pregiudizi, la sua violenza, i suoi denti, la sua faccia, l’anima sua!, per andare in Africa alla ricerca di una verità primordiale, cose antiche, che aveva visto quando era ancora innocente, e che da allora aveva sempre bramate, per tutta la sua vita, senza le quali non avrebbe potuto farcela.
Inizia quindi il suo viaggio: partito in occasione della luna di miele di un suo amico di infanzia, Henderson decide presto di lasciare i suoi compagni per inoltrarsi nel cuore dell'Africa accompagnato solo da un interprete del posto, il fedele Romilayu. Il primo popolo che incontra, dopo lunghi giorni di faticoso cammino, allo scopo di lasciarsi alle spalle qualsiasi forma di “civiltà”, sono gli Arnewi, una tribù pacifica e cordiale. Dopo un primo momento di delusione, quando si rende conto che il loro re parla inglese ed è colto, Henderson si entusiasma all’idea di aver trovato finalmente chi riesca a svegliarlo dal suo torpore di uomo occidentalizzato, offrendogli in dono “l’ora che ruppe il sonno dello spirito”. – Grun-tu-molani: l’uomo vuole vivere! – gli rivela la regina madre, e lui sente di aver raggiunto la propria meta.
Allo stesso tempo l’americano si convince di poter essere per questo popolo un salvatore, liberandoli dalla piaga dei “ranocchi” che rischia di far morire bestie e uomini. L’impresa fallirà miseramente e Henderson, sempre più convinto di avere in sè il germe del male che contamina ogni buona intenzione, con la morte nel cuore è costretto ad abbandonare gli Arnewi. Ma non sarà la fine del suo viaggio: egli farà la conoscenza con un altro popolo e un altro re, filosofo e quasi medico, del quale diventerà grande amico. Presso gli Wariri egli riacquisterà fiducia in se stesso, ma finirà coinvolto in qualcosa di più grande di lui, le cui conseguenze potrebbero essere molto gravi.

Questo libro mi è piaciuto perchè si destreggia con grande abilità fra verità profonde e l’ironia di chi non si prende troppo sul serio. Soprattutto è un invito a non soffocare quella voce dentro che ripete Voglio, voglio, voglio! e a non confonderla con l’ennesima brama consumistica della nostra epoca, ma al contrario a riconoscerla per un bisogno profondo della nostra anima, da appagare anche a costo di mettere in discussione tutta la nostra esistenza.

"C’è una poesia, di un usignolo il quale canta che l’uomo non può sopportare troppa realtà. Ma quanto irrealtà può sopportare?"
 
Ultima modifica:
Alto