Shand, Mark - Viaggio in India in groppa al mio elefante

elisa

Motherator
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Ogni vecchia dimora inglese nasconde tra le sue mura qualche disegno, un dipinto o magari un’incantevole, polverosa illustrazione d’epoca coloniale in cui è possibile contemplare l’intrepido esploratore che si avventura nel fitto della giungla minacciosa, oppure una gigantesca tigre del Bengala nell’atto di avventarsi con le fauci spalancate sui portatori atterriti, o un elefante imbizzarrito che devasta il campo di spedizione.
Nel mettere in ordine qualche tempo fa la casa della nonna dopo la sua morte, Mark Shand scovò un disegno simile. Raffigurava un elefante maschio infuriato sul punto di caricare un piccolo mahout indiano. L’incanto fu così grande che Shand accarezzò per la prima volta l’idea di una pacifica passeggiata attraverso l’India in groppa a un elefante.
L’idea, tuttavia, sarebbe rimasta nient’altro che un pensiero fugace, se qualche tempo dopo Shand non si fosse ritrovato a sfogliare un libro sull’India. Dalla pagina aperta ammiccava furbescamente un gentiluomo dalle lunghe basette con in capo uno sgargiante cappello piumato, seduto con nonchalance a cavalcioni di un elefante. Si trattava di Tom Coryat, l’eccentrico inglese che nel 1615 aveva raggiunto l’India per via di terra a piedi e, una volta al cospetto del Gran Mogol, aveva solennemente affermato: «Da quando sono arrivato in questa corte cavalco sempre un elefante, sì che ho concepito il proposito di far riprodurre un giorno (col favore di Dio) il mio ritratto, sul mio prossimo libro, in groppa a un elefante».
Da quel momento, la prospettiva di vedere riprodotto su un libro il suo ritratto in groppa a un elefante divenne per Shand un’ossessione. Con o senza il favore di Dio, si imbarcò così un giorno per Delhi e, nei pressi di Daspalla, vide e comprò da un gruppo di mendicanti Tara, un’elefantessa che se ne stava addossata con noncuranza a un albero, l’incantevole posteriore squisitamente tornito in piena vista, come una prostituta a un angolo di una strada. Così ebbero inizio le peregrinazioni di Shand nel subcontinente indiano e le sue argute descrizioni di templi, villaggi, usanze che fanno di questo libro un affascinante racconto d’avventura e, al tempo stesso, un tenero romanzo d’amore. Lungo le strade che dal Golfo del Bengala portano a Sonepur, attraverso il Gange, fino al grande bazaar degli elefanti, Mark Shand infatti non soltanto apprende molti segreti dell’India rurale, di Ganesh, l’elefante dio, degli imponenti festival che scandiscono la vita dei villaggi, dell’esistenza di principi e mendicanti, poliziotti e prostitute, santoni e mercanti, ma si imbatte soprattutto in qualcosa di assolutamente inaspettato: nella constatazione che in India un inglese può innamorarsi del suo elefante, se l’elefante ha, come Tara, una personalità dolce, femminile e seducente.

Solo a un nobile inglese, per di più fratello di Camilla, la moglie di Carlo di Inghilterra, potrebbe venire la balzana idea di attraversare l'India in groppa a un elefante per il gusto e la sfida di diventare il primo mahout straniero, ossia un conducente di elefanti professionista. Ed è in questo strampalato viaggio che si snodano avventure e pensieri, tali da poterne fare un reportage interessante sia dal punto di vista turistico che sociale. Shand scrive bene ma per tutta la lettura mi sono chiesta il perché fare una cosa così eclatante per poi regalare alla fine l'elefantina, che si era affezionata a lui, a una coppia di inglesi che gestisce un resort. E poi c'è della brutalità per far fare agli elefanti quello che gli umani vogliono e trovo che in questo caso non sia giustificata per nulla. Ah, questi nobili inglesi!
 
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