“Era la bestia d’oro, incosciente come una forza della natura, e bastava il suo odore a infettare il mondo.”
Questo romanzo mi ha conquistato fin dal primo capitolo. Siamo a teatro, ma non in un teatro qualsiasi: il direttore stesso, Bordenave, personaggio volgare e chiassoso, ma ridanciano, pretende di definirlo “il suo bordello” e ancor prima che si alzi il sipario non vuole nascondere l’assoluta mancanza di talento della giovane debuttante che, ne La Blonde Vénus, riveste il ruolo della Venere seduttrice. Pagine e pagine sono dedicate all’attesa che la rappresentazione abbia inizio e, nel frattempo, è tutto un susseguirsi di mormorii, pettegolezzi, supposizioni, in un crescendo di aspettative sempre più “palpabile”. Già, perchè la cosa davvero sorprendente è che leggendo sembra di essere fisicamente lì, al Variétés, in mezzo alla folla che si muove, si addensa o si disperde, si incontra o finge indifferenza, soffre il caldo o gode di una piacevole frescura a seconda che sia stipata lungo il ridotto del teatro o fuori, all’aria aperta. Siamo lì anche noi, in mezzo alla platea o comodamente seduti in una barcaccia, e anche noi, come ognuno degli spettatori presenti, non possiamo fare a meno di chiederci: “Ma chi è questa Nanà? Sarà all’altezza di una così alta aspettativa?”
E alla fine, quando la tensione ormai è divenuta insopportabile, Nanà compare sulla scena e Zola è straordinario nel descrivere quell’unico istante in bilico fra il fiasco più totale e la consacrazione. E finalmente, grazie all’urlo entusiasta di un giovane incantato, la tensione si scioglie: è la consacrazione. Nanà non sarà talentuosa, ma di certo è carismatica: merita il suo trionfo, così come merita tutto ciò che, nei capitoli successivi, col suo cinismo, la sua avidità, la sua ridicola pretesa di “perbenismo”, ma in fin dei conti anche col suo incrollabile candore di bambina sfuggita alla fame, riesce a conquistare.
Se mi sono soffermata così tanto a descrivere questa prima scena, è perché leggendola ho capito tutt’a un tratto cosa significhi quel “naturalismo letterario” di cui Zola è considerato uno dei massimi esponenti: significa sentirsi raccontare una storia e poterla non solo immaginarla, ma viverla con i sensi, quasi fosse anch’essa una rappresentazione teatrale – non per niente i primi capitoli assomigliano in tutto e per tutto a degli atti – e noi ne facessimo parte: un coinvolgimento non solo mentale, quindi, ma anche fisico, dei sensi. Ciò diventa ancora più evidente quando l’azione si sposta dagli spazi “pubblici” del teatro al “dietro le quinte”: camerini, magazzini, corridoi... luoghi bui e polverosi, soffocanti di odori e calore umano che si mescolano e inebriano come una droga. É ciò che accade al conte Muffat, che, proprio all’interno di un camerino sporco e soffocante, si lascia sopraffare dalla travolgente e intima sensualità di Nanà. E insieme a lui, uno dopo l’altro, tutti capitolano di fronte a questa donna che sempre più si mostra insensibile, priva di scrupoli. Sono uomini che, indipendentemente dalla posizione, dall’età, dalla pretesa autorevolezza, accettano di essere dilapidati del loro patrimonio e della loro dignità (l’uno e l’altra vanno di pari passo, sesso e denaro sono indissolubilmente legati): chi incoscientemente, chi lottando contro la propria coscienza, chi rincorrendo la propria rovina quasi fosse un onore.
E così, il “morbo” della debolezza umana si diffonde pericolosamente e dal singolo individuo finisce per intaccare ogni cosa: la famiglia, la classe sociale, la società intera. “In quell’attimo di lucidità (il conte Muffat) si disprezzava. Era proprio così: in tre mesi lei aveva corrotto la sua vita, si sentiva già infettato fino al midollo da sozzure che non avrebbe mai immaginato. Dentro di lui tutto sarebbe marcito. Per un istante ebbe coscienza degli effetti del male, vide la disgregazione causata dal quel fermento: lui avvelenato, la sua famiglia distrutta, un pezzo di società che scricchiolava e crollava.” Ed è quello che puntualmente accade.
Il fatto che la corruzione, la depravazione coinvolgano trasversalmente ogni classe sociale sembra sottolineare che è la debolezza del singolo uomo a trascinare con sè nell’abisso il sistema di valori che credeva di aver costruito e in cui si illudeva di essere al sicuro.
In quest’opera Zola celebra l’immenso potere del desiderio e del piacere, contro cui sembra non esista difesa; un potere indecente, certo, ma che non per questo non merita di vedersi riconosciuto: “(Nanà) aveva un’altra cosa, una bazzecola di cui si rideva, un po’ della sua nudità delicata, e con quella quisquilia, vergognosa ma molto potente, la cui forza sollevava il mondo, da sola, senza operai, senza macchinari inventati dagli ingegneri, aveva fatto tremare Parigi e costruito quella ricchezza sotto la quale riposavano cadaveri.”
Insomma, se non si è ancora ho capito, questo libro per me è stata una rivelazione (nonostante avessi già letto e apprezzato Thérèse Raquin) e a differenza di Nanà che, riferendosi evidentemente al suo creatore, con grande ironia di quest’ultimo, afferma di provare “un’indignata ripugnanza verso quella letteratura immonda che aveva la pretesa di rappresentare la natura, come se si potesse mostrare tutto, come se un romanzo non dovesse essere scritto per passare un’ora piacevole”, io ringrazio Emile di averci regalato questo pezzettino di “letteratura immonda”.