La faccia nella sabbia

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Nel giorno del 5° anniversario della strage di Nassirya posto volentieri questo racconto breve, premiato al concorso letterario " In memoria di Nassirya", promosso dalla provincia di Olbia e Tempio e dall'associazione Didaskalos, novembre 2007.


di Gianluca Lombardi*

Interno giorno. L’interno è quello del carcere romano di Rebibbia, uno stanzino disadorno, ma che ha il pregio di stare esattamente sopra la sala colloqui, dove devo ascoltare quanto si stanno dicendo un detenuto anarchico e la sua ragazza. Il giorno è il 12 novembre 2003. Edy, il mio collega, il tecnico che mi mette in condizione di ascoltare tutto quello che dicono al piano di sotto, mi ha dato il via. Ora tocca a me, con le cuffie in testa, cercare di percepire non solo le parole ma anche i sospiri, il rumore di una penna su un foglio, una frase apparentemente insignificante che invece vuol dire, o potrebbe dire, molto. Potrei farlo dopo, potrei registrare e riascoltare: lo farò, certo che lo farò, ma credo sia importante anche ascoltare la diretta. Sono fatto così. Sono convinto che certe emozioni, certe inflessioni, certe impressioni le ascolti, le senti, le percepisci solo nel loro contesto naturale. Non le sentiresti più due ore dopo, non risentiresti lo stesso rumore pur nel silenzio del tuo ufficio. Edy è entrato ed uscito dallo stanzino quattro o cinque volte: poco fa mi ha fatto il gesto della tazzina, per il caffè. Senza staccare se non per un solo attimo gli occhi dal registratore (mi concentro guardandolo, mi sembra di vederli, quei due lì sotto, che parlano e rumoreggiano, e a volte tentano anche di amoreggiare), gli faccio segno che non ne voglio. Edy entra ancora. Non faccio in tempo a fare un gesto di insofferenza. Mi alza la cuffia e mi dice qualcosa nell’orecchio. Poi esce di corsa come è entrato. Non lo sto neanche a sentire, anche infastidito, e continuo a guardare il registratore e ad appuntarmi passaggi di idee, spezzati di vita carceraria, cronache di un amore vissuto con le sbarre alle finestre. Continuo ad aspettare il messaggio subliminale, convinto di dover solo attendere, con pazienza e attenzione. Quel messaggio arriverà. Ma non quel giorno. Improvvisamente realizzo le parole di Edy. <Una bomba alla nostra base a Nassirya>. Mi strappo le cuffie ed esco in corridoio. In fondo c’è il gabbiotto degli agenti di custodia, la sala d’attesa per gli avvocati è vuota. Lui, l’agente di turno, fissa la radio, legata con una catena al bancone. <Non si sa nulla, solo che ci sono tanti morti>. Afferro e accendo il mio cellulare di servizio. Non si potrebbe portarlo dentro, quello personale l’ho lasciato regolarmente nella cassetta di sicurezza, con la pistola e le altre cose. Questo no, questo mi serve per rimanere in contatto con il mondo anche da dentro un carcere, mi serve per le emergenze operative. <Rispondimi a questo cazzo di messaggio>. Punto. Senza virgole, interrogativi, faccine e parentisi: il destinatario è Maurizio Lucchesi. L’ ho sentito qualche giorno fa, o meglio ci siamo messaggiati qualche giorno fa. Dopo che al comandante della stazione Carabinieri di Viale Libia è saltata una mano per via di una bomba anarchica. <Prendeteli, cazzo, prendeteli>, mi aveva scritto nell’ultimo dei suoi sms. Faccio fatica, enorme fatica, ma di sotto continuano a parlare, parlare, parlare. Mi rimetto le cuffie ma non fisso più il registratore. Ci eravamo visti qualche mese prima, a Roma. Lui era venuto a parlare con il grande capo, per chiedergli, o meglio per preannunciargli che avrebbe presentato domanda di trasferimento. Lui è fatto così, se si mette in testa una cosa, non gliela toglie nessuno. Aveva deciso di andar via, ed andare via per lui significava il più lontano possibile. Quando qualche settimana dopo chiesero un sottufficiale del Ros per andare a Nassirya, il capo lo accontentò.
L’ora di colloquio è terminata. A staccare tutte quelle prese, i cavi, il registratore ci penserà il mio collega. Io prendo la microcassetta, la metto in tasca ed esco. Non mi fermo al gabbiotto: dentro c’è il collega della penitenziaria che ascolta la radio in silenzio, con lo sguardo fisso nel vuoto. Salgo sullo scooterone e mi tuffo nel traffico della Tiburtina: all’ora di pranzo, in direzione centro, vale il raccordo anulare. Guido e penso, penso e mi fermo al semaforo. Arrivo in ufficio come per incanto, mi ritrovo ad osservare la sbarra che si alza e quasi non mi ero accorto di essere li. Non guardo nessuno, non apro internet, non accendo la tv. Guardo e riguardo il mio cellulare: penso che Maurizio lo conosco, penso che magari non ha certo il tempo di stare a tranquillizzare me. Non lo farebbe nemmeno con la moglie, è vivo, sta bene, sta portando i soccorsi. La moglie. I bambini. La chiamo o no? Sa già dell’attentato? Lo ha sentito? Gli ha telefonato? Continuo a lavorare in un’atmosfera surreale per tutto il pomeriggio, ogni tanto guardo il cellulare in attesa di un messaggio che non arriva. <Un camion bomba, tanti morti e molti feriti. I morti sono quasi tutti Carabinieri>. Di quel pomeriggio ricordo solo questa sintesi ma non riesco a ricordare chi me l’ ha detto. Chiudo tutto e vado a casa. Il mio capo è in un altro ufficio: cominciano ad arrivare notizie più precise, ma non chiedo nulla. A casa mia, a cena, non esistono mezze misure: o si parlava tanto oppure, quando “stavamo litigati”, non si parlava affatto. Quella sera non si sarebbe parlato comunque: ci sono quelle immagini che non permettono di farlo. Lei non sa, non ha realizzato, credo non sappia nemmeno che Maurizio è in missione in Irak. Giro e rigiro il cellulare tra le mani, poi mi alzo da tavola e continuando a fissare la tv, quando capisco che ormai stanno per arrivare le prime lacrime, che non reggo più, le dico che <c’è Maurizio, laggiù>. Si gira di scatto e vorrebbe parlare, dire qualcosa, ma mi accorgo che non le esce nulla. Si bagnano anche i suoi occhi, lei continua a guardare la tv ed io faccio il numero del mio capo.<Lei sa cosa voglio sapere, vero?>. E’ l’unico collega del Ros che è laggiù, è l’unico che conosco personalmente. Con lui abbiamo condiviso le notti sull’autoradio in Umbria, con lui abbiamo passato il nostro giorno di riposo in appostamento per arrestare uno spacciatore, con lui ci siamo presi responsabilità più grandi di noi. E’ lui che mi ha fatto innamorare del Ros, è lui che di notte, in inverno, mi permetteva di fumare in macchina ma apriva tutti i quattro finestrini. E’ con lui, sua moglie ed i suoi bambini che ho passato la notte dell’ultimo dell’anno quella volta che non sono potuto andare il licenza. Il capo lo ha capito che voglio sapere soprattutto di lui, solo di lui. Non c’è bisogno di chiedere niente.<E’ grave, lo hanno evacuato a Bassora in elicottero>. Passa del tempo, secondi o forse minuti: non riesco a guardare mia moglie che mi fissa cercando di interpretare la mia faccia. Farfuglio un grazie e dall’altra parte lui mi dice solo: <forza>. Attacco ma non ho il tempo di pensare nulla: il cellulare squilla ancora ed è ancora il mio capo, dall’ufficio. <Guarda, volevo solo dirti che però io sono convinto che ce la farà. Me lo sento>. Farfuglio ancora un grazie, cerco di capire se sa più di quello che mi detto, voluto o potuto dire. Apprezzo, comunque. E’ la peggiore delle nostre deformazioni, o forse solo un pregio, di molti di noi del Ros quella di non accettare mai passivamente quel che ci viene detto ma tentare di pesare, ponderare, valutare ogni gesto, ogni pausa, ogni sillaba dei nostri interlocutori, chiunque essi siano. Avrà ragione, comunque, il mio capo. Ce la farà. Antonella. Che faccio ora? La chiamo? Nella notte riesco a parlare con Federico. Ci siamo visti solo una volta al volo, ma è in queste occasioni che viene fuori la fratellanza vera, quella che lega, più degli altri e più che con gli altri, quelli che sono nella “catena” del Ros. Non sa molto più di me, ma riesco a sapere almeno che Antonella ormai lo sa e che si stà organizzando per partire ed andare in Germania, dove stanno trasferendo Maurizio, dopo averlo evacuato a Bassora. Io e Federico decidiamo di organizzarci per partire immediatamente, senza troppe formalità. Prendiamo due giorni di permesso, troviamo un volo a basso costo e partiamo domani stesso anche noi. Dobbiamo vedere, dobbiamo vederlo, accertarci che sia vivo, stare vicino ad Antonella. La mattina dopo è durissima arrivare in ufficio, la macchina organizzativa è già in moto dai primi minuti dopo l’attentato. Arriveranno le salme, ed i feriti, l’indagine toccherà a noi. Dovremo interrogare i sopravvissuti, quelli in grado di essere interrogati. Dovremo ricostruire l’attentato, quei secondi. E dovremo farlo subito, non appena avranno messo piede in Italia. Federico, intanto, mi chiama a metà mattina. <Ci ho parlato>. <Come ci hai parlato? Come hai fatto?>. Mi sembra incredibile. Mi siedo sulle scale dell’Istituto di Medicina Legale. Anche qui dovrà essere tutto pronto per le autopsie, per i riconoscimenti dei cadaveri, per l’accoglienza delle famiglie. L’aspetto organizzativo non mi spaventa: nel 1999, dopo il disastro aereo di Pristina, ho visto di peggio. <Il telefonino, ha salvato il telefonino. Era debolissimo, ma ho sentito la sua voce. Ho provato a fare il numero e squillava, mi ha risposto Antonella, poi me lo ha passato. Anto ha detto di non andare. Appena è possibile senza troppi rischi per lui lo trasferiscono in Italia, forse domani o dopodomani>. Guardo fuori: c’è la stessa pioggia leggera che il giorno dopo, all’imbrunire, illuminata dalla luce blu intermittente dei lampeggianti delle nostre autoradio, saluterà le salme dei martiri di Nassirya. Uno di quei giorni in cui è bello passeggiare sotto la pioggia, così che le lacrime si mischiano alle gocce. E puoi piangere in santa pace, senza che nessuno se ne accorga. Poi, nei giorni che seguirono, Maurizio fu solo la felicità di saperlo vivo in mezzo ad un oceano di dolore. Intorno a me i parenti di quei ragazzi morti laggiù, con la faccia nella sabbia. Ricordo le loro facce, di ognuno di loro. Ricordo le facce di ogni padre, di ogni madre, di ogni moglie, di ogni sorella o fidanzata, di tutti i figli. Ho respirato il loro dolore, ho offerto il mio braccio per accompagnarli dentro un’angusta stanzetta a guardare quel che rimaneva dei loro cari. Ho camminato su via Ostiense a fianco di quei camion che sembravano essere silenziosissimi, spinti non dal motore ma da un popolo che li seguiva. Ho alzato gli occhi ed ho visto il Tricolore ad ogni finestra. Ho visto un ragazzo con il gesso e le stampelle seguire il corteo funebre fino allo sfinimento. Ho letto i biglietti che l’Italia ha scritto per loro. Ho visto la folla fuori dalla basilica. Ho sentito i ragazzi della Sassari che cantavano Dimonios, mentre davanti mi sfilavano le bare portate sull’altare a spalla da altri ragazzi con la divisa e le lacrime agli occhi. Ho visto il cane di Maurizio fiondarsi dentro l’ambulanza percorrendo vialetti di un aeroporto che non aveva mai visto prima. Ho visto il terrore negli occhi di una giovane collega cui la morte è passata di fianco. Ho abbracciato Antonella e mi sembrava volesse non lasciare più la presa. Ho ascoltato le testimonianze dei miei colleghi, e le ho trascritte su un verbale come se scrivessi la lista della spesa. Ho abbracciato mio figlio mentre dormiva, nella notte, e gli ho giurato che il suo papà non morirà mai. Ho accarezzato il viso dolce di mia figlia che dormiva, e gli ho giurato che un giorno di questi prenderò un permesso e l’accompagnerò a scuola. Ho visto un vecchio parà indossare ancora il suo basco solo per mettersi sull’attenti davanti a quelle bare. Ho visto un bambino con la divisa del suo papà. E’ successo tutto in quei giorni. Giorni che ora faccio fatica a rimettere in ordine, di cui non ricordo più la sequenza. Giorni che vorrei dimenticare, che non vorrei mai aver vissuto. Giorni che mi sono rimasti dentro, con la sensazione di essere anch’io con la faccia nella sabbia.
 
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