"Né l'editore né lo stesso autore si attendevano, all'uscita de "I misteri di Parigi", lo sconvolgente successo che tutta la Francia - e poi tutta l'Europa - tributarono a Eugène Sue, che aveva ambientato negli inferi parigini un romanzo d'appendice: era invece un thriller ante litteram. Qualunque lettore si appassiona irresistibilmente alle gesta del principe Rodolphe di Gerolstein che cerca sua figlia Fleur-de-Marie. Da un tale successo il "genere popolare" s'impose nella cultura e dell'editoria del tempo, e scrittori come Balzac, Hugo e Dumas affidarono a questo genere i loro libri."
Spero che ci sia qualcun'altro tra voi che, come me, si è lasciato affascinare e accompagnare da questo libro di 1145 pagine ricche di intrighi, pianti, consolazioni, amori, omicidii, colpi di scena e quanto più.
Il libro è senza dubbio una sfida per il lettore. Non tanto per la mole di pagine, che si lasciano leggere semplicemente e velocemente (lo stile, infatti, è molto scorrevole), quanto invece per la nausea che può talvolta venire, a causa della pateticità portata all'estremo, o delle riflessioni-consigli che l'autore propina alla società. Sì, perché tutto il libro, mantenendo la maschera del romanzo, diventa sempre più un trattato su come gestire le classi povere, su come organizzare le prigioni, sulle pene da infliggere ai detenuti, etc.
Tuttavia, nel complesso è piacevole. E s'impara molto leggendolo: si capisce da dove viene l'imperante gusto per il lacrimevole che oggi imperversa nella letteratura o nei programmi della televisione; si capisce a chi s'ispirarono i grandi autori francesi come Dumas (tanto che il protagonista, nel suo sentirsi la mano della Provvidenza, anticipa in qualche modo la figura onnipotente del conte di Montecristo); e del resto, poiché siamo tutti della stessa pasta, fa commuovere e ci incatena alle sofferenze e ai riscatti di questi poveri soggetti.
Conclusione: bello, ma anche no.
Spero che ci sia qualcun'altro tra voi che, come me, si è lasciato affascinare e accompagnare da questo libro di 1145 pagine ricche di intrighi, pianti, consolazioni, amori, omicidii, colpi di scena e quanto più.
Il libro è senza dubbio una sfida per il lettore. Non tanto per la mole di pagine, che si lasciano leggere semplicemente e velocemente (lo stile, infatti, è molto scorrevole), quanto invece per la nausea che può talvolta venire, a causa della pateticità portata all'estremo, o delle riflessioni-consigli che l'autore propina alla società. Sì, perché tutto il libro, mantenendo la maschera del romanzo, diventa sempre più un trattato su come gestire le classi povere, su come organizzare le prigioni, sulle pene da infliggere ai detenuti, etc.
Tuttavia, nel complesso è piacevole. E s'impara molto leggendolo: si capisce da dove viene l'imperante gusto per il lacrimevole che oggi imperversa nella letteratura o nei programmi della televisione; si capisce a chi s'ispirarono i grandi autori francesi come Dumas (tanto che il protagonista, nel suo sentirsi la mano della Provvidenza, anticipa in qualche modo la figura onnipotente del conte di Montecristo); e del resto, poiché siamo tutti della stessa pasta, fa commuovere e ci incatena alle sofferenze e ai riscatti di questi poveri soggetti.
Conclusione: bello, ma anche no.