Un film che non amo e di certo non metterei tra i capolavori del cinema. Alcune sequenze sono assai efficaci, scenografie e costumi eccellenti, la recitazione mi pare molto buona, ma concordo per esempio con Tullio Kezich laddove dice che:
<< Il padrino, esaminato al di fuori del cancan pubblicitario che ne ha fatto un avvenimento mondiale, non è che un condensato di luoghi comuni sui gangster italo-americani virtuosi in famiglia e feroci sul lavoro. È fiacco nel ritmo e sceneggiato in maniera reticente: non nomina mai la mafia né Cosa Nostra, non osa diffondersi sulle coperture politiche del protagonista e spara bordate solo contro Frank Sinatra. Nella sua ambiguità può lasciar credere che ci sia una mafia pulita, contrapposta alla mafia sporca e perfino utile a fini sociali. L’episodio siciliano è di una cialtroneria offensiva. Perché non tagliarlo addirittura e mandare tutti a casa mezz’ora prima? >>
e con Giovanni Grazzini:
<< Siamo tutt’altro che convinti dall’implicito tentativo e dare tragici ed eroici connotati alla vecchia generazione, e idealizzare dei criminali che amministravano la giustizia con gli omicidi a pagamento. Farne i paladini dei valori familiari significa semmai ribadire la natura animalesca d’ogni rapporto fondato sui legami di sangue. Ma su ciò si può ancora discutere. Le maggiori macchie dell’opera, presto evidenti dopo un arioso inizio in cui durante una festa di nozze il Padrino riceve suppliche e omaggi, sono la mancanza di retroterra storico e sociale, indispensabile a capire la mafia, il silenzio di New York, la maniera con cui è rappresentata la Sicilia, il difetto d’informazione sui metodi usati dai boss per controllare i sindacati, i mercati, la vita politica e sull’uso fatto dei miliardi guadagnati, soprattutto la convenzionalità della struttura narrativa e l’assenza di scatti e invenzioni registiche (salvo che nel finale).
Il padrino è un rosario di ammazzamenti recitato tenendo d’occhio il fascino che il male esercita sulle folle. Ma c’è, direte, Marlon Brando. Diremo meglio: per consolarci c’è Brando e Al Pacino. La prova più alta, l’unica per cui merita scomodarsi, non la dà infatti il vecchio Brando, un «Padrino» gelido e premuroso, splendidamente truccato, ottimamente servito dal doppiaggio, e di magistrale istrionismo nella sua smorfia di boss cinico e stanco, ma in sostanza lontano dal cuore violento del film (oltretutto la scorciatura del romanzo è andata a svantaggio del ritratto di don Vito). La palma va al giovane, crudo Pacino, che pur orecchiando i modi di Dustin Hoffman offre un’interpretazione di Mike Corleone, il figlio mansueto tramutato in belva, da mettersi senza riserve, per modernità e concentrazione, all’attivo del film.
Simonetta Stefanelli, Corrado Gaipa, Franco Citti, Saro Urzì rappresentano con la musica di Nino Rota l’apporto italiano a un film da cui la mafia ha ben poco da temere, perché riesce confusa con le bande di gangster che infestano l’America. Quando invece, e qui casca il film, la mafia, in America e in Italia, non è soltanto materia di cronaca nera. Prima che i suoi delitti, allarmano i suoi sorrisi. >>
e anche con Alberto Moravia:
<< Il padrino è un film serio nel quale gli italo-americani sono presi sul serio. Qui comincia però l’ambiguità. Da una parte esso recupera una realtà finora ignorata, dall’altra, però, si deve proprio a questo recupero se il film, sul piano documentario e sociologico è una completa e sfacciata falsificazione: prima di tutto nell’idealizzazione sentimentale di un ambiente sociale orrendo; in secondo luogo nell’avere isolato la sottocultura italo-americana, senza mostrarcela nel più vasto contesto della cultura statunitense, di cui essa costituisce soltanto un ibridismo. Inutile dire che l’interpretazione, anche se sul piano di un inevitabile gigionismo, è ottima. >>