Wiesel, Elie - La danza della memoria

elena

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Ci sono libri che vanno solo letti altri che vanno anche vissuti: la Danza della memoria rientra senza dubbio tra questi ultimi. Leggere quest’opera ha rappresentato per me un’esperienza di vita: mi sono immersa nel mondo interiore dell’eccezionale protagonista con una tale intensità che ho avuto la sensazione di condividere i suoi pensieri, le sue paure e i suoi impulsi (credo di non conoscere un altro autore che riesca ad esprimere i sentimenti come Wiesel).
La vicenda prende avvio dal concetto di “follia”, termine che Doriel Waldan, il protagonista, non ama sostituire con altri più tecnici usati dalla sua psicoterapeuta (una “guaritrice di anime” che passa la vita a sondare l’inconscio, cassaforte e pattumiera del sapere e del vissuto, un archivio sotterraneo che si deve, si può decifrare, con domande infantili o bizzarre) a cui si rivolge per liberarsi dal suo dibbuq (figura, presente nella cabala e nel folclore popolare dell’Europa centrale, che rappresenta l’anima di un empio i cui peccati sono tali da non meritare nemmeno di essere giudicati e che erra nel mondo alla ricerca di un essere fragile in cui insinuarsi).
Il lungo periodo di analisi rappresenta uno dei sistemi attraverso i quali Doriel cerca di comprendere a fondo la sua “follia”, un malessere che si porta dentro da bambino e che gli impedisce di esistere come un individuo sociale. E’ un uomo dotato di una cultura e di un’intelligenza non comuni che non si lascia facilmente catturare dai noti meccanismi terapeutici dello “zio Sigmund”, che egli ben conosce e su cui spesso ironizza: ma le libere associazioni di pensieri, gli scavi costanti nella sua memoria, con continui salti nel tempo, le descrizioni, reali o immaginarie avolte riportate in prima persona altre in terza (è più facile evocare la malinconia e il dolore di un altro) dei sentimenti e turbamenti, i sogni, le false verità riescono, in ogni caso, a dar voce alle sue paure e al suo sconfinato senso di solitudine.
Le pagine in cui Wiesel descrive questi sentimenti sono così profonde e toccanti che non possono essere espresse se non attraverso le parole dello stesso protagonista: “La solitudine è una donna percossa che non ha più la forza né la voglia di amare. La solitudine è un bambino affamato che sogna un pezzetto di pane ammuffito. La solitudine è il mendicante che non chiude gli occhi da giorni e notti, forse da quando è stato strappato al ventre di sua madre. Come la follia, la solitudine è paura. Un uomo solo è un uomo che ha paura. Un uomo che vive nella paura è un uomo solo. …………La solitudine trasforma la coscienza in prigione, una prigione dalla quale ho paura di uscire. Paura di non capire nulla, paura di capire tutto. Paura di amare e di non amare più. Paura di dimenticare tutto e paura di non dimenticare niente: i corpi dilaniati che si trascinano sui campi di battaglia, l’agonia lenta e implacabile dei superstiti. Paura di conoscere la fame, paura di non avere più sete di niente. Paura di essere solo quando non c’è più nessuno. Paura di essere solo con la persona amata. C’è una paura che non è ancora morte, ma che non è più vita”.
Il romanzo, oltre a rappresentare un bellissimo compendio di psicoterapia, con un’analisi approfondita del mondo interiore del protagonista, è interessante anche dal punto di vista storico: analizza la realtà di ebrei che non hanno subito la deportazione ma che hanno lottato in prima persona nel movimento di resistenza (nei paesi dell’Est così come in Francia) contro l’occupazione nazista. Penetra, inoltre, all’interno delle problematiche che hanno accompagnato la nascita dello Stato di Israele: interessantissime le dispute tra ebrei sionisti e antisionisti perpetuate non solo da teorici al di fuori del “nuovo stato ebraico” ma estremamente vive e accese proprio all’interno di questo. Ho così “scoperto” che una buona parte di ebrei erano contrari allo Stato di Israele (avrebbero preferito che la comuità ebraica restasse sotto il dominio arabo), in quanto non rispettava i dettami dei testi sacri che riconoscevano il diritto alla nascita di questo Stato solo in concomitanza dell’avvento del Messia.
La religione è un elemento permeante nel romanzo: analizzata non solo con devozione ma anche con spirito critico o perlomeno fortemente dubitativo, avvicina il lettore ad un mondo di citazioni e riferimenti a testi sacri ebraici che rendono questo testo ancora più ricco e affascinante.
Mai come nel commento di questa opera avrei voluto riportare direttamente le parole dell’autore (inimitabili nella loro purezza e profondità)……ma mi sono resa conto che in realtà avrei trascritto quasi l’intero libro.
E’ senza dubbio uno dei romanzi che mi ha maggiormente coinvolto emotivamente e dare una valutazione mi sembra riduttivo rispetto alle sensazioni che è riuscito a donarmi.
 

Frundsberg

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Un désir fou de danser.

E' uscito l'ultimo libro del grande Elie Wiesel, in italiano, e già compare un errore grosso come una casa nella traduzione dal francese del titolo.
Come sempre.
Ma il testo è fedele. Tre anni fa io sono stato in Francia alla presentazione di questo libro.
E' stato là che ho reincontrato Wiesel, e sono riuscito a parlargli a lungo.
Io amici vi invito a leggere questo libro pubblicato da Garzanti.
Io l'ho letto in francese, ma l'avrei fatto anche in russo.
Temo sarà l'ultimo capolavoro di Wiesel.
Il grande testimone, il grande scrittore, il Nobel Price per la Pace, ho visto, è stanco.
Abbiamo parlato in quell'occasione di tante cose, e del libro.
E' la storia del reduce dalla vita, nulla di nuovo in fondo.
La decisione di approcciarsi alla psicoanalisi per rimuovere il tarlo dell'assurdo, per spostare barriere, per spingere a lato montagne.
L'analista è una donna, nessun problema...tra ebrei. La donna ha sempre avuto storicamente un posto particolare nell'economia della famiglia.
Non dico altro. Wiesel ha suonato la melodia dei sogni ancora una volta.
Ma temo che sarà l'ultima.
I suoi occhi, gli occhi che hanno visto l'indicibile, sono stanchi...in fine.
Comincia a utilizzare in Francia, suo paese d'adozione, parole in americano.
La fine.
E io rimango a guardarmi di fronte a questo gigante dal viso triste, col suo yiddish ungherese storpiato dalle metropoli che la sorte, null'altro, gli ha concesso di percorrere.
E guardo l'addome infilato come un guanto nella cintura.
Quante pagine ha scritto e potuto questo volto di rughe.
Quante confessioni buie, e sole.
Se leggerete questo libro, forse, capirete una cosa che a molti non è dato intendere.
La tristezza di questo genio è l'anima del suo respiro.
Perdonatemi l'elogio, ma gli voglio bene.
Sarà perché non ho ancora trovato uno scrittore bravo come lui, oggi, sarà perché mi ricorda qualcuno, sarà perché in fondo ha capito una cosa che reputo fondamentale.
Siamo rimasti un club, non service.
Date tempo al tempo.
Non rimarrà più nulla.
Nessuno.
 
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