Jacques Austerlitz, un insegnante di storia dell'architettura particolarmente solitario e immerso nei suoi studi e nelle sue ricerche, si accorge di essersi inconsciamente sforzato per una vita intera nel reprimere ogni ricordo legato alle sue origini, nel difendersi in ogni modo da un passato che cercava di venire a galla. Esaurita ogni riserva di energia mentale nella costruzione di queste barriere, e raggiunta al contempo la consapevolezza di questa situazione, lo spettro del passato torna prepotentemente nella sua vita e il bisogno di recuperare le sue radici, la sua identità e la sua storia si farà sempre più urgente e insistente.
Austerlitz è un romanzo molto particolare sia nella forma che nel contenuto. Non ha suddivisione in capitoli o paragrafi, è un incedere continuo, denso e indagatore, quasi che ogni cosa possa essere rivelatrice di un senso recondito in grado di aiutare il protagonista, e noi con lui, nella disperata ricerca della sua identità e del suo posto nel mondo. Ogni oggetto, ogni edificio, ogni immagine possono infatti a tal fine custodire un segno, dischiudere un ricordo, trasmettere un messaggio: "Come un folle non vedevo altro intorno a me se non misteri e segni".
Austerlitz porta quindi spesso con sé la sua macchina fotografica, "quasi le immagini avessero anche loro una memoria e si ricordassero di come eravamo" o rendessero "testimonianza di ciò che io stesso non rammentavo più".
L'importanza delle immagini è tale che nel romanzo non rimangono confinate nella dimensione verbale del testo, ma ne diventano parte integrante. Il romanzo è infatti accompagnato costantemente dalle fotografie scattate dal protagonista. Queste rappresentano immagini o momenti particolarmente significativi per lui, miniature che si fanno a volte simboli della sua condizione, come l'immagine di una tignola smarrita e paralizzata che attende solo la sua fine attaccata ad una parete, o quella della stazione di Liverpool annerita da strati di grasso, costruita sui resti umani e materiali di quanto è andato distrutto nel passato e in procinto di essere buttata giù per essere ristrutturata; altre volte invece ne racchiudono pensieri, risvegliano ricordi o ne riflettono stati d'animo, come per le "visioni della banlieue", nella cui desolazione si rispecchia il senso di abbandono che lo affligge; d'altra parte le immagini, nel loro essere testimonianze di qualcosa di reale e immortalato, costituiscono forse l'unico mezzo disponibile per restituire al protagonista una identità, qualcosa di solido con cui ricostruire una possibile storia perché "Nella mente tutto si confonde: ciò che ho visto, che ho letto, i ricordi che affiorano e tornano a inabissarsi", ma anche un mezzo potenzialmente in grado di guidare la comprensione umana verso livelli più profondi di consapevolezza là dove la parola raggiunge i suoi limiti. Ne è un esempio il momento in cui Austerlitz avverte che tutte le informazioni acquisite sul lager in cui era stata deportata la madre durante la seconda guerra mondiale non sono per lui sufficienti per capire davvero cosa succedeva in quei luoghi di tortura e morte, motivo per cui spera di recuperare un filmato girato a quel tempo, seppur nella forma propagandistica tedesca, anche solo per coglierne della sfumature di verità un filo più profonde.
"Nonostante fossi tornato a Theresienstadt prima di lasciare Praga, e nonostante il resoconto della situazione laggiù, scritto con tanta accuratezza da Adler e da me studiato fino all'ultima sua nota, mi è riuscito impossibile calarmi nell'atmosfera del ghetto e immaginarmi che Agáta, mia madre, vivesse allora in quel luogo. Pensavo di continuo che, se solo il film fosse ricomparso, sarei magari riuscito a vedere o a intuire come stessero le cose in realtà".
Le fotografie, che rappresentano per Austerlitz quasi degli appunti su cui ritornare per riflettere su se stesso e provare a cercare ogni volta delle risposte, ci offrono d’altra parte dei momenti per distoglierci dall'incessante flusso di parole e soffermarci su quanto letto. Il bisogno di Austerlitz di ancorarsi a queste foto che in qualche modo lo definiscono, sembra anche un mezzo di cui lui inconsciamente si serve per allontanare quell'oblio che il tempo nel suo fluire porta naturalmente con sé, contrastando così il riproporsi di quel senso di smarrimento e di abbandono di cui ha sofferto da quando da bambino è stato mandato dai suoi genitori a vivere in un altro Paese da un altra famiglia, con un altro nome, un'altra lingua, senza alcuna spiegazione, recidendo traumaticamente le sue radici, la sua identità, ogni legame con i suoi affetti e il suo mondo.
Fissando il tempo in questo modo, il protagonista vive sospeso in un eterno limbo, al punto che per lui il concetto di tempo non ha alcun significato. Il tempo è per Austerlitz un fluire che accompagna i felici nel consumare la loro vita. Ma per i morti e i morenti il tempo non esiste, e per i vivi basta un piccolo grado di infelicità per essere tagliati fuori da questa idea convenzionale ed essere così esclusi dal presente come dal passato e dal futuro. La negazione della comune concezione del tempo, quindi, non è altro che un modo diverso con cui Austerlitz ci ribadisce il suo sentirsi escluso dal flusso della vita, il suo non sentirsi appartenere né ad una patria né ad una classe sociale o professionale o religiosa, ossia il suo sentirsi derelitto. "Per quanto mi è dato risalire indietro col pensiero, disse Austerlitz, mi son sempre sentito come privo di un posto nella realtà, come se non esistessi affatto" , o ancora "sentivo di non possedere realmente né memoria né raziocinio né un'esistenza nel vero senso del termine, di non aver fatto altro per tutta la vita che cancellarmi volgendo le spalle al mondo e a me stesso".
Tuttavia, gli avvenimenti e le coincidenze che lo hanno condotto alla ricerca di se stesso, delle sue origini, della sua famiglia e del suo passato alla fine lo salvano dall'arrendersi all'idea del suicidio o dall'attesa passiva della sua morte come per le tignole smarrite. L'aver avuto il coraggio di guardarsi indietro e attraversare il sentiero di devastazione e disperazione che aveva sempre faticosamente cercato di rimuovere fa sì che Austerliltz si svegli dal buio della condizione in cui si era rilegato, smettendo di cancellarsi e cominciando ad indirizzare la sua ricerca anche verso qualcosa di nuovo, verso ad esempio Marie de Verneuil, quella donna con cui non era mai riuscito a contraccambiarne gli slanci di affetto per via della sua paralisi interiore da cui però ora si è finalmente sbloccato. Come a sottolineare simbolicamente il cambiamento avvenuto e il suo proiettarsi verso il futuro è il gesto con cui Austerlitz dà in consegna all'interlocutore della sua storia le chiavi della sua casa inglese, con tutte le sue fotografie, oltre che un libro contenente una storia simile alla sua, quasi ne avesse ormai accettato la conclusione secondo cui "la storia remota e sommersa della sua famiglia e del suo popolo che di laggiù, ne è ben consapevole, mai potranno risalire in superficie", conscio però del cambiamento e della nuova consapevolezza di sé che la sua ricerca gli ha restituito.
Austerlitz è in definitiva un romanzo originale ed interessante, in cui si corre il rischio di perdersi tra le diramazioni in cui si inoltra, la ricchezza di dettagli in cui si profonde, i suoi periodi spesso molto lunghi e il complesso di foto a corredo del testo, ma che in tutto questo ha la sua particolarità e la sua fascinazione.
(Per chi leggerà questo romanzo, e gli capiterà di leggere anche solo queste ultime mie righe, sarei curioso di leggere un’opinione su una cosa di cui non sono riuscito a farmi un’idea precisa, e cioè sulla figura del narratore, che ho trovato misteriosa, insieme con il suo rapporto quasi inverosimile con il protagonista, e i primi incontri con lui dalle improbabili coincidenze. È una figura reale? Che sia invece un suo alter ego? O la riproduzione della sua ossessione di un suo presunto fratello gemello?)