Bolano, Roberto - 2666 La parte dei critici-La parte di Amalfitano-La parte di Fate

Wilkinson

Member
Le prime tre parti del romanzo dell'autore ispanoamericano: un libro con i personaggi più diversi (un misterioso scrittore, i quattro studiosi che lo cercano in giro per il mondo, un pittore che si è tagliato una mano e vive in un manicomio svizzero, una donna bella e folle, un giornalista nero che capita per caso in Messico e si trova coinvolto in una inquietante vicenda di delitti seriali), un labirinto di luoghi, di segni, di incontri, di libri, di quadri, di sogni, di storie che generano altre storie. Si sviluppano dunque le vicende dei quattro germanisti sulle tracce del misterioso scrittore tedesco Benno von Arcimboldi – e poi il professore (e guida) Amalfitano, sua moglie Lola, donna di sentimenti estremi innamorata di un poeta altrettanto radicale, le loro diciassettenne figlia Rosa, in perenne e gravissimo rischio in una zona dove decine di ragazze vengono assassinate e sepolte nel deserto, o il giornalista di colore Oscar Fate, ecco, anche loro sono militanti alteri e mai riconciliati, anarchici e caritatevoli, rivoltosi più che rivoluzionari.


Osannato dalla critica di tutto il mondo, ho letto con trepidazione questo libro dopo aver letto anche il precedente I detective selvaggi. Tuttavia pur riconoscendovi una grande tecnica di scrittura (alcune pagine sono veramente bellissime) non è scattata quella scintilla che ti fa amare un libro, esattamente come non era scattata con i detective.
Probabilmente la scelta di adelphi di dividere in due parti il libro non contribuisce alla chiarezza del disegno narrativo se non leggendo anche il secondo volume. Pagina dopo pagina manca per me quella densità di significati che fa pensare al capolavoro. I critici sono in visibilio, quindi sicuramente sbagliero io :mrgreen:
 

elisa

Motherator
Membro dello Staff
aspettavo un commento su Bolano prima di acquistare qualcosa di suo, grazie, adesso mi sono fatta un'idea più precisa :)
 

El_tipo

Surrealistic member
ho quasi finito di leggere questo libro, il primo volume di 2666, che comprende le prime tre parti del romanzo. Oggi sono passato in libreria per acquistare il secondo volume, quello che racchiude le ultime due parti e ho fatto una "piacevolissima" scoperta.

I due volumi di 2666, come da prima edizione adelphi, che costano 20 e 24 euro singolarmente (quindi 48 euro in totale), sono stati editi sempre

da adelphi in un unico volume che costa in tutto 24 euro.....:MM

Io avendo già la prima parte sono stato quasi costretto ad acquistare la seconda, anche se allo stesso prezzo avrei potuto prendere tutta la raccolta...la commessa ha cercato di tirarmi su il morale dicendo che l'edizione in due volumi è piu pregiata, ma a me sembrano uguali.

Quindi a chi si avvicina a questa lettura dico: potete acquistate tutto il romanzo in un'unico volume, risparmiate 20 euro che non sono pochi!!!!
 

pigreco

Mathematician Member
Anche questa settimana condivido volentieri la recensione che Baricco ha scritto su Repubblica per la sua rubrica "Una certa idea di mondo". Quasi quasi preferisco il Baricco che scrive di libri rispetto a quello che scrive libri...

Quel che ricordo bene è l’sms che un mio amico scrittore (Dario Voltolini, uno che tra l’altro scrive da dio) mi mandò qualche settimana dopo che gli avevo ingiunto di leggere 2666. Ecco il testo: “Letto Bolaño. Cambiato mestiere. ” Difficile essere più esatti e concisi. In genere, se scrivi libri, leggere i libri dei contemporanei ti procura una certa autostima, talvolta ti stimola alla sfida, ogni tanto ti fa percepire amaramente i tuoi limiti: molto di rado ti schianta. Io, se si parla di scrittori viventi, questa brutta esperienza l’ho fatta solo due volte: con Foster Wallace e con Bolaño. Adesso voi direte che quei due sono morti, e se ci atteniamo alla realtà avete ragione, ma mi permetto di catalogarli tra i viventi perché chi muore a libri ancora caldi non è morto davvero, o almeno così la penso io. Quindi, loro due. Che per molti versi mi viene sempre più da tenere vicini nella memoria, ma solo in parte per il loro destino mozzato, e piuttosto per un’altra caratteristica che li accomuna e li strappa fuori dal gruppo: la strafottenza. La dismisura. Lo sfoggio impudente di bravura. Nei loro libri migliori c’è molto di più di quello che sarebbe bastato a sancire la semplice verità che a loro, quel gesto, riusciva molto meglio che agli altri. Evidentemente non scrivevano per scalare classifiche, ma per scalare il proprio talento, che poi sarebbe l’unico modo giusto di fare la cose.


Adesso dovrei forse spiegare in cosa consista la magnificenza di 2666 ma volentieri rimando la cosa per annotare quel che è utile sapere della sua genesi. Intanto, non chiedetemi perché si intitola così, nessuno lo sa. Lui lo sapeva, pare, ma neanche quello è sicuro. Seconda cosa, 2666 non è un libro, ma cinque libri. E’ una vicenda curiosa, uno di quei casi in cui lo scrittore si comporta come uno dei suoi personaggi (circostanza che fa molto godere i lettori e molto irritare gli scrittori). Agli inizi degli anni ’90, quando era più o meno quarantenne, Bolaño seppe che probabilmente non gli rimaneva molto da vivere (glielo dissero dei medici, non una chiromante in Piazza Navona). Aveva una compagna e due figli. Così pensò bene di scrivere un po’ di libri e di tenerli lì, da parte, perché uscissero uno per uno dopo la sua morte, così da mantenere la famiglia, nel tempo (un personaggio da romanzo di Bolaño, l’ho detto). Poi, in effetti morì, a cinquantanni, nel 2003, e quel che successe è che i suoi eredi, letti i cinque libri, pensarono che erano un gesto solo, e decisero di pubblicarli tutti insieme, sotto un solo titolo, assumendosi una responsabilità non da poco. Il risultato è un unico romanzo che ne contiene cinque: il rapporto tra loro è evanescente, a volte chiarissimo, spesso inesistente. Una prossimità distante. Io, dico la verità, ne ho letti quattro su cinque. L’ultimo me lo sono tenuto da parte, un po’ perché ero schiantato, come ho avuto modo di dire, e un po’ perché tenerne uno per il futuro mi è parso un omaggio tardivo, ma sincero, alle intenzioni di Bolano.

Mentre leggevo il primo, rapito, mi accadde che qualcuno mi chiedesse: di cosa racconta? Ricordo bene la mia risposta: non lo so, non è importante. Adesso ritorno a quella risposta e mi piacerebbe ricostruire il lungo percorso mentale che finii per raccogliere in sei parole, perché se ne fossi capace allora potrei dire di avervi spiegato in cosa consiste la bellezza di questo libro. Ma non è facile. Ricordo che il punto da cui partiva tutto era la prosa di Bolano, divinamente fluida, eppure esatta oltre ogni dire: come se le cose, naturalmente, fossero destinate da sempre a diventare frasi. Nessuno sforzo apparente, nessuna frizione. Chiare, fresche, dolci acque: per pagine e pagine, collezionando grandi storie e minimi dettagli senza increspare praticamente mai il pelo dell’acqua. A quei livelli di limpidezza, il vero spettacolo diventa il disporsi delle storie una accanto all’altra, o dentro l’altra, con una mitezza che nella vita non risulta, e nei libri è sempre il risultato di un processo: lì invece era qualcosa che si sostituiva a qualsiasi processo: era un delizioso dato di fatto. Così, pur registrando che il libro era pieno di storie (rigurgitava, in modo strafottente, di storie, per dirla tutta) quando mi chiesero cosa raccontava risposi come potrebbe rispondere uno chino su un puzzle da duemila pezzi alla domanda: cos’è?, montagne svizzere o un Rembrandt? Non lo so più, non è importante. E’ il mite, morbido incastrarsi dei pezzi che è importante: è l’irragionevole promessa, mantenuta, che per ogni pezzo dell’esistente ce ne sono altri nati per stare accanto a lui, e per farlo con una morbidezza direttamente proporzionale alla fatica di trovarli nel gran mucchio del tutto.

Comunque, nel caso di 2666, non si tratta né di montagne svizzere né di un Rembrandt. Credo che sia una cosa tipo Il male. Ma non ci giurerei. Il male e la delizia dei viventi, forse. O Il male e il mistero dei viventi. Insomma, non lo so, di preciso. Magari, il giorno che finirò il puzzle lo saprò. Nel caso, mi faccio vivo.
 

anna5876

New member
Certamente Bolano è uno scrittore che non lascia indifferenti: ho letto critiche entusiaste, ne ho parlato con amici che lo amano oppure lo detestano, ma tutti ne riconoscono una sorta di 'grandezza'. Ho intrapreso quest'estate la lettura di Proust, di cui avevo letto solo il primo volume. Tra le varie considerazioni che fa sull'arte ( figurativa, ma secondo me il discorso si adatta anche alla letteratura) sostiene che un quadro può essere bellissimo pur riproducendo un soggetto brutto o addirittura squallido. E' vero anche per Bolano, soprattutto per 'La parte dei delitti'. Mentre leggevo, ingenuamente ho pensato che nel finale potesse esserci una qualche soluzione dei delitti. Un'ingenuità veramente enorme: un delitto risolto è come la ricomposizione di un ordine preesistente che solo il delitto ha turbato. Ma il mondo che racconta Bolano non conosce alcun ordine.
Anche questa settimana condivido volentieri la recensione che Baricco ha scritto su Repubblica per la sua rubrica "Una certa idea di mondo". Quasi quasi preferisco il Baricco che scrive di libri rispetto a quello che scrive libri...

Quel che ricordo bene è l’sms che un mio amico scrittore (Dario Voltolini, uno che tra l’altro scrive da dio) mi mandò qualche settimana dopo che gli avevo ingiunto di leggere 2666. Ecco il testo: “Letto Bolaño. Cambiato mestiere. ” Difficile essere più esatti e concisi. In genere, se scrivi libri, leggere i libri dei contemporanei ti procura una certa autostima, talvolta ti stimola alla sfida, ogni tanto ti fa percepire amaramente i tuoi limiti: molto di rado ti schianta. Io, se si parla di scrittori viventi, questa brutta esperienza l’ho fatta solo due volte: con Foster Wallace e con Bolaño. Adesso voi direte che quei due sono morti, e se ci atteniamo alla realtà avete ragione, ma mi permetto di catalogarli tra i viventi perché chi muore a libri ancora caldi non è morto davvero, o almeno così la penso io. Quindi, loro due. Che per molti versi mi viene sempre più da tenere vicini nella memoria, ma solo in parte per il loro destino mozzato, e piuttosto per un’altra caratteristica che li accomuna e li strappa fuori dal gruppo: la strafottenza. La dismisura. Lo sfoggio impudente di bravura. Nei loro libri migliori c’è molto di più di quello che sarebbe bastato a sancire la semplice verità che a loro, quel gesto, riusciva molto meglio che agli altri. Evidentemente non scrivevano per scalare classifiche, ma per scalare il proprio talento, che poi sarebbe l’unico modo giusto di fare la cose.


Adesso dovrei forse spiegare in cosa consista la magnificenza di 2666 ma volentieri rimando la cosa per annotare quel che è utile sapere della sua genesi. Intanto, non chiedetemi perché si intitola così, nessuno lo sa. Lui lo sapeva, pare, ma neanche quello è sicuro. Seconda cosa, 2666 non è un libro, ma cinque libri. E’ una vicenda curiosa, uno di quei casi in cui lo scrittore si comporta come uno dei suoi personaggi (circostanza che fa molto godere i lettori e molto irritare gli scrittori). Agli inizi degli anni ’90, quando era più o meno quarantenne, Bolaño seppe che probabilmente non gli rimaneva molto da vivere (glielo dissero dei medici, non una chiromante in Piazza Navona). Aveva una compagna e due figli. Così pensò bene di scrivere un po’ di libri e di tenerli lì, da parte, perché uscissero uno per uno dopo la sua morte, così da mantenere la famiglia, nel tempo (un personaggio da romanzo di Bolaño, l’ho detto). Poi, in effetti morì, a cinquantanni, nel 2003, e quel che successe è che i suoi eredi, letti i cinque libri, pensarono che erano un gesto solo, e decisero di pubblicarli tutti insieme, sotto un solo titolo, assumendosi una responsabilità non da poco. Il risultato è un unico romanzo che ne contiene cinque: il rapporto tra loro è evanescente, a volte chiarissimo, spesso inesistente. Una prossimità distante. Io, dico la verità, ne ho letti quattro su cinque. L’ultimo me lo sono tenuto da parte, un po’ perché ero schiantato, come ho avuto modo di dire, e un po’ perché tenerne uno per il futuro mi è parso un omaggio tardivo, ma sincero, alle intenzioni di Bolano.

Mentre leggevo il primo, rapito, mi accadde che qualcuno mi chiedesse: di cosa racconta? Ricordo bene la mia risposta: non lo so, non è importante. Adesso ritorno a quella risposta e mi piacerebbe ricostruire il lungo percorso mentale che finii per raccogliere in sei parole, perché se ne fossi capace allora potrei dire di avervi spiegato in cosa consiste la bellezza di questo libro. Ma non è facile. Ricordo che il punto da cui partiva tutto era la prosa di Bolano, divinamente fluida, eppure esatta oltre ogni dire: come se le cose, naturalmente, fossero destinate da sempre a diventare frasi. Nessuno sforzo apparente, nessuna frizione. Chiare, fresche, dolci acque: per pagine e pagine, collezionando grandi storie e minimi dettagli senza increspare praticamente mai il pelo dell’acqua. A quei livelli di limpidezza, il vero spettacolo diventa il disporsi delle storie una accanto all’altra, o dentro l’altra, con una mitezza che nella vita non risulta, e nei libri è sempre il risultato di un processo: lì invece era qualcosa che si sostituiva a qualsiasi processo: era un delizioso dato di fatto. Così, pur registrando che il libro era pieno di storie (rigurgitava, in modo strafottente, di storie, per dirla tutta) quando mi chiesero cosa raccontava risposi come potrebbe rispondere uno chino su un puzzle da duemila pezzi alla domanda: cos’è?, montagne svizzere o un Rembrandt? Non lo so più, non è importante. E’ il mite, morbido incastrarsi dei pezzi che è importante: è l’irragionevole promessa, mantenuta, che per ogni pezzo dell’esistente ce ne sono altri nati per stare accanto a lui, e per farlo con una morbidezza direttamente proporzionale alla fatica di trovarli nel gran mucchio del tutto.

Comunque, nel caso di 2666, non si tratta né di montagne svizzere né di un Rembrandt. Credo che sia una cosa tipo Il male. Ma non ci giurerei. Il male e la delizia dei viventi, forse. O Il male e il mistero dei viventi. Insomma, non lo so, di preciso. Magari, il giorno che finirò il puzzle lo saprò. Nel caso, mi faccio vivo.
 

Aglaja

New member
Baricco poverino non sa perché si intitola 2666! Ma qualcuno è andato a dirglielo o si starà ancora rigirando nel letto tutte le notti a furia di pensarci?
Io non sono in grado di fare una critica articolata né una recensione corposa, dico solo che a mio parere la capacità di scrittura di Bolano è fenomenale. Questo suo ultimo romanzo è perfino migliore dei Detective Selvaggi (come dichiarò lui stesso "se non fosse superiore non lo avrei scritto"). E' vero che non esiste un ordine nel suo mondo, ma tutto torna comunque. Le centinaia di storie che lui crea dal nulla e nel nulla fa sprofondare sono perfettamente amalgamate in un'unica atroce "visione dell'orrore".
 

Zanna

Re Shulgi di Ur
In realtà 2666 è una data che richiama alla mente un altro romanzo di Bolano dove appare esattamente lo stesso numero, si tratta di Amuleto dove si menziona una strada che "sembra più che altro un cimitero, ma non a un cimitero del 1974, né un cimitero del 1968, né a un cimitero del 1975, ma un cimitero del 2666, un cimitero dimenticato sotto una palpebra morta o mai nata, le acquosità spassionate di un occhio che per dimenticare qualcosa ha finito per dimenticare tutto".
In questa chiave il titolo 2666 potrebbe essere letto come una profezia di Auxilio Lacouture (protagonista di Amuleto) riguardante gli orrori che si perpetueranno a Santa Teresa, luogo e centro dove confluisce tutto il male del secolo.
 
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