Scusa se cito molto gli autori russi, ma essendo laureato in russo sono quelli con cui i confronti mi vengono più facili.
Non c’è problema. Solo mi dispiace di conoscerne pochi, cosicchè non so seguire tutti i tuoi riferimenti :roll:
Masetto, mi fanno piacere le tue obiezioni e ora cercherò di risponderti in maniera più soddisfacente possibile.
Grazie. Anche a me piacciono le obiezioni; è sempre bello poter discutere di quello che ci interessa
In quanto al messaggio cristiano, confrontando i PS con quella pur grandissima opera che è
Delitto e castigo, direi invece che Manzoni è assai superiore. Finchè Dostoevskij è tutto immerso nella mente di Raskolnikov, sondandone i più celati recessi (il che avviene fino alla confessione), è straordinario e personalmente non ho mai letto niente di simile in quanto a profondità d’analisi psicologica. Ma la conversione finale del giovane, come del resto il “risveglio” della coscienza di Svidrigajlov che porta quest’ultimo al suicidio, sono calati dall’alto senza legami profondi con la psicologia dei due personaggi. Dostoevskij ci dice che Raskolnikov, in Siberia, a un certo punto si rende conto che le sue idee erano errate e ritorna all’ ”ortodossia”. Perché? Che cosa gli ha fatto cambiare idea? Come mai ora rinucia così facilmente alle idee cui è stato attaccatissimo per tutto il romanzo (ha addirittura ucciso per esse), che errori vi ha scorto? Era credente anche prima, perché solo adesso le condanna? Su questo l’autore tace completamente, né il ruolo di Sonja illumina il mistero. Idem per la coscienza di Svidrigajlov: perché un uomo che fino ad allora è stato un assassino senza rimorsi di colpo si pente? Cosa succede nella sua mente, che corso hanno i suoi pensieri in quell’ultima notte? Si ricorda della ragazzina morta, ma finora questo non lo aveva mai inquietato. Perché adesso sì? Anche qui l’autore tace, e pare affidarsi a una sorta di illuminazione, che andrà bene per un mistico ma non certo per un romanziere.
Manzoni, con l’Innominato, fa tutto il contrario. La conversione non avviene affatto nel corso di una notte!!!!!; in essa si ha solo il suo punto culminante, la crisi risolutiva. Prova a rileggere il capitolo XX e vedrai come il rivolgimento del suo animo sia iniziato molto prima:
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Già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso, una cert'uggia delle sue scelleratezze. Quelle tante ch'erano ammontate, se non sulla sua coscienza, almeno nella sua memoria, si risvegliavano ogni volta che ne commettesse una di nuovo, e si presentavano all'animo brutte e troppe: era come il crescere e crescere d'un peso già incomodo. Una certa ripugnanza provata ne' primi delitti, e vinta poi, e scomparsa quasi affatto, tornava ora a farsi sentire. Ma in que' primi tempi, l'immagine d'un avvenire lungo, indeterminato, il sentimento d'una vitalità vigorosa, riempivano l'animo d'una fiducia spensierata: ora all'opposto, i pensieri dell'avvenire eran quelli che rendevano più noioso il passato. " Invecchiare! morire! e poi? " E, cosa notabile! l'immagine della morte, che, in un pericolo vicino, a fronte d'un nemico, soleva raddoppiar gli spiriti di quell'uomo, e infondergli un'ira piena di coraggio, quella stessa immagine, apparendogli nel silenzio della notte, nella sicurezza del suo castello, gli metteva addosso una costernazione repentina. Non era la morte minacciata da un avversario mortale anche lui; non si poteva rispingerla con armi migliori, e con un braccio più pronto; veniva sola, nasceva di dentro; era forse ancor lontana, ma faceva un passo ogni momento; e, intanto che la mente combatteva dolorosamente per allontanarne il pensiero, quella s'avvicinava. Ne' primi tempi, gli esempi così frequenti, lo spettacolo, per dir così, continuo della violenza, della vendetta, dell'omicidio, ispirandogli un'emulazione feroce, gli avevano anche servito come d'una specie d'autorità contro la coscienza: ora, gli rinasceva ogni tanto nell'animo l'idea confusa, ma terribile, d'un giudizio individuale, d'una ragione indipendente dall'esempio; ora, l'essere uscito dalla turba volgare de' malvagi, l'essere innanzi a tutti, gli dava talvolta il sentimento d'una solitudine tremenda. Quel Dio di cui aveva sentito parlare, ma che, da gran tempo, non si curava di negare né di riconoscere, occupato soltanto a vivere come se non ci fosse, ora, in certi momenti d'abbattimento senza motivo, di terrore senza pericolo, gli pareva sentirlo gridar dentro di sé: Io sono però. Nel primo bollor delle passioni, la legge che aveva, se non altro, sentita annunziare in nome di Lui, non gli era parsa che odiosa: ora, quando gli tornava d'improvviso alla mente, la mente, suo malgrado, la concepiva come una cosa che ha il suo adempimento. Ma, non che aprirsi con nessuno su questa sua nuova inquietudine, la copriva anzi profondamente, e la mascherava con l'apparenze d'una più cupa ferocia; e con questo mezzo, cercava anche di nasconderla a se stesso, o di soffogarla. Invidiando (giacché non poteva annientarli né dimenticarli) que' tempi in cui era solito commettere l'iniquità senza rimorso, senz'altro pensiero che della riuscita, faceva ogni sforzo per farli tornare, per ritenere o per riafferrare quell'antica volontà, pronta, superba, imperturbata, per convincer se stesso ch'era ancor quello. >>
Andando avanti i suoi nuovi sentimenti aquistano via via più forza, ma lentamente, fino al “colpo della Grazia” del Cardinale. Dice il critico Luigi Russo:
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Iddio viene di dentro come la morte. Non dall’esterno e per l’insegnamento altrui, ma dall’interno e per intuizione insoffocabile nasce Iddio nel cuore degli uomini, come sentimento della morte prima, come sentimento della giustizia poi, e infine come sentimento della sua eterna presenza. Questo primo punto è importante che sia fissato per combattere l’interpretazione di alcuni critici cattolici, che attribuiscono la conversione dell’Innominato agli occhi di Lucia prima, e alle parole catechistiche del cardinale dopo. Per il Manzoni, una conversione viene sempre dal di dentro, gli incontri ed i colloqui con gli altri uomini sono soltanto la parte fenomenica, contingente, di quella conversione. Chiamerò questo concetto manzoniano di Dio il concetto del Dio-passione, da contrapporre al Dio-mito di più superficiali credenti: un Dio che viene precisamente dal di dentro, colui che atterra e suscita, che affanna e che consola, della strofa del Cinque Maggio. È lo stesso concetto di Dio che il cardinale chiarirà nel colloquio con il grande ribaldo:
"Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v’attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, lo imploriate?".
Intanto osserviamo come il Manzoni ha con molta esattezza scandito questi tre successivi momenti del ritrovamento interiore di Dio; innanzi tutto il sentimento della morte, poi il sentimento del giudizio individuale, ed infine il sentimento della presenza di Dio. [...] Manzoni in questi tre momenti, senza formule filosofiche, nella rappresentazione trasparente della poesia, ci ha saputo descrivere tutto il capovolgimento di una visione filosofica della vita. Il Manzoni è stato profondamente accorto nel mettere per ultimo il sentimento della presenza di Dio, il quale è al di sopra di ogni nostra volontà. Quest’ultimo sentimento invero è quello che rovescia la visione dell’Innominato: Io sono però. L’oggetto che ha una sua esistenza immutabile, al di fuori ed al di sopra del soggetto che lo pensa.Gli altri due momenti precedenti sono vagamente religiosi, ma non sono ancora concretamente religiosi nel senso di una religione positivamente intesa. Tutti possiamo avere un senso religioso della morte, tutti avvertire la paura di un giudizio eterno, il giudizio stesso degli uomini, il giudizio della storia che è anch’essa una forma di eternità, la giustizia stessa delle cose che si viene compiendo mentre noi viviamo ed operiamo; non per questo, noi siamo entrati nel mondo di una religione positivamente intesa, di una religione del trascendente. Per sentirci al centro di questa religione del trascendente, dobbiamo giungere all’aperto e pauroso riconoscimento di qualche cosa che è, che esiste al di fuori di noi, al di fuori della nostra volontà. Ed è quello a cui giunge l’Innominato, il quale fin da questo momento dunque si converte non già ad una vaga e generica religiosità, ma ad una precisa puntuale e positiva religione del trascendente. Sicché se io combatto l’interpretazione magica o taumaturgica della conversione dell’Innominato e sostengo invece che tal conversione è razionale in ogni suo momento e cotesta crisi segue lo stesso processo di ogni altra crisi, per dir così, laica, ciò non pertanto non vorrei che si pensasse che io voglia fare dell’Innominato l’eroe di una religione laica, come pure è stato tentato da qualche interprete. La crisi dell’Innominato sbocca ad un riconoscimento manifesto di Dio: Io sono però; al riconoscimento di un oggetto come dicevo che ha una sua esistenza immutabile, al di fuori e al di sopra del soggetto che lo pensa; quindi è una crisi che, per il Manzoni, si conclude in un pieno ed integrale trascendentismo. Ma volevo piuttosto rilevare come il Manzoni non ci fa giungere ex abrupto a questo capovolgimento di visione; tale conversione, dico, appare preparata, graduata, da quelle due precedenti fasi del pensiero della morte, del timore del giudizio eterno. [...] Quel però tradisce verbalmente che si tratta di un dibattito logico, di un dialogo tra un’anima e Dio, che procede per via di mute argomentazioni. In questa specie di tenzone, di muto contrasto filosofico, l’avversativa a me pare artisticamente legittima. Anzi in forza di quell’avversativa, io sono stato tratto a definire che la conversione dell’Innominato in questa pagina è presentata come una crisi di pensiero. [...] E soltanto perché si tratta di una risoluzione di pensiero, tutti gli altri stati d’animo e riflessioni dell’Innominato hanno qualche cosa di consenquenziale, come i corollari tratti da una premessa: con la coscienza della presenza di Dio, dell’essere di Dio, indipendente dalla nostra volontà, ecco che l’Innominato comincia ad avere il sentimento dell’adempirsi della sua legge, anche se quella legge è da lui disconosciuta. La legge di Dio si dispiega anche senza la nostra ratifica od adesione, questo è un altro implicito ragionamento dell’Innominato:
"Nel primo bollor delle passioni, la legge che aveva, se non altro, sentita annunziare in nome di Lui, non gli era parsa che odiosa; ora, quando gli tornava d’improvviso alla mente, la mente suo malgrado, la concepiva come una cosa che ha il suo adempimento "
Ma tale riconoscimento in una natura forte ed inselvatichita non può venire senza contrasti. Da ciò i combattimenti della sua volontà contro la lenta invasione di questi pensieri religiosi: una troppo immediata adesione a codesti pensieri religiosi sarebbe stato segno di superficialità, segno di un rugiadoso ottimismo catechistico da parte del Manzoni stesso. [...] È stato detto che l’episodio dell’Innominato è il capolavoro della tetraggine romantica. In verità nulla di tetro nelle pagine dell’episodio, se non ce lo aggiungiamo noi con la nostra fantasia; romantico, se mai, l’Innominato è solo per questo contrasto con se stesso, come romantica è la monaca di Monza, non già per i foschi delitti (da cui in fondo il Manzoni ritrae lo sguardo) a cui è mescolata, ma per la sua capricciosa condotta che non è una capricciosità di viziosa, ma una capricciosità di sentimento, di donna tormentata, capricciosità nascente dal disagio stesso della sua coscienza.Qui si chiude la pagine critica, per dir così, sulla conversione dell’Innominato, che è forse la più profonda e la più intensa dell’episodio, dove ogni paragrafo segna un avanzamento nella parte più occulta della coscienza. Qui il Manzoni è giunto al culmine della sua analisi critica: dopo, il tono muta, all’analisi critica succede la forma rappresentativa diretta, dove continua la chiaroveggenza psicologica ma nella forma diffusa del racconto. >>
Se non siamo nel “sottosuolo” qui…
Aggiungo una mia considerazione: l’Innominato è un personaggio importantissimo nella nostra letteratura anche perché ha il coraggio di cambiare completamente vita, e quando lo fa lo fa sul serio, è disposto a dare tutto per seguire fino in fondo ciò in cui crede. E’ un uomo che pensa, e nel momento in cui ha deciso una cosa ha la rarissima dote di essere, nella pratica, coerente con le sue idee. Solo i grandi scrittori sono in grado di creare dei caratteri da cui noi lettori possiamo imparare qualcosa di davvero importante: l’Innominato è fra questi.
Inoltre il cristianesimo manzoniano è tutt'altro che bigotto. A parte che lui parteggiò sempre per l'unità d'Italia in aperto contrasto con la Chiesa, alcuni dei più importanti personaggi negativi del romanzo sono dei religiosi: Don Abbondio, Gertrude, il padre provinciale dei cappuccini che allontana Padre Cristoforo da Pescarenico solo per accontentare il potente conte zio. Quello di Manzoni è un cristianesimo combattivo, dell'impegno qui e ora, del continuo esame di coscienza, di una ricerca che non riposa mai nel dogma (emblematico in questo senso è Padre Cristoforo, che per trent'anni continua a interrogarsi sull'omicidio da lui compiuto in gioventù).
Ma a parte tutto ciò, Manzoni è un grandissimo scrittore soprattutto per lo stile. Ma qui per stavolta non faccio esempi perchè il post è già chilometrico