De André, Fabrizio - Cantico dei drogati

Vladimir

New member
Ho licenziato Dio
gettato via un amore
per costruirmi il vuoto
nell'anima e nel cuore.
Le parole che dico
non han più forma né accento
si trasformano i suoni
in un sordo lamento.
Mentre fra gli altri nudi
io striscio verso un fuoco
che illumina i fantasmi
di questo osceno giuoco.
Come potrò dire a mia madre che ho paura?
Chi mi riparlerà
di domani luminosi
dove i muti canteranno
e taceranno i noiosi.
Quando riascolterò
il vento tra le foglie
sussurrare i silenzi
che la sera raccoglie.
Io che non vedo più
che folletti di vetro
che mi spiano davanti
che mi ridono dietro.
Come potrò dire a mia madre che ho paura?
Perché non hanno fatto
delle grandi pattumiere
per i giorni già usati
per queste ed altre sere.
E chi, chi sarà mai
il buttafuori del sole
chi lo spinge ogni giorno
sulla scena alle prime ore.
E soprattutto chi
e perché mi ha messo al mondo
dove vivo la mia morte
con un anticipo tremendo?
Come potrò dire a mia madre che ho paura?
Quando scadrà l'affitto
di questo corpo idiota
allora avrò il mio premio
come una buona nota.
Mi citeran di monito
a chi crede sia bello
giocherellare a palla
con il proprio cervello.
Cercando di lanciarlo
oltre il confine stabilito
che qualcuno ha tracciato
ai bordi dell'infinito.
Come potrò dire a mia madre che ho paura?
Tu che m'ascolti insegnami
un alfabeto che sia
differente da quello
della mia vigliaccheria.

Fortunatamente non sono mai caduto in questo tipo di dissavventura, ma trovo magistrale come ne parla. Quando insieme al poeta genovese Riccardo Mannerini ha rielaborato la poesia Eroina, scrivendo questo capolavoro, stava attraversando un periodo di forte dipendenza dall'alcool, pertanto secondo me c'è parecchio vissuto in questo testo. La cosa che mi colpisce di più è la freddezza con cui canta, come se non gli riguardasse o non se ne curasse.
 

El_tipo

Surrealistic member
oggi sul forum stiamo toccando tutti gli argomenti che più mi piacciono...grazie per aver pubblicato questo testo...è meraviglioso! L'umanità con cui De Andrè si avvicina al mondo degli "ultimi", è un esempio di vita per tutti.
Tutto il disco "tutti morimmo a stento" segue questa linea.
Superlativo assoluto.
 
Io lo sto scoprendo in questi giorni, qui, nel forum, e per quello che ho visto si tratta di un grande personaggio. Mi inspira di approfondire la ricerca.
Anche questa poesia lascia a riflettere.
 

elisa

Motherator
Membro dello Staff
forse parlo da addetta ai lavori e per esperienza, ma ho l'impressione che De Andrè non sfugga ad un'estetica dell'ultimo e del marginale che è anche compiacimento della proprio stare fuori dal gioco.
Io ho amato molto De Andrè ed è proprio per questo grande amore esprimo perplessità e distanza tra questa immagine che De Andrè comunica tramite il Cantico dei drogati e di molte immagini di Tutti morimmo a stento.
 

Dory

Reef Member
forse parlo da addetta ai lavori e per esperienza, ma ho l'impressione che De Andrè non sfugga ad un'estetica dell'ultimo e del marginale che è anche compiacimento della proprio stare fuori dal gioco.
Io ho amato molto De Andrè ed è proprio per questo grande amore esprimo perplessità e distanza tra questa immagine che De Andrè comunica tramite il Cantico dei drogati e di molte immagini di Tutti morimmo a stento.

Elisa, non ho capito bene cosa intendi...
 
forse parlo da addetta ai lavori e per esperienza, ma ho l'impressione che De Andrè non sfugga ad un'estetica dell'ultimo e del marginale che è anche compiacimento della proprio stare fuori dal gioco.
Io ho amato molto De Andrè ed è proprio per questo grande amore esprimo perplessità e distanza tra questa immagine che De Andrè comunica tramite il Cantico dei drogati e di molte immagini di Tutti morimmo a stento.
Probabilmente è vero, ma se così fosse, non sarebbe solo autocompiacimento,
quanto più una considerazione di sé in un'ottica di "ultimo".

Stare fuori dal gioco non è semplice, e per quanto un sistema possa espellersi da un altro,
questo costituirà sempre un altro sistema ancora, non si arriva all'annientamento delle categorie.

L'estetica degli ultimi potrebbe essere il compiacimento di se stessi? E chi lo sa. :)

Non faceva soldi con la finta pietà. Si è visto da come è morto. E da come ha vissuto. :)
 

Vladimir

New member
forse parlo da addetta ai lavori e per esperienza, ma ho l'impressione che De Andrè non sfugga ad un'estetica dell'ultimo e del marginale che è anche compiacimento della proprio stare fuori dal gioco.
Io ho amato molto De Andrè ed è proprio per questo grande amore esprimo perplessità e distanza tra questa immagine che De Andrè comunica tramite il Cantico dei drogati e di molte immagini di Tutti morimmo a stento.

Ho capito che vuoi dire. Che ci sia una discrepanza fra quello che cantava e la sua vita reale credo sia noto e stranoto (io sono di Genova e persone che lo conoscevano personalmente me n'hanno riferito come di una persona piuttosto antipatica), ma questo non vuol dire che sapesse raccontare quel mondo molto bene. Mi viene un altro esempio: Dostoevskij era una persona abbastanza brutta umanamente. Orgoglioso, rancoroso, giocatore e bevitore incallito, superbo, ma ha raccontato la pietà umana e la bontà come pochi altri. Io non credo che conti l'esempio di vita dell'artista (non sono delle Vitae Sanctorum) ma piuttosto come ha saputo parlare di un argomento.
 

elisa

Motherator
Membro dello Staff
forse parlo da addetta ai lavori e per esperienza, ma ho l'impressione che De Andrè non sfugga ad un'estetica dell'ultimo e del marginale che è anche compiacimento della proprio stare fuori dal gioco.
Io ho amato molto De Andrè ed è proprio per questo grande amore esprimo perplessità e distanza tra questa immagine che De Andrè comunica tramite il Cantico dei drogati e di molte immagini di Tutti morimmo a stento.

Elisa, non ho capito bene cosa intendi...

Probabilmente è vero, ma se così fosse, non sarebbe solo autocompiacimento,
quanto più una considerazione di sé in un'ottica di "ultimo".

Stare fuori dal gioco non è semplice, e per quanto un sistema possa espellersi da un altro,
questo costituirà sempre un altro sistema ancora, non si arriva all'annientamento delle categorie.

L'estetica degli ultimi potrebbe essere il compiacimento di se stessi? E chi lo sa. :)

Non faceva soldi con la finta pietà. Si è visto da come è morto. E da come ha vissuto. :)

Ho capito che vuoi dire. Che ci sia una discrepanza fra quello che cantava e la sua vita reale credo sia noto e stranoto (io sono di Genova e persone che lo conoscevano personalmente me n'hanno riferito come di una persona piuttosto antipatica), ma questo non vuol dire che sapesse raccontare quel mondo molto bene. Mi viene un altro esempio: Dostoevskij era una persona abbastanza brutta umanamente. Orgoglioso, rancoroso, giocatore e bevitore incallito, superbo, ma ha raccontato la pietà umana e la bontà come pochi altri. Io non credo che conti l'esempio di vita dell'artista (non sono delle Vitae Sanctorum) ma piuttosto come ha saputo parlare di un argomento.

quello che volevo dire con il mio commento è che secondo me De Andrè non esprime una pietas, un'empatia, una condivisione reale nei confronti delle persone di cui parla, non è portavoce di un dolore altrui ma crea delle immagini che giustifichino, e che rendano quasi eroico il disfacimento della propria vita, chiede un alibi per sè, ma vissuto in modo ambiguo, facendo leva sulle emozioni altrui ma nello stesso tempo rendendo attraente l'autodistruzione, il "drogato" come momento poetico e non drammaticamente vero. Chi ascoltando questa canzone non ne ricava un'immagine di eroe negativo? Ricordiamo La cattiva strada ad esempio oppure certe canzoni autoflagellanti e morbose di Tutti morimmo a stento, dove la "depressione" di De Andrè, si insinuava sottopelle nella vita di tanti adolescenti, compresa la mia. Forse ascoltarlo adesso ha un'altra valenza e un altro vissuto, io amo un De Andrè meno manipolatorio, che scarica di meno sugli altri e si prende più responsabilità rispetto a quello che dice.
Non so se mi sono spiegata, forse non è facile quello che voglio dire, perchè me lo sto chiarendo man mano che lo scrivo.
 

Dory

Reef Member
Ho capito che vuoi dire. Che ci sia una discrepanza fra quello che cantava e la sua vita reale credo sia noto e stranoto (io sono di Genova e persone che lo conoscevano personalmente me n'hanno riferito come di una persona piuttosto antipatica), ma questo non vuol dire che sapesse raccontare quel mondo molto bene. Mi viene un altro esempio: Dostoevskij era una persona abbastanza brutta umanamente. Orgoglioso, rancoroso, giocatore e bevitore incallito, superbo, ma ha raccontato la pietà umana e la bontà come pochi altri. Io non credo che conti l'esempio di vita dell'artista (non sono delle Vitae Sanctorum) ma piuttosto come ha saputo parlare di un argomento.

Devo dire che questa è una questione molto interessante su due fronti. Uno strettamente legato a De Andrè, alla sua personalità e alla sua scelta di affrontare nelle sue canzoni, e soprattutto in questo album, un certo argomento; l'altro che riguarda una cosa che mi sono chiesta spesso, e di cui però potremmo parlare in un altro thread, su come una persona di un certo tipo, possa descrivere in modo così chiaro e profondo realtà totalmente estranee, o quasi, a sé, proprio come l'esempio che fa Vladimir su Dostoevskij.
 

Thor

Dio Norreno
Grande Album e grande canzone....in grado entrambi di toccare in fondo all'anima di tutti: uomini, matti e dei.
 

Vladimir

New member
quello che volevo dire con il mio commento è che secondo me De Andrè non esprime una pietas, un'empatia, una condivisione reale nei confronti delle persone di cui parla, non è portavoce di un dolore altrui ma crea delle immagini che giustifichino, e che rendano quasi eroico il disfacimento della propria vita, chiede un alibi per sè, ma vissuto in modo ambiguo, facendo leva sulle emozioni altrui ma nello stesso tempo rendendo attraente l'autodistruzione, il "drogato" come momento poetico e non drammaticamente vero. Chi ascoltando questa canzone non ne ricava un'immagine di eroe negativo? Ricordiamo La cattiva strada ad esempio oppure certe canzoni autoflagellanti e morbose di Tutti morimmo a stento, dove la "depressione" di De Andrè, si insinuava sottopelle nella vita di tanti adolescenti, compresa la mia. Forse ascoltarlo adesso ha un'altra valenza e un altro vissuto, io amo un De Andrè meno manipolatorio, che scarica di meno sugli altri e si prende più responsabilità rispetto a quello che dice.
Non so se mi sono spiegata, forse non è facile quello che voglio dire, perchè me lo sto chiarendo man mano che lo scrivo.

Complimentoni per il linguaggio critico. Se tutti i critici scrivessero così sarebbe un paradiso:YY. Tu affermi che: "De Andrè non esprime una pietas, un'empatia, una condivisione reale nei confronti delle persone di cui parla, non è portavoce di un dolore altrui ma crea delle immagini che giustifichino, e che rendano quasi eroico il disfacimento della propria vita, chiede un alibi per sè, ma vissuto in modo ambiguo, facendo leva sulle emozioni altrui ma nello stesso tempo rendendo attraente l'autodistruzione, il "drogato" come momento poetico e non drammaticamente vero [...] io amo un De Andrè meno manipolatorio, che scarica di meno sugli altri e si prende più responsabilità rispetto a quello che dice." Ma perché scrive l'artista? Non è forse per creare immagini? Anzi, a mio parere, quando si condivide un'empatia con qualcuno o qualcosa e si scrive a proposito di questo, il risultato di solito è piuttosto scadente. Bisogna non condividere, essere freddi e spietati per fare un buon ritratto di un fenomeno o di una persona, altrimenti se c'è empatia, soprattutto se si tratta di disgrazie, si cade nel patetico e anche nel grottesco. Poe affermava che per raccontare bene una storia bisogna essere calmi, freddi senza passioni. Ed è quello che secondo me De André fa in molte sue canzoni sugl'ultimi e i diseredati: raccontava così bene quel mondo, perché lui non ne era parte e quindi lo vedeva dall'esterno. Altra cosa: dici che l'artista chiede un alibi per se, facendo leva sulle emozioni degli altri; cosa hanno sempre fatto tutti gli artisti di tutto il mondo, se non cercare alibi nelle loro opere per la loro dissolutezza, la loro vigliaccheria, le loro debolezze umane? Ultimo punto: tu parli del "drogato" solo in funzione di momento poetico e non drammaticamente vero. Ancora una volta qui mi soccorre Poe, che spiegando la composizione de Il corvo asserisce: "Preferisco cominciare con la considerazione d'un effetto. Tenendo sempre presente l'originalità [...] anzitutto mi chiedo: fra gli innumerevoli effetti, o impressioni, di cui il cuore, l'intelletto, o (più generalmente) l'anima è suscettibile, quale devo scegliere nel caso presente?" Che cos'è una poesia se non un'architettura sapientemente studiata a tavolino per creare delle emozioni? Dicendo questo non voglio sminuirne il valore, ma solo sottolineare il fatto che la poesia non può avere un momento drammaticamente vero; può farsi portarice di ideali, di concezioni estetiche, di sperimentazione linguistica o semantica, ma non può avere un momento drammatico vero, non è il suo compito. Concludo portandoti un altro esempio: il grande scrittore rivoluzionario Nikolaj Gavrilovič Černyševskij (idolo di Lenin), nella sua tesi di laurea intitolata Rapporti estetici dell'arte con la realtà sosteneva che, la realtà sarà sempre superiore all'arte perché per quanto questa si sforzi di imitarla, non sarà mai in grado i farlo perfettamente e la natura sarà sempre più perfetta. Il momento drammatico, il drammaticamente vero si perde in quello sfasamento fra arte e realtà.
 
Splendido intervento, non lo quoto per la sua lunghezza. :wink:

Il drammaticamente vero è ciò che più nuoce all'arte, la deturpa fino ad eliminarla.
Cos'è "arte"? Cos'è sempre stata, al di là dei nomi diversi che ha assunto nei secoli (d'altra parte Chomsky parla di arbitrarietà del segno)? La risposta è tanto semplice quanto complessa: è stata - ed è - la manifestazione della creatività, la più alta di tutte le facoltà umane. Checché se ne dica, è proprio nella capacità di astrarre dal reale, di saper discernere - non sempre a ragione - quale tra le infinite potenze possibili, possa tramutarsi in atto che l'uomo si distingue.

L'arte è dunque simile alla concezione di un bambino: qualcosa di nuovo, di "vergine", inesistente ed impensato, oltre che impensabile, chiaramente prima della fecondazione. Così come un feto presenta già dalla prima cellula la sua unicità, costruendosi su fili di dna irripetibili, secondo le fantasie della natura, allo stesso modo l'arte deve nutrirsi dell'irreale, dell'essenza delle cose, nella sua accezione filosofica.

Scopo dell'arte è proprio quello di mettere in luce quel limite sottilissimo, crine a volte dato per scontato, tra esistenza e non esistenza. Compito dell'artista è allora strappare all'inesistenza qualcosa che da allora e per sempre, in qualche modo sarà.

Secondo questo ragionamento, per forza di cose il drammaticamente vero non solo non ha ragione di esistere, ma occorre che non esista. Dunque l'alibi dell'artista è quello che si costruirà spiegando perché egli abbia portato alla vita una potenza piuttosto che un'altra. In quel controverso groviglio che è la realtà, chi crea deve giustificarsi di aver creato.

E' una tesi molto diversa dalla tua, sebbene arrivi alla stessa conclusione.:D
 

Vladimir

New member
Splendido intervento, non lo quoto per la sua lunghezza. :wink:

Il drammaticamente vero è ciò che più nuoce all'arte, la deturpa fino ad eliminarla.
Cos'è "arte"? Cos'è sempre stata, al di là dei nomi diversi che ha assunto nei secoli (d'altra parte Chomsky parla di arbitrarietà del segno)? La risposta è tanto semplice quanto complessa: è stata - ed è - la manifestazione della creatività, la più alta di tutte le facoltà umane. Checché se ne dica, è proprio nella capacità di astrarre dal reale, di saper discernere - non sempre a ragione - quale tra le infinite potenze possibili, possa tramutarsi in atto che l'uomo si distingue.

L'arte è dunque simile alla concezione di un bambino: qualcosa di nuovo, di "vergine", inesistente ed impensato, oltre che impensabile, chiaramente prima della fecondazione. Così come un feto presenta già dalla prima cellula la sua unicità, costruendosi su fili di dna irripetibili, secondo le fantasie della natura, allo stesso modo l'arte deve nutrirsi dell'irreale, dell'essenza delle cose, nella sua accezione filosofica.

Scopo dell'arte è proprio quello di mettere in luce quel limite sottilissimo, crine a volte dato per scontato, tra esistenza e non esistenza. Compito dell'artista è allora strappare all'inesistenza qualcosa che da allora e per sempre, in qualche modo sarà.

Secondo questo ragionamento, per forza di cose il drammaticamente vero non solo non ha ragione di esistere, ma occorre che non esista. Dunque l'alibi dell'artista è quello che si costruirà spiegando perché egli abbia portato alla vita una potenza piuttosto che un'altra. In quel controverso groviglio che è la realtà, chi crea deve giustificarsi di aver creato.

E' una tesi molto diversa dalla tua, sebbene arrivi alla stessa conclusione.:D

Sono d'accordo con buona parte di ciò che dici, ma dissento profondamente quando affermi che l'arte è simile alla concezione di un bambino. Per quello che m'ha insegnato la mia esperienza di ricerca, la poesia e più in generale i testi letterari in generale, sono risultati di procedimenti profondamente razionali e "adulti". L'artista-bambino secondo me è un mito inesistente. Gli artisti spesso sono personaggi piuttosto bassi che hanno soprattutto una buona dose di mestiere e di malizie con le quali plasmavano gli effetti che un'opera doveva suscitare nel lettore. Personalmente credo che dietro alla creazione artistica, ci sia molta meno "magia" e molta più pragmaticità di quello che si crede; con questo non voglio assolutamente sminuire il talento dei grandi artisti perché se fosse solo questione di pratica del mestiere, saremmo tutti Poe, Dante, Dostoevskij, Baudelaire ecc...
 

Dayan'el

Σκιᾶς ὄν&#945
Sono d'accordo con buona parte di ciò che dici, ma dissento profondamente quando affermi che l'arte è simile alla concezione di un bambino. Per quello che m'ha insegnato la mia esperienza di ricerca, la poesia e più in generale i testi letterari in generale, sono risultati di procedimenti profondamente razionali e "adulti". L'artista-bambino secondo me è un mito inesistente. Gli artisti spesso sono personaggi piuttosto bassi che hanno soprattutto una buona dose di mestiere e di malizie con le quali plasmavano gli effetti che un'opera doveva suscitare nel lettore. Personalmente credo che dietro alla creazione artistica, ci sia molta meno "magia" e molta più pragmaticità di quello che si crede; con questo non voglio assolutamente sminuire il talento dei grandi artisti perché se fosse solo questione di pratica del mestiere, saremmo tutti Poe, Dante, Dostoevskij, Baudelaire ecc...
Beh, è chiaro. Basti pensare al Canzoniere di Petrarca, per dirne una: lo lavorò per tutta la vita, tornandoci sopra a distanza di anni, quasi fosse un diario della sua esistenza, e così è in definitiva. L'artista non è un improvvisatore, a sentire Croce, l'opera considerata per se stessa, non ha alcun valore, è una vuoto contenitore attraverso il quale espandere la sensazione artistica, l'intuizione pura. L'opera d'arte non è la risultante di un impeto immediato, al contrario per una cosa ben fatta occorrono anni ed anni di impegno puntiglioso e conoscenze sempre più raffinate.

Credo però che erased abbia inteso dire altro portando la similitudine del bambino: l'opera d'arte è simile in tutto e per tutto alla concezione di una vita. Dando per buona la definizione data dell'arte come realizzazione di una sola potenza tra infinite, anche un bambino è uguale, anch'egli non è che la realizzazione di circa duecento milioni di esseri umani possibili. Nessun uomo è pensabile prima della nascita, perché unico, e destinato a rimanere unico nella sua unicità in eterno. Non esistono combinazioni di dna uguali.
L'opera d'arte è dunque come una vita strappata al non essere, entrambe prima non erano, ed entrambe adesso saranno, uniche ed eterne.

Così almeno l'ho interpretata, mi corregga lo stesso erased se sbaglio. :wink:
 
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