Forte e insieme delicato questo romanzo – non troppo lungo – di Joseph Roth, autore che leggo per la prima volta.
Devo dire che, nonostante le aspettative fossero molto alte, non sono rimasta delusa. Lo stile è nitido, lineare, vibrante nella sua semplicità. Ho apprezzato moltissimo soprattutto la prima parte: il racconto di un mondo al tramonto (l'Impero austro-ungarico a ridosso della Prima Guerra Mondiale), attraverso gli occhi di chi nel frattempo lo ha visto morire e ripercorre con malinconia – e forse un briciolo di nostalgia – situazioni ed emozioni che ormai non torneranno più.
È questo sguardo retrospettivo che mi ha colpito più di ogni altra cosa... Quali sono i sentimenti che prova Trotta/Roth volgendo lo sguardo al suo passato? Il tono è ambiguo: un misto di indulgenza, ironia e amarezza...
Si potrebbe credere che il “distacco” quasi autocritico che il protagonista prova nei confronti della realtà prebellica, alla quale tuttavia anch'egli apparteneva, sia dovuto solo al fatto di conoscerne il triste epilogo (“la morte incrociava già le sue mani ossute sopra i calici da cui noi bevavamo, lieti e puerili”)... Ma non è così: l'imbarazzo che prova nei confronti dei suoi compagni, la paura di risultare ridicolo ai loro occhi - tanto da essere costretto a nascondere i propri sentimenti nei confronti dell'innamorata Elisabeth, ma anche di sua madre- , il genuino ma se vogliamo ingenuo fascino che suscitano in lui il cugino caldarrostaio e il suo amico vetturino (ammirati non tanto come “individui” quanto come “simboli” quasi folkloristici) , sono tutti sintomi di un disagio già presente nell'animo del protagonista e che, finita la guerra e dissolto l'Impero, non faranno altro che trovare una triste conferma.
Tornato a casa, Trotta sente che la realtà che lo circonda gli è estranea e ostile, e – falliti i miseri tentativi di “mettere ordine nella sua vita” – giunge alla coscienza della sua natura di “esiliato”: “(eravamo) una generazione votata alla morte, che la morte aveva sdegnato”. Tutto è cambiato: è come se quel velo morbido e sottile che ricopriva ogni cosa (nobilitando anche ciò che forse non meritava di esserlo) si fosse dissolto.
La guerra ha portato via con sé ogni retorica, ogni vuoto formalismo (bellissimo il passaggio in cui il protagonista prova a baciare la mano della moglie, che la ritrae quasi schernendolo), ma al loro posto cosa si è affermato? Non valori nuovi, ma nuove menzogne; non sentimenti puri finalmente liberi di essere espressi, bensì “moderne” ipocrisie... al vacuo formalismo dell'Impero si è sostituita un'arida logica del profitto, alla quale il protagonista non riesce a conformarsi.
L'incapacità di Trotta di adattarsi a questo nuovo mondo in fin dei conti non è troppo diversa da quella che gli impediva di vivere serenamente la sua giovinezza. L'impressione che ho avuto è che Roth voglia in qualche modo metterci in guardia contro tutti i “falsi valori” che possono contaminare qualsiasi realtà e qualsiasi epoca... Certo non si può prescindere dal contesto effettivo nel quale il romanzo è inserito (la dissoluzione dell'Impero austro-ungarico e il delinearsi del Regime nazista), né dal momento in cui questo è stato scritto (con Roth esule in Francia a causa di questo stesso Regime), però allo stesso tempo la sua scrittura è così limpida e forte da superare i limiti storici.
Quando qualcosa finisce, porta sempre dolore. Tramontato il suo mondo, scomparsa ogni certezza, il protagonista si chiede dove potrà andare ora, e se lo chiede nella Cripta dei Cappuccini, ovvero proprio nel luogo che custodisce le vestigia di ciò che ha perso. Una conclusione amara, per un libro che comunque non è privo di ironia ed è sicuramente molto, molto piacevole.