Manzoni, Alessandro - I promessi sposi

Meri

Viôt di viodi
Per chi non avesse letto ancora questo libro, di propria spontanea volontà, cioè dopo il diploma, lo faccia. STUPENDO :YY
 
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Lauretta

Moderator
io l'ho letto ben due volte e lo reputo un'opera degna di nota..ci saranno pareri contrastanti, sono state aperte diverse discussioni su questo libro che hanno portato ad accesi dibattiti sulla sua effettiva originalità e bellezza.
io l'ho trovato un ottimo romanzo, il primo romanzo italiano, riassume diversi stili e diversi generi, ci sono delle parti di pura poesia, come la morte della piccola Cecilia o la conversione dell'innominato..in alcuni punti è effettivamente un po' lento ma nel complesso è veramente un libro che non si può non leggere.
 

lavy

New member
sarà che alle superiori mi ci hanno fatto una testa grossa così:OO, compiti su compiti :Wma non mi è piaciuto.. forse rileggendolo senza l' incubo scuola lo apprezzerò di più
 

Masetto

New member
E’ un’opera talmente complessa, “densa”, ricca, che è quasi impossibile riassumerne anche le sole caratteristiche principali in un post. Mi limito allora a riportare qualche pagina critica, quale “invito alla lettura”:


<< Perché la prima pagina dei Promessi Sposi è costruita con periodi tanto lunghi? È chiaro, qui Manzoni sta facendo del cinema...
Cerchiamo di immaginare che Manzoni avesse a disposizione grandi mezzi e dovesse scrivere la sceneggiatura per una storia che inizia a volo di elicottero. Naturalmente un elicottero con una telecamera a bordo. E rileggiamo questa pagina tenendo sotto gli occhi una carta geografica. Provate a farlo a scuola, i ragazzi si divertiranno.
Manzoni ha deciso che la sua descrizione dell’ambiente deve procedere anzitutto per un movimento che un tecnico cinematografico chiamerebbe di «zoom», è come se la ripresa fosse fatta da un aereo: cioè la descrizione parte come fatta dagli occhi di Dio, non dagli occhi degli abitanti. Questa prima opposizione «alto verso basso», oppure questo primo movimento continuo dall’alto al basso, individua prima il lago e il suo ramo, poi scende lentamente a guardare il ponte e le rive. La decisione geografica è rinforzata dalla decisione di procedere da Nord verso Sud, seguendo
appunto il corso di generazione del fiume. In conseguenza il movimento descrittivo parte dall’ampio verso lo stretto, dal largo al fiume, ai torrenti, dai monti ai pendii e poi ai valloncelli, sino all’arredamento minimo delle strade e dei viottoli, ghiaia e ciottoli.
La visione geografica, man mano che procede dall’alto verso il basso, diventa visione topografica e include potenzialmente gli osservatori umani. Non appena questo avviene, la pagina compie un altro movimento, questa volta non di discesa dall’alto geografico al basso topografico, ma dalla profondità alla lateralità: sino ad arrivare a dimensioni umane, dove la carta si annulla nel paesaggio concreto. A questo punto l’ottica si ribalta, i monti vengono visti di profilo, come se finalmente li guardasse un essere umano a piedi. Per cui si dice del Resegone che non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte....
A quel punto anche i pendii e i viottoli, visti prima dall’alto, sono descritti come se fossero «camminati» con suggestioni non solo visive, ora, ma anche tattili. Solo a quel punto il visitatore, che cammina, arriva a Lecco. E qui Manzoni compie un’altra scelta: dalla geografia passa alla storia e quindi narra la storia del luogo che ha appena descritto geograficamente. Siamo, grosso modo, alla fine della prima pagina.
Non è bello? Ecco che questa pagina, sintatticamente così irta, non ci appare più misteriosa, è una grande panoramica con carrellata, è una discesa a volo d’uccello, e se non è fatta attraverso lo sguardo della televisione, è fatta attraverso gli occhi della Provvidenza, ovvero a volo d’angelo. Una planata superba. Allora si capisce perché i punti fermi debbono stare dove stanno, non prima e non dopo. I periodi non sono lunghi e ansimanti, hanno il respiro di un aliante. C’è di che riconciliarsi con i Promessi Sposi. Quel signore era forse poco simpatico, malgrado i buoni uffici di Natalia Ginzburg. Ma il libro di quel signore, che bello! Leggetelo e rileggetelo, ragazzi, sotto il banco, mentre il professore parla d’altro. Vi invito a una lettura clandestina di Manzoni, come se fosse un libro proibito. Forse lo amerete. >> Umberto Eco


A proposito dei soliloqui di Don Abbondio mentre è costretto a salire al castello dell’Innominato:
<< Il cardinale visto da Don Abbondio è disceso dall’invisibile pergamo, in cui l’avevamo visto nel colloquio con l’innominato, ed è diventato un personaggio quotidiano, familiare, col quale si può fare a maggiore confidenza E’ un gran dire che tanto i santi come i birboni gli abbiano ad avere l’argento vivo addosso. I santi ed i birboni, per l’eroe della piccola ragione, sono molto vicini tra di loro; sono essi gli eroi della virtù attiva, sempre in moto loro, e che vorrebbero tirare in ballo tutto il genere umano. Per un uomo dalla passiva prudenza è perfettamente giusto che birboni e santi siano accomunati insieme. La logica di don Abbondio è coerentissima. Non c’è nulla di irriverente da parte di lui in quel mettere insieme il cardinale con un facinoroso come don Rodrigo e con un ancor presunto facinoroso come l’innominato. Dalla prima battuta fino all’ultima birboni e santi fanno un’immagine sola nel cervello di Don Abbondio. […] Parole forti egli adopera per l’innominato: un uomo che ha messo sottosopra il mondo con le scelleratezze e ora lo mette sottosopra con la conversione; e infine la maggior inclemenza di giudizio è per il cardinale; non solo accomuna il santo coi birboni, ma addirittura si mette a verseggiarne le parole e i gesti (subito, subito, braccia aperte, caro amico, amico caro, presto di qua, presto di là); lo accusa di precipitazione, anzi di poca flemma, di poca prudenza, di poca carità. In questo rovesciamento di valori, don Abbondio è fedelissimo alla sua logica: ritorna il personaggio del primo capitolo, quel rigido censore di tutti i faccendoni, specialmente degli ecclesiastici, che vogliono raddrizzare le gambe ai cani, e mischiarsi nelle cose profane a danno della dignità del sacro ministero. Don Abbondio, come tutti gli spiriti gretti, non se la prende tanto contro gli oppressori ed i prepotenti, ma piuttosto contro chi tenta di reagire all’oppressione ed alla prepotenza.>> Luigi Russo


Renzo torna al paese durante la peste:
<< Alla fame si aggiunge la peste. Renzo torna verso casa sua: com’è reso lo scoramento senza parole e senza pianto, che incute la vista d’un paese un tempo tranquillo e fiorente, ora taciturno, sparso di miserie e di lutti! Non c’è la commozione, ma quella stanchezza, quell’abbattimento, che non cerca nemmeno più uno sfogo, che non è nemmeno più rassegnazione, ma immobilità intontita sotto la percossa. S’indovina del modo di disegnare di Manzoni la commozione chiusa, lo stupore che la sventura possa giungere a tanto. Le linee sono rigide, scarbe, e spirano esse stesse – con la loro precisione severa – lo squallore della scena. Tonio è reso dalla peste così simile al fratello scimunito da potere essere scambiato con lui; in questo solo particolare è tutta la sua miseria […] . Incantato dalla malattia, ripete meccanicamente quell’unica frase A chi la tocca, la tocca, che è l’unico resto di pensiero che gli abbia lasciato la peste. La sua coscienza è tutta in quelle sei parole, dove risuona come in un immenso vuoto la devastazione dell’immane sventura. Dopo averle pronunciate rimane con la bocca aperta, come ripetendole dentro di sé – senza suono – in una fissità di ebete. Tonio non è più che la preda abbandonata dalla peste. La comicità di Gervasio muore nell’incantato squallore di Tonio: il ritratto di quest’inebetito è una delle più alte fantasie manzoniane.
L’effetto che produce questa frase è sobrio: Renzo seguitò la sua strada, più contristato e basta; è il solito raccoglimento del Manzoni.
La costernazione è il tono continuo di queste pagine dove passano, con una sobrietà immortale, i dolori di tutto un popolo. […]
Renzo prosegue il suo cammino, in cerca di un amico. Lo trova che è quasi buio; il dialogo che segue riflette in quella sola figura di sopravvissuto l’intero paese deserto, il corteo uguale, interminabile delle sepolture. Si sente lo sgomento freddo di quella solitudine, il grigio di quell’esistenza trascinata senza più nemmeno il pensiero d’un barlume lontano. Sai dice a Renzo sai che son rimasto solo? solo! Solo, come un romito! : e ripetendo tre volte, in tre toni diversi, la sua sventura, sembra che guardi dentro di sé il suo smarrimento. Poi l’idea ritorna, quasi con la monotonia intontita di Tonio, quando ad un tratto, mentre sta per far la polenta all’ospite, gli cede il matterello e se ne va dicendo: Son rimasto solo: ma! son rimasto solo! . Cose da levarvi l’allegria per tutta la vita dice a Renzo con una tristezza penetrante; ma però, soggiunge con un conforto soave a parlarne tra amici, è un sollievo. E così lo spirito frenato del Manzoni, che non osserva mai una faccia della vita senza veder l’altra, diffonde sulla scena una dolcezza accorata; per lui l’angoscia non è mai senza sollievo, perché gli spiriti sani, anche nelle ore più fosche non posson restar di volgere l’occhio a Dio o di cercare un riposo nel bisogno di amare. Questa malinconia affettuosa è una dellle innumerevoli prove dell’umanità del Manzoni, che scende con ineffabile naturalezza nei cuori lieti, pensosi, tormentati, e coglie il loro segreto, come se vivesse in loro, con una simpatia quale hanno solo i grandi creatori. >>
Attilio Momiliano


Don Abbondio fugge dal paese dove stanno per passare i lanzichenecchi:
<< Il gesto di Perpetua, che richiude e ripone la chiave in tasca, allude chiaramente alla violenza che sta per abbattersi su quella casa. […] Si ripensa ancora una volta al capitolo VIII, a quello stesso uscio lasciato negligentemente aperto da Perpetua, a quell’innocua invasione dei due promessi nella canonica, a quella tranquillità presto ricomposta, e insieme a quella casa di Agnese messa sottosopra dalla spedizione dei bravi, a quella chiave consegnata da Agnese con un così umano sospiro a fra Cristoforo, a quella fuga di Renzo e Lucia. La situazione ora appare rovesciata. I punti di contatto segnano degli sviluppi opposti. Quella era la fuga di Lucia, questa è la fuga di don Abbondio. Così la chiesa, a cui Lucia rivolgeva il pensiero con nostalgia affettuosa, congiuntamente a quello della casa, in don Abbondio desta soltanto un’occhiata indifferente, un infastidito brontolio in cui essa viene respinta come cosa che non lo riguarda, tale da imporre un dovere non a lui ma agli altri (Don Abbondio diede, nel passare, un’occhiata alla chiesa, e disse tra i denti: ”al popolo tocca a custodirla, che serve a lui”). E la visone provvidenziale degli avvenimenti, la certezza di Lucia che Dio è per tutto, e non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande, cede il posto alla meschina visione politica di don Abbondio, il quale dopo aver sospirato e risospirato, e poi lasciato scappare qualche interiezione, incomincia a brontolare più di seguito, prendendosela col duca di Nevers, con l’imperatore, col governatore, tutta gente che avrebbe potuto o dovuto vivere in pace, e si metteva invece a far la guerra. […] E sono in sé sacrosante verità, condivise senza dubbio dall’autore, e tuttavia divenute in bocca al curato espressione di un modo di pensare egoistico (si capisce che quel conto che hanno da rendere quei signori è dovuto soprattutto al disturbo recato a lui, don Abbondio) […] . Tra l’autore e il suo personaggio si manifesta costantemente una specie di vicinanza-lontananza ideale. E basti pensare alla situazione-base determinata dal dolce idillio della casa, che Manzoni approva, senza accettarne però le egoistiche conseguenze a cui don Abbondio lo porta. >> Giovanni Getto


Sulla conversione dell’Innominato:
<< Osserviamo come il Manzoni ha con molta esattezza scandito questi tre successivi momenti del ritrovamento interiore di Dio; innanzi tutto il sentimento della morte, poi il sentimento del giudizio individuale, ed infine il sentimento della presenza di Dio. [...] Manzoni in questi tre momenti, senza formule filosofiche, nella rappresentazione trasparente della poesia, ci ha saputo descrivere tutto il capovolgimento di una visione filosofica della vita. Il Manzoni è stato profondamente accorto nel mettere per ultimo il sentimento della presenza di Dio, il quale è al di sopra di ogni nostra volontà. Quest’ultimo sentimento invero è quello che rovescia la visione dell’Innominato: Io sono però. L’oggetto che ha una sua esistenza immutabile, al di fuori ed al di sopra del soggetto che lo pensa. Gli altri due momenti precedenti sono vagamente religiosi, ma non sono ancora concretamente religiosi nel senso di una religione positivamente intesa. Tutti possiamo avere un senso religioso della morte, tutti avvertire la paura di un giudizio eterno, il giudizio stesso degli uomini, il giudizio della storia che è anch’essa una forma di eternità, la giustizia stessa delle cose che si viene compiendo mentre noi viviamo ed operiamo; non per questo, noi siamo entrati nel mondo di una religione positivamente intesa, di una religione del trascendente. Per sentirci al centro di questa religione del trascendente, dobbiamo giungere all’aperto e pauroso riconoscimento di qualche cosa che è, che esiste al di fuori di noi, al di fuori della nostra volontà. Ed è quello a cui giunge l’Innominato, il quale fin da questo momento dunque si converte non già ad una vaga e generica religiosità, ma ad una precisa puntuale e positiva religione del trascendente. [...] Ma volevo piuttosto rilevare come il Manzoni non ci fa giungere ex abrupto a questo capovolgimento di visione; tale conversione, dico, appare preparata, graduata, da quelle due precedenti fasi del pensiero della morte, del timore del giudizio eterno. [...] Da ciò i combattimenti della sua volontà contro la lenta invasione di questi pensieri religiosi: una troppo immediata adesione a codesti pensieri religiosi sarebbe stato segno di superficialità, segno di un rugiadoso ottimismo catechistico da parte del Manzoni stesso. [...] Qui si chiude la pagine critica, per dir così, sulla conversione dell’Innominato, che è forse la più profonda e la più intensa dell’episodio, dove ogni paragrafo segna un avanzamento nella parte più occulta della coscienza. >> Luigi Russo
 

mado84

New member
io non sono mai riuscito a leggerlo. sinceramente la storia non mi è mai piaciuta, ma anche la scuola ci ha messo del suo. forse davano troppo peso a quel romanzo
 

WilLupo

New member
Letto da adulta, continuo ad essere d'accordo con Carducci... che il senso del romanzo è che a pigliar parte alle sommosse si risica di finire impiccati :mrgreen:

La capacità di questo libro di coinvolgermi è meno di zero, e non perchè sia un libro del passato (ce ne sono tanti altri che mi entusiasmano!) ma perchè lo trovo irrimediabilmente vecchio, ottocentesco nel peggior senso del termine :(
Non mi interessano gli espedienti letterari o le dimostrazioni di gran mestiere (da parte del Manzoni) su cui certa critica mette l'accento: non metto certo in dubbio le capacità tecniche dell'autore e il suo italiano perfetto risciacquato in Arno :wink:, però per me resta una storiellona moralista e retorica: inoltre trovo falsi, preconfezionati, molti dei personaggi (a cominciare dai protagonisti).

Ora sono un pò arruggunita... mi ricordo però che all'epoca consegnai un tema di critica sui P.S. (era alla maturità?!?) su cui gli insegnani ebbero ben poco da dire :)
 

elisa

Motherator
Membro dello Staff
credo che volenti o nolenti sia il romanzo dell'italica stirpe che ci rappresenta nelle diverse sfaccettaure del nostro agire. A me piace sotto tanti punti di vista, con quella capacità di creare dei bozzetti che saltano all'occhio ancor prima di inoltrarsi nella storia, descrivere caratteri e personalità attraverso la descrizione dei comportamenti, creare dei tipi umani o delle situazioni che sono universali. Non male come romanzo nazionale.
 

isola74

Lonely member
Io ancora non l'ho letto... dopo essere stata costretta al liceo intendo...
Ma è in lista d'attesa e prima o poi mi farò coraggio :wink:
 

Kriss

blonde member
Io ancora non l'ho letto... dopo essere stata costretta al liceo intendo...
Ma è in lista d'attesa e prima o poi mi farò coraggio :wink:

dopo aver letto tutti i nostri commenti, ti sarà venuta sicuramente voglia di sapere com'è.
un mio consiglio spassionato: va letto. Forse poi lo potrai anche criticare, come ha fatto Willupo con cui mi trovo, per certi versi, d'accordo. Ma è comunque un pezzo importante della nostra cultura e penso che non sarebbe tempo sprecato. Aspetto il tuo commento....:)
 

isola74

Lonely member
dopo aver letto tutti i nostri commenti, ti sarà venuta sicuramente voglia di sapere com'è.
un mio consiglio spassionato: va letto. Forse poi lo potrai anche criticare, come ha fatto Willupo con cui mi trovo, per certi versi, d'accordo. Ma è comunque un pezzo importante della nostra cultura e penso che non sarebbe tempo sprecato. Aspetto il tuo commento....:)

Lo leggerò di sicuro, anche perchè fa bella mostra di sè in libreria....
 

Masetto

New member
"il senso del romanzo è che a pigliar parte alle sommosse si risica di finire impiccati" :mrgreen:
Niente di più sbagliato: Manzoni condanna sì il ricorso alla violenza, ma una delle idee portanti del romanzo, incarnata principalmente da Fra Cristoforo e dal Cardinale, è che bisogna reagire alla oppressioni, e non rassegnarsi al male come fa invece Don Abbondio.
E se è vero che gli “eroi” del romanzo aborrono la violenza, non va dimenticato che Manzoni approvò le guerre d’indipendenza italiane.
Insomma non lo si potrà mai dire un rivoluzionario, ma il suo è un Cristianesimo tutt’altro che arrendevole e retrivo.

Non mi interessano gli espedienti letterari o le dimostrazioni di gran mestiere (da parte del Manzoni) su cui certa critica mette l'accento: non metto certo in dubbio le capacità tecniche dell'autore e il suo italiano perfetto risciacquato in Arno :wink:
Non si tratta solo di espedienti letterari, di dimostrazioni di gran mestiere, di capacità tecniche e di italiano risciacquato in Arno, ma di grande ispirazione poetica, perché il Manzoni sente il Cristianesimo in profondità, sa verificarne la morale qui e ora, a diretto confronto con i dolori eterni dell’uomo (vedi il discorso di Padre Felice nel lazzaretto per esempio), vive con intensa partecipazione questi dolori (vedi l’articolo di Momigliano che ho postato più sopra), trova similitudini straordinarie (le due su Don Abbondio durante il colloquio col Cardinale, quella della Peste con la falce, quella tra Macbeth e il padre di Fra Cristoforo… ma ce ne sono una valanga), sa dar espressione ad una gamma enorme di sentimenti, sa essere sarcastico, spiritoso, toccante, epico (il magnifico paragrafo sul passaggio dei Lanzichenecchi: Passano i cavalli di Wallenstein, passano i fanti di Merode etc.), sa ricreare non solo l’atmosfera del Seicento ma anche quella che è stata la “visione del mondo” di quel secolo,…. e tutto ciò in un’opera di una coerenza straordinaria, dove le idee dell’autore costruiscono il nervo stesso della narrazione e assumono nei personaggi più riusciti una evidenza ed una forza indimenticabili (L’Innominato...).
E la critica l’accento l’ha messo soprattutto sui passi più poetici, molto meno sul “mestiere” di Manzoni (i cinque “interventi” che ho riportato più su ne sono un (limitatissimo) saggio).

per me resta una storiellona moralista e retorica
Moralistica sì, retorica in alcune parti (per esempio nella biografia del Cardinale) ma non nell’insieme, essendo al contrario un opera scritta prima di tutto col cuore.

inoltre trovo falsi, preconfezionati, molti dei personaggi (a cominciare dai protagonisti).
Renzo e Lucia non sono i personaggi più interessanti, vero, ma dove sarebbero “falsi”?
E la maggior parte dei personaggi principali (Fra Cristoforo, L’Innominato, Don Abbondio, Gertrude) sono tutto il contrario di figure “preconfezionate”.
 

WilLupo

New member
I personaggi sono falsi in quanto si avverte pesantemente che si tratta di stereotipi costruiti con intenti didascalici!
Almeno, io lo avverto pesantemente :)
Renzo e Lucia impestano l'intero romanzo e sono personaggi piatti, privi di complessità, e falsi, mostruosamente falsi: pensiamo solo al poetico e “dotto” addio ai monti messo in bocca ad una popolana del ‘600 … fa quasi ridere.
Manzoni, è lui che parla, perchè presumibilmente incapace o non interessato a far parlare con la sua voce e le sue parole una popolana del 600.
Fatto sta che il ritratto della popolana del 600 dal romanzo non emerge...

Mò non mi metto a fare l'analisi degli altri personaggi, non me lo posso permettere perché è passato troppo tempo e non ho il libro sotto mano, ma il ricordo è di un grigiore incontrastato: ognuno ho uno scopo, ha un ruolo preciso nel realizzare l’intento moralistico del romanzo, ma con ben poca umana e contraddittoria complessità.

In generale su tutto il romanzo grava la cappa oppressiva della componente didascalica, dottrinale.
Più che ispirazione, ci si avverte onnipresente l’ideologia religiosa.
Lo scopo è palese: dare forza ad un messaggio. In questo caso si tratta di quello cattolico ma se fosse un altro non cambierebbe molto.
Non metto affatto in dubbio che Manzoni lo abbia scritto col cuore, essendo un cattolico convinto, ma il moralismo trapela ovunque, prende pesantemente il sopravvento su qualunque altra cosa. "Ispirazione" non se ne avverte proprio :(

Di solito le opere ideologiche le apprezza soprattutto chi è allineato con quall'idea (con buona pace della presunta universalità). Il cattolicesimo è molto diffuso e il romanzo molto apprezzato: ovviamente chi è in linea con quel credo si sente coinvolto, avvalorato…
(certo che anche a me piacciono alcuni libri che ricalcano come la penso, ma in quanto al loro valore letterario cerco di rimanere obiettiva)
A quanto so Manzoni non ha un grosso successo all'estero, in paesi non cattolici :wink:

Continuo a pensare che il merito del Manzoni sia soprattutto linguistico.
Mi pare tra l’altro che sia stato il primo romanzo in italiano, no?
Mi piacerebbe vedere cosa ne è dei P.S. se tradotto in inglese o in qualche altra lingua lontana dall’italiano :??
 
Letto da adulta, continuo ad essere d'accordo con Carducci... che il senso del romanzo è che a pigliar parte alle sommosse si risica di finire impiccati :mrgreen:

La capacità di questo libro di coinvolgermi è meno di zero, e non perchè sia un libro del passato (ce ne sono tanti altri che mi entusiasmano!) ma perchè lo trovo irrimediabilmente vecchio, ottocentesco nel peggior senso del termine :(
Non mi interessano gli espedienti letterari o le dimostrazioni di gran mestiere (da parte del Manzoni) su cui certa critica mette l'accento: non metto certo in dubbio le capacità tecniche dell'autore e il suo italiano perfetto risciacquato in Arno :wink:, però per me resta una storiellona moralista e retorica: inoltre trovo falsi, preconfezionati, molti dei personaggi (a cominciare dai protagonisti).

Ora sono un pò arruggunita... mi ricordo però che all'epoca consegnai un tema di critica sui P.S. (era alla maturità?!?) su cui gli insegnani ebbero ben poco da dire :)

Non ho letto ancora questo libro, ma ammetto che questo commento mi inspira tanto di prenderlo in lettura...
Quanto siamo strani, a volte.... sorvoliamo i commenti possitivi (scusami Masetto), che invitano alla lettura, e poi ci fa da esca uno completamente negativo... :boh:
E' capitato anche a voi, o sono solo io quella strana...?
 

darida

Well-known member
Mmmmh, continua a bastarmi quel che lo letto sotto costrizione, magari, tempo permettendo :mrgreen: piu' in la' ci riprovero'
 

Masetto

New member
Quanto siamo strani, a volte.... sorvoliamo i commenti positivi e poi ci fa da esca uno completamente negativo... :boh:
Capita anche a me; è normale ;) . Poi i commenti positivi si notano meno perché spesso sono ripetitivi, aggiungono poco (il classico "bello bello, mi è piaciuto" :))
 

Mizar

Alfaheimr
I personaggi sono falsi in quanto si avverte pesantemente che si tratta di stereotipi costruiti con intenti didascalici!
Renzo e Lucia impestano l'intero romanzo e sono personaggi piatti, privi di complessità, e falsi, mostruosamente falsi:
Non mi sembra proprio.
Ad una lettura meditata e ragionata, ci si renderà conto che i personaggi del Nostro sono gran costruzione. Son costruiti taglierino alla mano: cesellati, scolpiti. Difficile trovare un autore di tale raffinatezza...c'è da aspettare i russi o comunque la fine dell'Ottocento.
Tali cesellature sono celate negl interstizi dell'opera: in una parola di Abbondio, nel modo in cui sono disposti gli invitati a tavola da Rodrigo, in una risposta di Lucia alla madre. L'opera è piena di codesti spunti. Purtroppo, se la si affronta con pregiudizi militanti ed alabarde alla mano, si tratta di elementi di difficile rivelazione.

pensiamo solo al poetico e “dotto” addio ai monti messo in bocca ad una popolana del ‘600 … fa quasi ridere.
Manzoni, è lui che parla, perchè presumibilmente incapace o non interessato a far parlare con la sua voce e le sue parole una popolana del 600.
Fatto sta che il ritratto della popolana del 600 dal romanzo non emerge...
Ma lì la fictio è evidente...non so se mi spiego :??
In ogni caso Lucia non è una popolana...ed anche questo è evidente, secondo me.

Mò non mi metto a fare l'analisi degli altri personaggi, non me lo posso permettere perché è passato troppo tempo e non ho il libro sotto mano, ma il ricordo è di un grigiore incontrastato: ognuno ho uno scopo, ha un ruolo preciso nel realizzare l’intento moralistico del romanzo, ma con ben poca umana e contraddittoria complessità.
Addirittura? Vale anche per l'Abbondio dei ricordi, per il Rodrigo degli accenni trattenuti ad arte, per la Lucia delle candele? :mrgreen:

In effetti...molto meglio i personaggi di Camilleri, Smith e Baricco :mrgreen::mrgreen:

In generale su tutto il romanzo grava la cappa oppressiva della componente didascalica, dottrinale.
Più che ispirazione, ci si avverte onnipresente l’ideologia religiosa.
Lo scopo è palese: dare forza ad un messaggio. In questo caso si tratta di quello cattolico ma se fosse un altro non cambierebbe molto.
Ed allora? Il fatto che vi sia del didascalismo, del religioso, del dottrinale (tamquam non esset in quest'ultmo caso) non significa scarsa qualità.
Lei scrive: lo scopo è dare forza ad un messaggio. Ma ci mancherebbe: si tratta di una verità per ogni opera d'arte - e di qualsiasi genere...

Di solito le opere ideologiche le apprezza soprattutto chi è allineato con quall'idea (con buona pace della presunta universalità).
Prima di tutto ideologie ed ideologismi son nati e finiti nel Novecento. Quindi il discorso andrebbe posto fra virgolette ed affrontato in maniera critica e magari ironica !
In secondo luogo, non sono affatto d'accordo con la proposizione. Essa mi incute anche una certa paura ad essere sincero. Mi sa tanto di un'estetica superata da grossomodo quarant'anni :W
Io apprezzo tantissimo opere novecentesche di mano di scrittori di idee totalmente diverse e lontane dalle mie per il semplice fatto che in un'opera d'arte (se è veramente tale) ciò che conta è il sub...stratus. Se il messaggio c'è e si sta parlando di opera artistica, il messaggio stesso sarà universale nella sua umanità.
Il Novecento è finito, insomma :mrgreen: Sveglia ragazzi: siamo nel 2009 :YY

Il cattolicesimo è molto diffuso e il romanzo molto apprezzato: ovviamente chi è in linea con quel credo si sente coinvolto, avvalorato…(certo che anche a me piacciono alcuni libri che ricalcano come la penso, ma in quanto al loro valore letterario cerco di rimanere obiettiva)
A quanto so Manzoni non ha un grosso successo all'estero, in paesi non cattolici :wink:.
Ma quesrto non è vero. Manzoni è conosciuto all'estero e soprattutto letto. Letto come letteratura comanda e non in vivisectio liceale :eek:
Viene studiato in alcune università americane...

Poi ripeto: le opere 'didascaliche' sono innumerevoli ed il didascalismo non è deteriore a priori. Se la qualità c'è, non si discute. In un certo senso si potrebbero utilizzare alcune delle argomentazioni contenute nel post per la Commedia o (sostituendo i termini) con l'Orestea...non so se mi spiego.

Detto questo, posso dire di non essere affatto un estimatore dei Promessi. L'opera non mi interessa che dal punto di vista 'tecnico'.
 

risus

New member
vedo che i due partiti si sono già belli e creati... pro e contro il romanzo manzoniano...
a me piace molto questo libro, l'ho letto altre due volte oltre l'obbligo del liceo... ed ogni volta sono riuscito a focalizzarmi su aspetti diversi che magari non avevo approfondito prima... d'altra parte gli spunti di riflessione sono talmente tanti che molto ho lasciato ancora per strada... andrebbe ridata una ripassata...:mrgreen::mrgreen:
sicuramente il giudizio su quest'opera deve avere più di una sfaccettatura e deve considerare vari aspetti: quello letterario, quello storico, quello "romanzesco", quello religioso... e forse altri ancora... può deludere per certe scelte e forme e approccio alle cose, magari eccelle per altri dettagli...
... mi sa che è proprio un'opera da studiare a scuola...
:mrgreen::mrgreen::mrgreen:
 

Masetto

New member
in quanto al loro valore letterario cerco di rimanere obiettiva
A me pare che, in questo caso, tu non lo sia affatto. Che tu non condivida le idee di Manzoni e che i personaggi ti stiano antipaciti va benissimo, ma non sembri vedere altro che idee in quest’opera, mentre c’è dentro una varietà ed una profondità di stile ineguagliate nella nostra Letteratura.

I personaggi sono falsi in quanto si avverte pesantemente che si tratta di stereotipi costruiti con intenti didascalici!
Almeno, io lo avverto pesantemente :)
Perdonami, ma hai almeno provato a leggere i commenti critici che ho postato più su?

Renzo e Lucia impestano l'intero romanzo e sono personaggi piatti, privi di complessità
Sono piuttosto piatti, sì, specie Renzo. Non a caso lui è protagonista di parecchie delle parti più “avventurose” del romanzo: è un personaggio risolto più nell’azione che nell’approfondimento psicologico.
Lucia poi è abbastanza bacchettona e posso capire che stia antipatica (io, per dire, non sposerei mai una donna così). Tuttavia su di lei si trovano passaggi come questi:

“[Renzo, Lucia e Agnese stanno fuggendo dal paese dopo il tentativo fallito di matrimonio] Lucia si teneva stretta al braccio della madre, e scansava dolcemente e con destrezza l'aiuto che il giovane [Renzo] le offriva nei passi malagevoli di quel viaggio fuor di strada; vergognosa in sè, anche in un tale turbamento, dell'essere già stata tanto sola con lui e tanto famigliarmente, quando s'aspettava d'essere fra pochi momenti sua moglie. Ora, svanito così dolorosamente quel sogno, ella si pentiva di essere trascorsa così oltre, e fra tante cagioni di trepidare, trepidava pur anche per quel pudore che non nasce dalla trista scienza del male, per quel pudore che ignora sè stesso, somigliante alla paura del fanciullo che trema nelle tenebre senza saper di che.

“[Lucia è stata da poco liberata dall’Innominato] Lucia, tornatele alquanto le forze, e acquietandosele sempre più l'animo, andava intanto assettandosi, per un'abitudine, per un istinto di pulizia e di verecondia: rimetteva e fermava le trecce allentate e arruffate, raccomodava il fazzoletto sul seno, e intorno al collo. In far questo, le sue dita s'intralciarono nella corona che ci aveva messa, la notte avanti; lo sguardo vi corse; si fece nella mente un tumulto istantaneo; la memoria del voto, oppressa fino allora e soffogata da tante sensazioni presenti, vi si suscitò d'improvviso, e vi comparve chiara e distinta. Allora tutte le potenze del suo animo, appena riavute, furon sopraffatte di nuovo, a un tratto: e se quell'animo non fosse stato così preparato da una vita d'innocenza, di rassegnazione e di fiducia, la costernazione che provò in quel momento, sarebbe stata disperazione. Dopo un ribollimento di que' pensieri che non vengono con parole, le prime che si formarono nella sua mente furono: «oh povera me, cos'ho fatto!»
Ma non appena l'ebbe pensate, ne risentì come uno spavento. Le tornarono in mente tutte le circostanze del voto, l'angoscia intollerabile, il non avere una speranza di soccorso, il fervore della preghiera, la pienezza del sentimento con cui la promessa era stata fatta. E dopo avere ottenuta la grazia, pentirsi della promessa, le parve un'ingratitudine sacrilega, una perfidia verso Dio e la Madonna; le parve che una tale infedeltà le attirerebbe nuove e più terribili sventure, in mezzo alle quali non potrebbe più sperare neppur nella preghiera; e s'affrettò di rinnegare quel pentimento momentaneo. Si levò con divozione la corona dal collo, e tenendola nella mano tremante, confermò, rinnovò il voto, chiedendo nello stesso tempo, con una supplicazione accorata, che le fosse concessa la forza d'adempirlo, che le fossero risparmiati i pensieri e l'occasioni le quali avrebbero potuto, se non ismovere il suo animo, agitarlo troppo. La lontananza di Renzo, senza nessuna probabilità di ritorno, quella lontananza che fin allora le era stata così amara, le parve ora una disposizione della Provvidenza, che avesse fatti andare insieme i due avvenimenti per un fine solo; e si studiava di trovar nell'uno la ragione d'esser contenta dell'altro. E dietro a quel pensiero, s'andava figurando ugualmente che quella Provvidenza medesima, per compir l'opera, saprebbe trovar la maniera di far che Renzo si rassegnasse anche lui non pensasse più... Ma una tale idea, appena trovata, mise sottosopra la mente ch'era andata a cercarla. La povera Lucia, sentendo che il cuore era lì lì per pentirsi, ritornò alla preghiera, alle conferme, al combattimento, dal quale s'alzò, se ci si passa quest'espressione, come il vincitore stanco e ferito, di sopra il nemico abbattuto: non dico ucciso.


Qui il pudore e l’amore combattono nell’animo della ragazza, e Manzoni segue i suoi sentimenti con una precisone e una delicatezza tali che non si possono non avvertire.
Non è neanche vero che i due promessi “impestano” tutto il romanzo: Renzo quasi scompare dalla narrazione in tutta la sezione centrale, mentre nelle peripezie di Lucia l’attenzione dell’autore si focalizza soprattutto su Gertrude e l’Innominato.

pensiamo solo al poetico e “dotto” addio ai monti messo in bocca ad una popolana del ‘600 … fa quasi ridere.
Manzoni, è lui che parla
Esatto, è proprio Manzoni che parla: e lo dice: subito dopo l’Addio monti si legge infatti “di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia”: qui egli ha voluto riportare i pensieri di lei più nello “spirito” che nella forma, ha abbandonato per un momento il realismo linguistico, prendendosi una “parentesi” poetica.
Ma è un’eccezione, Lucia e gli altri “umili” non parlano mai così.
Questo io l’avevo già scritto in un altro topic, nel quale hai da poco scritto anche tu: pare proprio che i commenti positivi a questo libro tu non voglia vederli… :)
E, in verità, è preoccupante che tu porti l’Addio monti come esempio del linguaggio dei due promessi, perché basta aprire il romanzo ad una qualsiasi pagina dove sia presente uno di loro per vedere come le loro parole siano naturali e nient’affatto dotte. C’è da dubitare che tu abbia davvero letto il libro… :???:

il ritratto della popolana del 600 dal romanzo non emerge
Vero, ma fornire questo ritratto non era nelle intenzioni dell’autore: Lucia non è la popolana “tipica” del Seicento, Lucia è un “modello”, è la popolana ideale del Manzoni. La sua peculiarità sta nel fatto che appartiene a quella minoranza di credenti che prendono la religione sul serio, tanto da darle il primo posto nella loro scala di valori. Questo non significa che sia “falsa”, perché contadine siffatte ce n’erano di sicuro in quel secolo, come ce ne sono oggi e ce ne sono sempre state. Solo, non è in lei che Manzoni ha voluto esprimere lo “spirito” di quei tempi.
Il Seicento, nel romanzo, si vede in altri personaggi (il conte zio, il padre provinciale dei cappuccini, Don Ferrante,… e tante figure minori) e più in generale nell’ambientazione.

Mò non mi metto a fare l'analisi degli altri personaggi, non me lo posso permettere perché è passato troppo tempo e non ho il libro sotto mano
Allora non ti farebbe male rileggerlo, o almeno rileggere le parti dell’Innominato e di Gertrude :)

ognuno ho uno scopo, ha un ruolo preciso nel realizzare l’intento moralistico del romanzo
Verissimo.

ma con ben poca umana e contraddittoria complessità.
Questa, criticamente parlando, è una bestemmia :) .
In Gertrude c’è un’autentica tragedia, quella di una personalità sistematicamente violentata dagli altri (fin dall’infanzia, quando le regalano bambole vestite da suora: un’agghiacciante strumentalizzazione che tocca perfino l’innocenza del gioco) e di una volontà che non riesce mai a vincere le costrizioni, che non riesce mai a farsi azione. E anche qui Manzoni sente profondamente il dramma: la sua resta una condanna, ma vi si insinua la pietà per questa donna che non sa mai volere fino in fondo.
Esattamente il contrario dell’Innominato, un uomo capace di rischiare nelle sue scelte. Eppure tutt’altro che un impulsivo: in lui la conversione è preceduta da un tormentoso esame di tutto il suo passato, dalla rimessa in discussione di tutti i valori su cui ha fin là basato la sua esistenza, da un incontro-scontro a tu per tu con le basi della Fede. Ma tutto questo avviene per gradi, attraverso mille tentennamenti, in una potente ricognizione dei sentimenti più segreti del cuore umano. Qui l’approfondimento psicologico è semplicemente straordinario. Rileggiti quei capitoli, e il commento di Luigi Russo che ho postato!
Don Abbondio è un grande egoista, ma anche lui capace di riflessioni dolorosamente vere, di un momento di autentica carità per gli altri, e anche per lui Manzoni riesce a farci sentire un po’ di umanissima pietà, specie nel dialogo col Cardinale.
Fra Cristoforo è un uomo che mette continuamente in discussione le regole, che non s’accontenta mai dei dogmi cattolici ma che vuole arrivare a “sentire” da sé ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, che per trent’anni ha continuato a chiedersi se non ci sia stato qualcosa di buono anche nell’omicidio che ha commesso (nonostante il comandamento dica chiaramente: Non uccidere).
Se tutto ciò non è umano, complesso, contraddittorio, dimmi tu…

Lo scopo è palese: dare forza ad un messaggio. In questo caso si tratta di quello cattolico
Sì. Ed è fatto straordinariamente bene, al di là che si condivida o meno quel messaggio.

ma il moralismo trapela ovunque, prende pesantemente il sopravvento su qualunque altra cosa. "Ispirazione" non se ne avverte proprio :(
Il fatto che legioni di critici quest’ispirazione l’abbiano sentita, e molti di loro più che in ogni altro romanzo mai scritto in italiano, non ti fa sospettare che forse forse non l’hai letto con sufficiente attenzione? ;)

Di solito le opere ideologiche le apprezza soprattutto chi è allineato con quall'idea (con buona pace della presunta universalità). Il cattolicesimo è molto diffuso e il romanzo molto apprezzato: ovviamente chi è in linea con quel credo si sente coinvolto, avvalorato…
I Promessi Sposi sono apprezzati da pressochè tutta la critica letteraria italiana (dico "pressochè" per sicurezza, ma io non ho ancora trovato un critico che dica che Manzoni scriveva male o non era ispirato o che il romanzo non è un’opera di grande poesia), da sinistra a destra, dagli atei ai gesuiti. Più d’uno l’ha criticato per le idee, ma nessuno per lo stile. Fra gli autori degli interventi che ho riportato su, Luigi Russo e Umberto Eco sono atei, Attilio Momigliano ebreo.

A quanto so Manzoni non ha un grosso successo all'estero, in paesi non cattolici :wink:
Neache in quelli cattolici. Manzoni, come Leopardi e gran parte degli scrittori italiani dal Settecento in poi, si legge poco all’estero, almeno rispetto a quanto in Italia leggiamo gli stranieri. Salvo per i critici che se ne sono occupati e per qualche scrittore (Goethe, D. H. Lawrence,…): e tutti questi hanno elogiato il romanzo.

Continuo a pensare che il merito del Manzoni sia soprattutto linguistico.
Mi pare tra l’altro che sia stato il primo romanzo in italiano, no?
No. Si scrivono romanzi in italiano almeno dal Seicento. Ma Manzoni ha grandi meriti anche linguistici, per aver sostituito il tono aulico della nostra letteratura ottocentesca col parlato realistico e colloquiale di tanti personaggi del romanzo, in particolare gli “umili” che qui per la prima volta sono i veri protagonisti (non solo Renzo e Lucia, ma anche Agnese, Perpetua, Don Abbondio e tutti gli altri).

Mi piacerebbe vedere cosa ne è dei P.S. se tradotto in inglese o in qualche altra lingua lontana dall’italiano
Certamente, se ben tradotto, resta una grandissima opera: perché le meravigliose similitudini, gli scavi psicologici, l’armoniosa struttura, la ricostruzione storica, l’ironia,… si conservano in qualsiasi lingua.



Se posso darti un consiglio, fa così: lascia perdere le idee di Manzoni, considerale come un elemento neutro del paesaggio, magari dicendoti in cuor tuo che in fondo era un pirla :), e leggi solo per il gusto di leggere, riprendendo in mano per primi i capitoli che ti invogliano di più. Io, che non sono credente, ho fatto così: ti assicuro che ne vale la pena :)
 

Masetto

New member
Riporto un estratto più ampio dall’analisi di Luigi Russo sull’Innominato:

<< Iddio viene di dentro come la morte. Non dall’esterno e per l’insegnamento altrui, ma dall’interno e per intuizione insoffocabile nasce Iddio nel cuore degli uomini, come sentimento della morte prima, come sentimento della giustizia poi, e infine come sentimento della sua eterna presenza. Questo primo punto è importante che sia fissato per combattere l’interpretazione di alcuni critici cattolici, che attribuiscono la conversione dell’Innominato agli occhi di Lucia prima, e alle parole catechistiche del cardinale dopo. Per il Manzoni, una conversione viene sempre dal di dentro, gli incontri ed i colloqui con gli altri uomini sono soltanto la parte fenomenica, contingente, di quella conversione. Chiamerò questo concetto manzoniano di Dio il concetto del Dio-passione, da contrapporre al Dio-mito di più superficiali credenti: un Dio che viene precisamente dal di dentro, colui che atterra e suscita, che affanna e che consola, della strofa del Cinque Maggio. È lo stesso concetto di Dio che il cardinale chiarirà nel colloquio con il grande ribaldo:
Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v’attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, lo imploriate?”.
Intanto osserviamo come il Manzoni ha con molta esattezza scandito questi tre successivi momenti del ritrovamento interiore di Dio; innanzi tutto il sentimento della morte, poi il sentimento del giudizio individuale, ed infine il sentimento della presenza di Dio. [...] Manzoni in questi tre momenti, senza formule filosofiche, nella rappresentazione trasparente della poesia, ci ha saputo descrivere tutto il capovolgimento di una visione filosofica della vita. Il Manzoni è stato profondamente accorto nel mettere per ultimo il sentimento della presenza di Dio, il quale è al di sopra di ogni nostra volontà. Quest’ultimo sentimento invero è quello che rovescia la visione dell’Innominato: Io sono però. L’oggetto che ha una sua esistenza immutabile, al di fuori ed al di sopra del soggetto che lo pensa. Gli altri due momenti precedenti sono vagamente religiosi, ma non sono ancora concretamente religiosi nel senso di una religione positivamente intesa. Tutti possiamo avere un senso religioso della morte, tutti avvertire la paura di un giudizio eterno, il giudizio stesso degli uomini, il giudizio della storia che è anch’essa una forma di eternità, la giustizia stessa delle cose che si viene compiendo mentre noi viviamo ed operiamo; non per questo, noi siamo entrati nel mondo di una religione positivamente intesa, di una religione del trascendente. Per sentirci al centro di questa religione del trascendente, dobbiamo giungere all’aperto e pauroso riconoscimento di qualche cosa che è, che esiste al di fuori di noi, al di fuori della nostra volontà. Ed è quello a cui giunge l’Innominato, il quale fin da questo momento dunque si converte non già ad una vaga e generica religiosità, ma ad una precisa puntuale e positiva religione del trascendente. Sicché se io combatto l’interpretazione magica o taumaturgica della conversione dell’Innominato e sostengo invece che tal conversione è razionale in ogni suo momento e cotesta crisi segue lo stesso processo di ogni altra crisi, per dir così, laica, ciò non pertanto non vorrei che si pensasse che io voglia fare dell’Innominato l’eroe di una religione laica, come pure è stato tentato da qualche interprete. La crisi dell’Innominato sbocca ad un riconoscimento manifesto di Dio: Io sono però; al riconoscimento di un oggetto come dicevo che ha una sua esistenza immutabile, al di fuori e al di sopra del soggetto che lo pensa; quindi è una crisi che, per il Manzoni, si conclude in un pieno ed integrale trascendentismo. Ma volevo piuttosto rilevare come il Manzoni non ci fa giungere ex abrupto a questo capovolgimento di visione; tale conversione, dico, appare preparata, graduata, da quelle due precedenti fasi del pensiero della morte, del timore del giudizio eterno. [...] Quel però tradisce verbalmente che si tratta di un dibattito logico, di un dialogo tra un’anima e Dio, che procede per via di mute argomentazioni. In questa specie di tenzone, di muto contrasto filosofico, l’avversativa a me pare artisticamente legittima. Anzi in forza di quell’avversativa, io sono stato tratto a definire che la conversione dell’Innominato in questa pagina è presentata come una crisi di pensiero. [...] E soltanto perché si tratta di una risoluzione di pensiero, tutti gli altri stati d’animo e riflessioni dell’Innominato hanno qualche cosa di consenquenziale, come i corollari tratti da una premessa: con la coscienza della presenza di Dio, dell’essere di Dio, indipendente dalla nostra volontà, ecco che l’Innominato comincia ad avere il sentimento dell’adempirsi della sua legge, anche se quella legge è da lui disconosciuta. La legge di Dio si dispiega anche senza la nostra ratifica od adesione, questo è un altro implicito ragionamento dell’Innominato:
Nel primo bollor delle passioni, la legge che aveva, se non altro, sentita annunziare in nome di Lui, non gli era parsa che odiosa; ora, quando gli tornava d’improvviso alla mente, la mente suo malgrado, la concepiva come una cosa che ha il suo adempimento.
Ma tale riconoscimento in una natura forte ed inselvatichita non può venire senza contrasti. Da ciò i combattimenti della sua volontà contro la lenta invasione di questi pensieri religiosi: una troppo immediata adesione a codesti pensieri religiosi sarebbe stato segno di superficialità, segno di un rugiadoso ottimismo catechistico da parte del Manzoni stesso. [...] È stato detto che l’episodio dell’Innominato è il capolavoro della tetraggine romantica. In verità nulla di tetro nelle pagine dell’episodio, se non ce lo aggiungiamo noi con la nostra fantasia; romantico, se mai, l’Innominato è solo per questo contrasto con se stesso, come romantica è la monaca di Monza, non già per i foschi delitti (da cui in fondo il Manzoni ritrae lo sguardo) a cui è mescolata, ma per la sua capricciosa condotta che non è una capricciosità di viziosa, ma una capricciosità di sentimento, di donna tormentata, capricciosità nascente dal disagio stesso della sua coscienza. Qui si chiude la pagine critica, per dir così, sulla conversione dell’Innominato, che è forse la più profonda e la più intensa dell’episodio, dove ogni paragrafo segna un avanzamento nella parte più occulta della coscienza. Qui il Manzoni è giunto al culmine della sua analisi critica: dopo, il tono muta, all’analisi critica succede la forma rappresentativa diretta, dove continua la chiaroveggenza psicologica ma nella forma diffusa del racconto. >>
 
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