Borla, Enrico; Foppiani, Ennio - Bricolage per un naufragio. Alla deriva nella notte

Ezio_F

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Titolo completo: "Bricolage per un naufragio. Alla deriva nella notte del mondo"
Città: Bergamo
Editore: Moretti&Vitali
Anno: 2009

Argomento: psicoterapia.

E se l’inconscio e la coscienza dovessero dialogare? Se il primitivo e il moderno dovessero parlarsi? Se il buon selvaggio Venerdi e Robinson Crusoe dovessero riprendere il gioco dopo trecento anni, alla luce di tutto ciò che è successo nel frattempo? I due analisti junghiani rimettono in piedi il dramma inserendosi come personaggi nel gioco e inventando un ironico, colto, specialistico dialogo, intitolato "Quattro gentiluomini alla deriva". Ecco uno dei passaggi salienti sulle radici profonde e antropologiche della follia:



Venerdì - “E’ come se due spiriti diversi percorressero i nostri corpi. Mentre il Dio Huracan sferza il tetto della foresta e le calde gocce di pioggia cadono su di me e il sacro lampo squarcia gli alti alberi, io tremo di paura. Le mie membra vibrano e le lacrime scorrono sul mio viso, e anche voi nascosto nella bionda barba piangete e tremate nella bufera. Io pensavo alla furia del mio Dio, voi mi spiegaste che quell’americano ha catturato il fulmine facendo volare in aria un uccello di carta, eppure siamo uguali. Entrambi spaventati anche se con una mappa diversa, invece di fare figli affinché ci ricordassero una volta che i nostri corpi saranno tornati alla terra, ci siamo imbarcati, voi per cercare fortuna nelle mie terre, io per conoscere il vostro paese di nebbia e cercare di domare un Dio con un aquilone. Perché se spaventati, non siamo rimasti? Perché imbarcarsi fra le lacrime?”

Robinson Crusoe – “Mio buon figliuolo, non so rispondervi. Ho letto che un ebreo di nome Isaac Singer ha scritto di credere in tutte le superstizioni perché il razionalismo è la peggiore malattia della specie umana. Egli sosteneva anche che la ragione invertirà l’evoluzione e l’homo sapiens diventerà così intelligente che non saprà più procreare, mangiare o andare di corpo. E dovrà persino imparare a morire. Questa mi pare una buona descrizione dei due spiriti di cui mi state parlando. Da una parte le antiche regole che ci conducono a vivere come animale fra gli animali, dall’altra la nostra intelligenza che ci spinge a conoscere, a esplorare oltre ogni buon senso. Ciò che tu chiami due spiriti io la definisco follia. E le nostre conoscenze messe insieme non bastano a darne conto” (pp. 239-40).

In questo libro non accomodante e provocatorio, la condizione umana è definita “naufragio”, in quanto esposta al doloroso scandalo della fine. All’inizio del terzo millennio, con la crisi di tutti gli “interi”, i sistemi di pensiero organici, e con la morte di Dio, il fare psicoterapia viene illustrato come “bricolage” e “oniromantica”, che utilizza un’enorme mole di materiali e attrezzi disparati per riparare la zattera del paziente e condurlo all’arte del ben naufragare:

”Il fare della psicoterapia dovrebbe porsi come fine della tradizione, perché, quando il modo di “ben condurre” la vita non è più ovvio, è ad essa che ci si rivolge. Quando l’uomo deve fare da sé, deve comprendere che deve farlo con un Sé che non gli è prescritto ma inscritto; è lui che deve svolgerlo, cercarlo, inventarlo, riflettendo, provando, agendo, dialogando al di là di ogni conformismo. Questo agire, questo muoversi da naufrago nel “già dato”, è comunque un dibattersi in quel fondo oscuro della materia, che nulla riesce a dire se non un balbettio confuso a noi quasi inintelligibile” (p. 99)
 
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