Storie, miti, leggende

Una leggenda è un racconto di avvenimenti straordinari riguardanti cose, persone, posti o eventi che si ritengono storicamente veri o verosimili.
Poiché la leggenda è sempre collegata e fa sempre riferimento alla storia, essa è diversa dalla fiaba e dalla favola i cui personaggi o avvenimenti sono costantemente immersi in una dimensione solo fantastica.
La leggenda presuppone necessariamente l'esistenza di fatti storici da cui partire e su cui lavorare anche con la fantasia.
Ogni popolo, ogni cultura ha le sue leggende, piccoli frammenti di storia dai contorni magici.
In questa sezione vorrei raccogliere alcune delle leggende che più ci hanno colpito delle varie culture popolari (compresse le italiane).


Dalle Marche:
S.Vittore delle Chiuse: la Grotta dell'Infinito
Vivevano presso la Badia di San Vittore due bellissimi giovani, perdutamente innamorati. Nonostante li unisse la comunione di un grande amore, le rispettive famiglie, avversate da profonda ostilità, impedirono con ogni mezzo il loro matrimonio. Disperati per questa situazione senza possibile soluzione, abbandonarono le abitazioni e, imprecando contro la propria parentela, fuggirono sul Monte della Valle per rimanere nella selva buia. Cauti e prudenti come due capretti inseguiti, vagarono nel bosco il giorno e la notte successiva, vinti e compiaciuti dalla passione d'amore. Infine, presso un macigno, scoprirono una grotta e sembrava che tutta la valle palpitasse di allegria per la loro felicità. Sarebbero rimasti in questo luogo segreto per lungo tempo, con i loro bambini, fra le ginestre e il gregge, fino a che S. Vittore non avesse riconciliato i genitori. Una sera d'inverno, nell'ora del tramonto, la giovane, recatasi per una non precisata necessità all'interno della Grotta, svenne e riavutasi cercò di liberarsi ma, per uno strano sortilegio, acquistò le sembianze di una capra. In tutte le sporgenze nacquero caprifichi che ella dilaniò con gli zoccoli e con il muso. A voce bassa disse al giovane che una forza diabolica l'aveva ridotta in quello stato e da quel momento non parlò più scomparendo per sempre nel sotterraneo, convertita in fantasma. Il giovane, esterrefatto, ricercò la propria amata per tre giorni e per tre notti fino a che l'invase la più triste amarezza e non potendosi dare pace per l'accaduto si adirò, corse come un toro infuriato, bruciò la selva fino a che si fermò presso l'antro battendo le tempie sulla pietra. Anch'egli fu colpito da sortilegio, cambiò colore e divenne un masso disposto a guardia della grotta. Nell'aria maligna, pesante come una maledizione, sibilò il vento, sogghignarono le forze del male. In quel medesimo luogo, ogni sera, quando il sole discende dietro i monti e la valle si addormenta, una capra esce dalla fenditura e un grido lacera l'aria facendo tremare i pioppi del fiume e le querce della montagna. La Grotta viene per questo chiamata anche la "Grotta della Capra".

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La leggenda di Piero e Sara
Un giorno lontano, un signorotto, feudatario del Castello di Rotorscio, conobbe una bella fanciulla abitante a Rocca Petrosa. Affascinato dalla grazia della giovane, s 'invaghi di lei e decise di rapirla. Questa era innamorata e promessa sposa ad un altro castellano, suo coetaneo, di nome Piero. Un pomeriggio, il feudatario s'introdusse all'inteno della Rocca e riuscì a rapire la ragazza di nome Sara. Gli abitanti del luogo chiusero le porte di accesso alla Rocca e iniziarono una violenta colluttazione con i cavalieri seguaci del conte di Revellone. Durante la rissa, il conte, vistosi alla resa, uccise la bella Sara che teneva tra le braccia. Sopraggiunto Piero piombò addosso all'uccisore, il quale, brandendo una scure, colpì anche lo sfortunato giovane che cadde riverso vicino alla sua giovane amata e, dopo un ultimo abbraccio, le spirò accanto. A ricordo dell'infausta contesa e del triste sopruso, il Castello Petroso, assunse il nome di Pierosara che, a tutt'oggi, conserva.

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Mary70

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Una leggenda della mia regione: la Sardegna

La leggenda del Golfo degli Angeli


Gli Angeli, nei tempi lontani, chiesero a Dio un dono. Dio rispose che avrebbe dato loro in dono una terra dove gli uomini si amavano, si rispettavano, vivevano felici. "So che esiste questa terra; cercatela, trovatela e sarà vostra" aveva detto loro. Gli Angeli obbedirono; scesero dal cielo e si sparsero sulla Terra. Ma ovunque trovarono cattiverie, guerre e odio. Stavano per ritornare, tristi, da Dio, quando il loro sguardo cadde su una grande isola verde circondata da un mare tranquillo. Gli Angeli si avvicinarono rapidamente: non rumore di guerre e di distruzioni, non colonne di fumo si alzavano dalle colline fonte ove brucavano grandi greggi. E gli uomini aravano i campi non chiusi da segni di proprietà. Quei primi abitatori della Sardegna, ignari delle ricchezze della loro terra, discendenti da eroi che avevano fuggito la tirannide e l'ingiustizia, trascorrevano la loro vita in semplicità, contenti della pace e della bellezza dei luoghi. Gli Angeli salirono felici in Cielo. Riferirono al Signore ciò che avevano visto e Dio mantenne la promessa. Gli Angeli, quindi, ridiscesero ancora sull'isola, e rimasero incantati davanti al grande golfo che si apriva, come un immenso fiore turchese, all'estremo limite meridionale della loro terra. Decisero dunque, di stabilirsi in quell'arco di mare così azzurro e bello che ricordava il Paradiso. Presto, però, Lucifero, invidioso di quegli Angeli felici, cercò di seminare, fra di essi, lotte e discordie, e siccome non vi riuscì tentò di scacciare gli Angeli da quel loro secondo Paradiso. Lottarono a lungo le forze del Bene e quelle del Male sulle scatenate acque del golfo. Ed ecco che alla fine, tra il lampeggiare delle folgori del demonio si levò in alto la spada scintillante dell'Arcangelo Gabriele. Fu il segno decisivo della vittoria. Lucifero stesso fu sbalzato dal suo cavallo nero, dalle narici di fuoco. Allora prese la sella e, in un impeto di collera violenta, la lanciò nel Golfo, formando un promontorio che poi venne chiamato "La Sella del Diavolo".

Sotto di esso, trovarono dapprima rifugio le pacifiche navi fenicie, poi quelle di guerra dei Cartaginesi. Poi quelle dei Romani, dei Vandali e dei Bizantini. In seguito quelle dei Pisani, dei Genovesi e degli Spagnoli. Ed infine, quelle degli Inglesi, dei Francesi e degli Americani. Così, oggi, gli Angeli se ne sono andati dal loro golfo incantato e lo guardano dall'alto, discendendovi, talvolta, lievi e silenziosi, all'ora del tramonto, quando il cielo si colora d'oro e di porpora.

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SALLY

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TOSCANA » Leggende » Il Ponte del Diavolo


Il ponte è un'opera d'arte che da sempre ha ispirato artisti per la superba arditezza delle sue arcate e da secoli resiste alle numerose piene. E' una costruzione diabolica, appunto!
A sostegno delle origini infernali del ponte, c'è anche il fatto che, nonostante studi e ricerche, mantiene ancora ben segreta la propria data di origine, al punto che alcuni studiosi lo fanno risalire all'XI° secolo.
Fa riflettere anche la sua solidità. Per tanti secoli ha resistito alle improvvise e violente piene del fiume.

"C'era una volta, in un borgo sulle rive del Serchio, un bravo e stimato capomastro al quale gli abitanti del paese si erano rivolti per fare costruire un ponte che collegasse i due borghi divisi dal fiume.
L'abile capomastro si mise subito all'opera, ma ben presto vide che il lavoro non procedeva con quella sveltezza che lui aveva promesso ai compaesani e, siccome era un uomo ligio al dovere e puntuale agli impegni, cadde nel più profondo sconforto e nella disperazione.
Continuò a lavorare con lena giorno e notte, pur di finire il ponte per il giorno stabilito nel contratto, ma il lavoro lentamente e, al contrario i giorni passavano veloci. Una sera, mentre il capomastro sedeva da solo sulla sponda del Serchio a guardare il lavoro e a pensare alle vergogna e al disonore che avrebbe subito per non aver terminato il ponte in tempo utile, gli apparve il Diavolo sotto l'aspetto di un rispettabile uomo d'affari.
Andò subito incontro al brav'uomo dicendoli che lui sarebbe stato capace di finire il ponte in una sola notte. L'uomo rimase incredulo alle parole del Diavolo, ma continuò ad ascoltarlo e alla fine accetto la proposta. Naturalmente l'avversario avrebbe avuto la sua parte: il capomastro si sarebbe dovuto impegnare a consegnargli l'anima della prima persona che avrebbe attraversato il ponte una volta finito. Il capomastro accettò e il giorno dopo il borgo ebbe il suo ponte snello ed elegante, come si può vedere ancora oggi a Borgo a Mozzano.
La gente stupefatta e incredula andò a complimentarsi con il bravo artigiano il quale raccomandò di non oltrepassare il ponte prima che il sole fosse tramontato. Intanto il capomastro montò sul suo cavallo e si diresse a Lucca, un po' preoccupato a dire il vero, per consultarsi con il Vescovo che a quel tempo era San Frediano. Il santo gli disse di non preoccuparsi e di lasciare che il Diavolo prendesse l'anima del primo che avrebbe attraversato il ponte, ma sarebbe sto dovere suo far sì che per primo passasse un maiale. Così fu fatto, e il Diavolo, inferocito per essere stato sconfitto, si gettò nelle acque del Serchio e da quel giorno non fu più visto da quelle parti."
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Sir

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TOSCANA » Leggende » Il Ponte del Diavolo

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Essendo vicino a casa mia, la conoscevo da tempo... e devo dire che da piccolo mi faceva abbastanza paura questa storia. :mrgreen:

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Non è l'unico ponte, tra l'altro, ad avere un nome del genere ed una storia simile che lo accompagna; ce n'è uno a Dronero (Cuneo), uno nell'isola di Torcello, uno a Lanzo Torinese, uno a Bobbio sul Trebbia, nonchè uno vicino a dove abito adesso, a Cividale in provincia di Udine, cittadina meravigliosa tra l'altro.

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SALLY

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Essendo vicino a casa mia, la conoscevo da tempo... e devo dire che da piccolo mi faceva abbastanza paura questa storia. :mrgreen:

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Non è l'unico ponte, tra l'altro, ad avere un nome del genere ed una storia simile che lo accompagna; ce n'è uno a Dronero (Cuneo), uno nell'isola di Torcello, uno a Lanzo Torinese, uno a Bobbio sul Trebbia, nonchè uno vicino a dove abito adesso, a Cividale in provincia di Udine, cittadina meravigliosa tra l'altro.

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Accidenti...siamo sicuri che non fosse un ingegnere stò diavolo??? :mrgreen:

...bravo che hai impostato la foto,io non sono capace (non ancora,non dispero).

Una sera sono andata a ballare al Buena vida (mi sembra),e sono rimasta incantata,l'ho attraversato e ho fatto delle foto!
 
La prima Stella Alpina (leggenda della Val D'Aosta)

Una volta tanto tempo fa una montagna malata di solitudine piangeva in silenzio. Tutti la guardavano stupiti: gli abeti, i faggi, le querce, le pervinche e i rododendri. Nessuna pianta però poteva farci niente, poiché era legata alla terra dalle radici. Così neppure un fiore sarebbe potuto sbocciare tra le sue rocce. Se ne accorsero anche le stelle, quando una notte le nuvole erano volate via per giocare a rimpiattino tra i rami dei pini più alti. Una di loro ebbe pietà di quel pianto senza speranza e scese guizzando dal cielo. Scivolò tra le rocce e i crepacci della montagna, finché si posò stancamente sull'orlo di un precipizio. Brrr!!! Che freddo faceva! ...Che pazza era stata a lasciare la quiete tranquilla del cielo! Il gelo l'avrebbe certamente uccisa. Ma la montagna corse ai ripari, grata per quella prova di amicizia data col cuore. Avvolse la stella con le sue mani di roccia in una morbida peluria bianca. Quindi la strinse, legandola a sé con radici tenaci. E quando l'alba spuntò, era nata la prima stella alpina...

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APOLLO E DAFNE



Il serto di alloro che viene posto in capo ai poeti e ai vincitori delle gare olimpiche è la pianta sacra ad Apollo. La leggenda narra che la bella ninfa Dafne, amata dal dio, gli sfuggiva non appena questi le si avvicinava. Apollo la chiamava invano con i nomi più dolci, ma Dafne non si fermava ad ascoltarlo. Quando il dio riuscì a raggiungerla, la ragazza trafelata invocò l’aiuto del padre, il fiume Pèneo: “Salvami tu!”

Il piede della ninfa si tramutò allora in radice, affondando nel terreno, l’esile corpo si circondò di una scorza tenera e verde, i capelli si trasformarono in fronde. Dafne fu mutata in alloro e quella pianta divenne sacra in eterno ad Apollo, dio della musica e della poesia, che se ne ornerà la fronte, così come i musici, i poeti e i condottieri…

Il racconto di Ovidio nelle “Metamorfosi”:

“Senza più forze, vinta dalla fatica di quella corsa allo spasimo, si rivolge alle correnti del Peneo e: «Aiutami, padre», dice. «Se voi fiumi avete qualche potere, dissolvi, mutandole, queste mie fattezze per cui troppo piacqui». Ancora prega, che un torpore profondo pervade le sue membra, il petto morbido si fascia di fibre sottili, i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami; i piedi, così veloci un tempo, s'inchiodano in pigre radici, il volto svanisce in una chioma: solo il suo splendore conserva.
Anche così Febo l'ama e, poggiata la mano sul tronco,
sente ancora trepidare il petto sotto quella nuova corteccia e, stringendo fra le braccia i suoi rami come un corpo, ne bacia il legno, ma quello ai suoi baci ancora si sottrae. E allora il dio: «Se non puoi essere la sposa mia, sarai almeno la mia pianta. E di te sempre si orneranno, o alloro, i miei capelli, la mia cetra, la faretra; e il capo dei condottieri latini, quando una voce esultante intonerà il trionfo e il Campidoglio vedrà fluire i cortei. Fedelissimo custode della porta d'Augusto, starai appeso ai suoi battenti per difendere la quercia in mezzo.
E come il mio capo si mantiene giovane con la chioma intonsa, anche tu porterai il vanto perpetuo delle fronde!». Qui Febo tacque; e l'alloro annuì con i suoi rami appena spuntati e agitò la cima, quasi assentisse col capo”.

Gabriele D’Annunzio (il momento della trasformazione di Dafne) “Alcyone”, L’oleandro:

“Nell'umidore del selvaggio suolo
i piedi farsi radiche contorte
ella sente e da lor sorgere un tronco
che le gambe su fino alle cosce
include e della pelle scorza fa
e dov'è il fiore di verginità
un nodo inviolabile compone”.

 

Mary70

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Le Janas

Le Janas (fate, o per alcuni streghe) vivevano in mezzo alle rocce in Sardegna. Esse erano piccole, piccole, ma erano molto belle e dispettose. Avevano le dita sottili e non facevano altro che tessere gli scialli e i corpetti con fili d’oro e d’argento. Erano molto ricche e potevano avere tutto ciò che volevano. Esse, prima che albeggiasse, si mettevano a cucire, e all’imbrunire andavano a spargere le tele sopra le rocce.

Una sera, una di queste Janas andò a spargere gli scialli e i corpetti sulle rocce, e poi ritornò alla sua casa. In quel momento passò un uomo a cavallo, che vide quelle belle tele e, svelto come un lampo, ne rubò una. Ma la jana se ne accorse e lo inseguì, appiccicata alla coda del cavallo, gridando:
- Ridammi lo scialle, brutto ladro!
Allora l’uomo rispose:
- Ma che cosa vuoi, zanzarina? Ti dò un colpo che ti schiaccia!
Ma la jana, per quanto piccola, riuscì a farlo cadere in un burrone, con tutto il cavallo, tanto lo infastidì torcendogli la coda.

In Sardegna si possono trovare Le "domus de Janas" (case delle fate). In realtà sono strutture sepolcrali preistoriche.

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Lucripeta

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Zeus e Callisto

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Narra la leggenda che Zeus, invaghitosi della bellissima Callisto, desiderasse a tutti i costi possederla. Callisto era però la più vicina ad Artemide tra il suo seguito, e mai e poi mai ella avrebbe permesso che questa giacesse insieme al sommo nume. La stessa Callisto era poi, al pari della dea sua, completamente disinteressata all'amore.
Zeus, per riuscire e per sottrarsi alle gelosie della moglie Era, prese le sembianze di Artemide ed avvicinata la bella ignara riuscì infine nel suo intento.
Dopo alcuni mesi Callisto non potè più nascondere il figlio che portava in grembo e fu scacciata da Artemide sdegnata.
Vagando così per i boschi generò infine Arcade.

Intanto Era avendo scoperto il tradimento del marito e non potendo sfogare la sua rabbia su di lui, tramutò la giovane in un'orsa lasciandole però, come inasprimento della pena, la mente umana.

Passati molti anni Arcade, ormai fattosi giovane, andò a caccia e stanò proprio l'orsa sua madre. Aveva già incoccato la freccia e stava per trafiggerla quando Zeus, preso da un tardivo rimorso, trasportò entrambi nel firmamento trasformandoli nella costellazioni dell'Orsa Maggiore e di Boote.

Ma il rancore di Era era forte, così vedendosi sconfitta andò da Oceano a pregarlo affinchè negasse a Callisto, unica fra le costellazioni, il bagno ristoratore nei flutti del mare.

Ed infatti essendo l'Orsa Maggiore una costellazione polare non tramonta mai.
 
La sfinge di Tebe

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In agguato su un' enorme roccia che dominava la strada di Tebe, viveva ai tempi dei tempi la Sfinge. Era un terribile mostro dalle ali di aquila, dal volto e il petto di donna e il corpo simile a quello di un feroce leone. Si appostava notte e giorno sul Citerone in attesa dei viandanti, e appena li avvistava, li fermava e proponeva loro un enigma. Quelli che non sapevano rispondere venivano immediatamente divorati dal mostro.

Innumerevoli erano le vittime della Sfinge, e la città di Tebe e i suoi dintorni erano desolati da tale sciagura, inflitta da Giunone ai Tebani per punirli di aver trascurato i sacrifici in suo onore. Purtroppo nessuno mai era riuscito a sciogliere gli enigmi proposti dal mostro alato e, passare sotto il Citerone, significava andare incontro a morte sicura.

Il re di Tebe Creonte, fratello di Giocasta, sperando di metter fine a questo tragico flagello aveva pubblicato un bando che diceva: "Il re concederà la mano di sua sorella Giocasta e offrirà la corona di Tebe a colui che libererà il paese dall'incubo della Sfinge". Proprio in quel tempo Edipo si trovava presso la città di Tebe e gli venne il desiderio leggendo il bando di tentare l'impresa. "Straniero ardimentoso!" disse con voce rauca il mostro. "Fermati! Devo proporti un enigma: Sai dirmi qual sia l'animale che il mattino cammina su quattro piedi, a mezzodì su due e la sera su tre?" Edipo stette un momento sopra pensiero, poi con un sorriso di trionfo rispose: "Quell'animale è l'uomo. egli infatti da bambino si trascina sulle mani e sui piedi, diventato grande, cammina sui due piedi, infine da vecchio si appoggia sul bastone."

Aveva proprio indovinato! La Sfinge, vedendo per la prima volta risolto il suo enigma, si precipitò rabbiosa dall'alto del roccioso Citerone e si uccise. E il popolo festante gridò per le vie di Tebe: "Uno straniero ci ha liberati dal terribile flagello! Gloria a lui. A lui il trono e la mano della regina Giocasta!" Ed Edipo entrò nella città dalle sette porte come trionfatore, e come il destino volle sposò la propria madre.
 

Brethil

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Sono stata a visitare il Castello di Montebello, in provincia di Rimini, una sera d'estate. Sono appassionata di questo tipo di leggende, quindi non potevo non andare a verificare in prima persona :mrgreen:

Il castello in questione è famoso per una leggenda ad esso legata, quella di un fantasma.
Guendalina nacque nel 1370, figlia del signorotto del castello e bimba che ebbe la sfortuna di nascere diversa in un tempo in cui la diversità poteva costare molto cara. Il nome con cui ancora oggi viene ricordata, Azzurrina, è dovuto al fatto che i suoi capelli venivano tinti di nero per mascherarne il colore e la tinta, una volta scolorita, lasciava riflessi azzurrini sui candidi capelli della bambina.
Era il 21 giugno 1375 quando la bimba, inseguendo la palla con cui stava giocando, scese nella ghiacciaia del castello. Il padre, per paura che potesse essere additata come creatura del demonio visti i colori più che particolari della bimba, la faceva sempre scortare da due guardie. I due, vedendo che Azzurrina si attardava nella ghiacciaia, scesero per vedere se le fosse successo qualcosa...e non la trovarono. Non venne ritrovato il corpo e la ghiacciaia ha un solo ingresso, la bimba è semplicemente svanita nel nulla.

Ogni anno, il 21 di giugno, vengono fatte delle registrazioni da esperti in cui ogni 5 anni circa si ripropongono delle eco dal passato con rumori o voci che sembrerebbero appartenere al 1375 e ad Azzurrina stessa.
 
Eccone una slava: Baba Yaga....:YY

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Baba Yaga e’ la strega malefica dei racconti popolari slavi e, secondo la tradizione, nonna del diavolo. Nelle lingue slave, baba significa “vecchia”, “nonna”. Baba Yaga è rappresentata come una vecchietta brutta e minuta, con un grosso naso deforme, lunghi denti, gambe ossute e capelli arruffati, che vive in una casetta poggiata su zampe di gallina. In alcune storie è un demone che mangia i bambini, o ammassa avidamente metalli preziosi. Vola a cavallo di un mortaio infuocato o di un calderone di ferro, utilizzando un pestello per manovrare e una scopa per cancellare le tracce nell’aria.

Storie e leggende
Baba Jaga a volte è indicata come cattiva e a volte come fonte di consiglio; ci sono storie in cui la si vede aiutare le persone nelle loro ricerche e storie in cui rapisce i bambini per mangiarli. Cercare il suo aiuto è solitamente un'azione pericolosa e sono assolutamente necessarie preparazione e purezza dello spirito.

La leggenda dei tre cavalieri
A questa figura si collega la leggenda dei tre cavalieri: il Cavaliere bianco, su un cavallo bianco con la bardatura bianca, che rappresenta il giorno; il Cavaliere rosso, che rappresenta il sole; il Cavaliere nero, che rappresenta la notte. Baba Jaga parlerà di loro a chi la interroga, ma può uccidere l'ospite che voglia sapere dei suoi servi invisibili.

Vassilissa la bella
Nella storia popolare di Vassilissa la bella, la fanciulla viene mandata a chiedere consiglio a Baba Jaga e viene schiavizzata dalla strega. I servi invisibili (un gatto, un cane, un cancello e un albero), tuttavia, aiutano Vassilissa a fuggire perché è stata gentile con loro. Alla fine della fiaba Baba Jaga è trasformata in un corvo.
In un'altra versione della storia, registrata da Aleksander Afanas'ev (1862), a Vassilissa sono comandate tre missioni impossibili che tuttavia riesce a completare per mezzo di una bambola magica donatale da sua madre.
Similmente, in un'altra fiaba, il principe Ivan è aiutato contro Baba Jaga dagli animali che ha risparmiato.

La letteratura moderna
Baba Yaga viene largamente usato dagli autori di favole moderni russi e, dagli anni novanta del XX secolo- nei "fantasy russi". In particolare Baba Jaga si incontra nei cinque libri di Andrey Beljanin nel suo ciclo "Il servizio segreto dello Zar-Pisello", ecc. L'infanzia e la gioventù di Baba Jaga sono descritte per la prima volta nel racconto di A. Aliverdiev "Fiume" ("Lukomorie").

Folklore polacco
La Baba Jaga del folklore polacco differisce leggermente; una delle differenze è che la casa ha soltanto una zampa di gallina. Inoltre le streghe dispettose che vivono nelle case di pan di zenzero sono comunemente chiamate Baba Jaga. Nella fiaba La piuma di Finist il Falco, l'eroe, viene a contatto con tre Baba Jaga.
Tali figure sono solitamente benevole e danno all'eroe consigli o strumenti magici.

BABA YAGA E IVAN
Ivan cammino’ per ore seguendo i venti e quando scese la mezzanotte era una mezzanotte senza stelle e non si poteva distinguere una roccia da un mostro. Ivan aveva freddo e fame e fuochi gialli brillavano fra i tumuli. Ivan si incammino’ dentro l’accampamento cercando di non sentire le voci che sussurravano dalle fiamme, dalle pietre e da quegli uomini scuri che erano gli Uomini della Luna e che non e’ dato vedere ad ora di pranzo. Quando Ivan scorse la Casa si senti’ meglio, perche’ la Casa si reggeva su due possenti zampe di gallina e non rispondeva a nessun nome che non fosse il suo. Davanti alla soglia la strega stava piangendo e si stava spulciando i capelli sudici con quelle cose che aveva in fondo a quei moncherini che aveva per braccia.
“Che stai facendo vecchia?”
“Cerco il mio anello,” pianse la strega, che era Baba Yaga, “ho perso un anello nei miei capelli: lo cerco lo cerco LO CERCO ma non lo trovo!” Allora Ivan allungo’ le mani in quel cespuglio vivente che era la sua capigliatura e quando le estrasse le dita avevano il colore della polvere e del burro ma stringevano un anello di rubino. Baba Yaga se lo infilo’ e inizio’ a tossire e a sputare sangue.
“Un anello,” bercio’, “ne-a-go-ha.” Era rossa come il fuoco. Ivan mise una mano nella bocca della strega tanto che lei avrebbe dovuto staccargliela a morsi. E lo fece, quasi, ma Ivan fu rapido e estrasse la mano e le sue dita eran piene di saliva e stringevano un anello d’argento. Baba Yaga se l’infilo’. Subito la strega strabuzzo’ gli occhi e indico’ il fuoco.
Quale credi sia il misterioso regalo della Strega?
Quando Ivan apro’ gli occhi si ritrovo’ solo col suo dono. Avrebbe tanto voluto farne a meno. Il mastino pesava almeno cinque tonnellate e schiumava dalla bocca. Ivan aspetto’, paziente, d’esser sbranato. Aspetto’. Non successe. Un po’ rincuorato Ivan rivaluto’ la situazione da punti di vista pio’ interessanti e, fissando il mostro con aria severa gli ordino’, flebile: “Trova Koschei, il Gigante.” A queste parole il cane lo afferro’ brutalmente per la schiena e si lancio’ in una folle corsa lungo le Fredde Terre Senza Nome.
Sotto le sue zampe l’erba si incendiava e contro il suo collo le montagne si sbriciolavano e sul suo pelo le mura crollavano e le donne, in tre paesi, persero il latte. Sette giorni e sette notti piu’ tardi il mastino si fermo’ nel Bosco degli Interni e nel cuore del bosco Ivan vide una scrofa bianca, enorme. Il mastino la caccio’ e l’uccise e dalla sua pancia pallida usci’ una lince. Il mastino la caccio’ e l’uccise e dalla sua pancia pallida usci’ un coniglio e Ivan raccolse il coniglio morto dalle fauci del mostro. Poi col coltello gli apri’ con cura lo stomaco e dentro vi trovo’ un uovo cosi nero come lo e’ solo il buco del culo del Diavolo. Rincuorato Ivan ando’ al castello di Koshei l’Immortale, che era li vicino, e ordino’ al gigante di liberare subito la principessa. Koshei lo guardo’ ben bene e batte’ forte le mani dal divertimento e rise tanto da squassare il cielo. Quando infine si placo’ disse queste parole:
“Io sono Koshei e sono Immortale percho’ il mio cuore e’ nascosto.”
Strinse agilmente un possente randello di quercia. “Uomo,” disse, “percho’ non dovrei ridurti a pezzetti con il mio randello e poi ridurre quei pezzetti in pezzetti ancora piu’ piccoli?”
Ivan sorrise al gigante e gli ruppe in testa l’uovo dentro cui un tempo egli aveva nascosto il suo cuore. Koshei mori’ all’istante, cadendo come una vecchia torre. Ivan riporto’ la principessa in patria e la sposo’. Ebbero ventitre’ figli.

 
LOTO: Una Pianta viva in onore della Dea

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Un tempo, quando l’Egitto era ancora un popolo barbaro dedito al cannibalismo, la dea Hathor mise al mondo cinque figli, tra cui Osiride ed Iside, che amandosi teneramente si sposarono.

La giovane coppia si distingueva da tutti per l’ingegnosità: Osiride scoperse la coltivazione del grano e della vite, che andava sospesa sulle canne per far maturare buoni grappoli d’uva, adatti a produrre vino; Iside la lavorazione del lino, la parola scritta e tutte le favelle del mondo umano ed animale. Insieme insegnarono queste arti agli uomini, che pur venerando tutti gli dei, presero a servire i due con maggior entusiasmo, acclamando Osiride come re. Come se questo non bastasse il giovane cominciò a girare il mondo, insegnando a tutti gli altri popoli la coltivazione della terra e dove il clima non permetteva la coltivazione della vite, insegnò a ricavare la birra dall’orzo, ottenendo anche all’estero riconoscimenti e tributi.

Era veramente troppo per il fratello Seth, che, pazzo di gelosia, attirò Osiride con uno stratagemma in una cassa e ve lo fece rinchiudere. Iside, avvertita di quanto era accaduto, si mise disperatamente alla ricerca dello sposo, che ritrovò dopo avventure rocambolesche e librandosi sul suo cadavere, con le sembianze di un falco, riuscì a concepire un figlio, il piccolo Horus.

Condusse dunque una vita privata col bimbo, che cresceva da sola, e con la bara dell’adorato sposo, cambiando continuamente dimora per sfuggire alla vendetta di Seth, infatti anche la loro vita quieta e mesta lo preoccupava, poiché temeva le giuste ire dell’orfano, quando fosse cresciuto. Tentò, senza riuscirvi, d’ucciderlo e finalmente s’impadronì del cadavere del fratello, che tagliò in quattordici pezzi, gettandoli per tutto il paese.

Contrariamente al previsto quest’ultimo atto selvaggio segnò la fine del suo potere: non solo Horus, ormai adulto, lo uccise per vendicare il padre, ma Iside, senza disperare, raccolse pazientemente tutti i frammenti e prese a piangere il marito con tali accenti di sincera disperazione, che il dio Ra si commosse e scese dal cielo (anzi dalla barca che usava per percorrere i cieli) e resuscitò il morto, o almeno gli concesse una vita ultraterrena. Horus, che nel frattempo era stato acclamato re, voleva che la madre regnasse con lui, ma questa preferì invece seguire il proprio sposo nell’aldilà, dove vissero felici e contenti.

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Plutarco è stato il primo a raccontarci questa favola, che ammanta di poesia una solida realtà storica: il paesaggio del deserto è infatti frutto di un'opera di progettazione ed edificazione, perché fin dal Neolitico l’uomo imparò ad imitare la natura scavando condotti d’acqua sotterranei.
 
LA FONDAZIONE DI MILANO

“…Mentre a Roma regnava Tarquinio Prisco, il supremo potere dei Celti era nelle mani dei Biturgi, questi misero a capo di tutti i Celti un re. Tale fu Ambigato, uomo assai potente per valore e per ricchezza, sia propria sia pubblica, perché sotto il suo governo la Gallia fu così ricca di prodotti e di uomini da sembrare che la numerosa popolazione si potesse a stento dominare. Costui, già in età avanzata, desiderando liberare il suo regno dal peso di tanta moltitudine, lasciò intendere che era disposto a mandare i nipoti Belloveso e Segoveso, figli di sua sorella, giovani animosi, in quelle sedi che gli dei avessero indicato con gli àuguri. A Segoveso fu quindi destinata dalla sorte la Selva Ercinia, a Belloveso gli dei indicarono una via ben più allettante, quella verso l’Italia. Quest’ultimo portò con sé il sovrappiù di quei popoli, Biturgi, Edui, Ambani, Carnuti, Aulerci. Partito con grandi forze di fanteria e cavalleria, giunse nel territorio dei Tricastini. Di là si ergeva l’ostacolo delle Alpi; e non mi meraviglio certo che esse siano apparse insuperabili, perché nessuno le aveva ancora valicate [ … ] Ivi, mentre i Galli si trovavano come accerchiati dall’altezza dei monti e si guardavano attorno chiedendosi per quale via mai potessero, attraverso quei gioghi che toccavano il cielo, passare in un altro mondo, furono trattenuti anche da uno scrupolo religioso, perché fu riferito loro che degli stranieri in cerca di terre erano attaccati dal popolo dei Salvi. Quegli stranieri erano i Marsigliesi, venuti dal mare da Focea. I Galli, ritenendo tale circostanza un presagio del loro destino, li aiutarono a fortificare, nonostante la resistenza dei Salvi, il primo luogo che avevano occupato al loro sbarco. Essi poi, attraverso i moti Taurini e la valle del Dora, varcarono le Alpi; sconfitti in battaglia i Tusci non lungi dal Ticino, avendo sentito dire che quello in cui si erano fermati si chiamava territorio degli Insubri, lo stesso nome di un pagus degli Edui, accogliendo l’augurio del luogo, vi fondarono una città che chiamarono Mediolanum…”

Tito Livio “Historiae” (libro V, 34)

 

fabiog

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Storia di un barberie finito a pezzi

Via Gian Giacomo Mora è una piccola viuzza che si trova lungo corso di Porta Ticinese a Milano.
Manzoni nel XXXIV capitolo de " I Promessi Sposi " parlando del Mora dice : " ... nome che per un pezzo conservò una celebrità municipale d'infamia e ne meriterebbe una ben più diffusa e perenne di pietà "
I fatti che coinvolsero il Mora ebbero luogo fra luglio e agosto del 1630 quando la città già da un secolo giaceva sotto la dominazione spagnola. Era giunta la peste a mietere vittime tra poveri e ricchi, tra governatori e governati. Il popolo domandò una processione propiziatoria che, concessa dal cardinale Federico Borromeo, portò ancora più vittime al contagio.
Il popolo, pur sapendo cosa non fare per contrarre la peste, credeva solo nel potere della preghiera e ignorava o meglio non rispettava nessuna igiene profillattica e immaginarono che singoli individui ungessero di proposito con pozioni pestifere mura, finestre, e porte di casa. " Dagli all'untore " fu il grido ripetuto di strada in strada.
Gian Giacomo Mora diventò il più illustre di questi untori. Era un barbiere di via dell Vetra, venditore di unguenti e pozioni e capitò tra le grinfie della " giustizia " per accusa di un certo Guglielmo Piazza a sua volta sottoposto a tortura come untore.
I giudici dichiararono cosi il Mora fabbricante e commerciante di pomate pestifere e il Piazza suo sicario : entrambi da condurrea definitivi supplizi e morte al cospetto de popolo.
Cosi il 2 agosto furono torturati co canapo e ferro rovente, mozzati della mano destra, le ossa sfracellate, i corpi legati alla ruota e scannati dopo sei ore infine bruciati e cadaveri e le ceneri gettate nelle corrente. In più l'intera famiglia del barbiere fù bandita da Milano, la sua abitazione rasa al suolo e sul luogo eretta una Colonna Infame e una lapide dove furono scritte la sentenza e l'infamia dei giustiziati. Nel 1778 la colonna fù distrutta
 
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