“[…] c’è un grigiore provinciale di cittadine dell’Europa centrale agli inizi del secolo che emerge chiaramente dalle tenebre del tempo: le grigie case ad un piano, dai cortili che il sole, nel suo lento avanzare, divide con una chiara linea di demarcazione in tanti quadrati di luce micidiale e di umida ed ammuffita ombra simile all’oscurità; i filari d’acacie che all’inizio della primavera trasudano odore di malattie infantili simile ad un denso sciroppo o a caramelle contro la tosse; il freddo splendore barocco della farmacia, dove luccica la Gotica dei bianchi recipienti di porcellana. Un tetro “gimnazium”, con il cortile pavimentato (verdi panchine scolorite, altalene rotte simili a forche e i gabinetti in legno imbiancati); un municipio pitturato di giallo alla Maria Teresa, il colore delle foglie appassite e delle rose autunnali delle ballate che al tramonto vengono suonate da una banda tzigana dei gitani nel giardino del Grand Hotel.
Karl Taube, figlio del farmacista, sognava, come tanti altri bambini di provincia, quel felice giorno quando, attraverso le spesse lenti dei suoi occhiali, avrebbe guardato per l’ultima volta la sua città natale dalla prospettiva a volo d’uccello della partenza, nello stesso modo con cui si guardano, attraverso la lente, rinsecchite ed assurde gialle farfalle dell’album dei giorni del liceo: con tristezza e disgusto.
Nell’autunno 1920, alla stazione est di Budapest il giovane Karl Taube salì, in prima classe, sul treno espresso Budapest-Vienna e appena questi si mosse egli salutò, con un gesto della mano, per l’ultima volta suo padre (che spariva in lontananza come un’oscura macchia con un fazzoletto di seta in mano), e poi, dopo aver trasportato di corsa la valigia di pelle in terza classe, si sedette in mezzo ai braccianti ”[...]
(I leoni meccanici , Feltrinelli, Milano 1990, pp. 72-73)