Il giorno della memoria

lillo

Remember
Se questo è un uomo

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.


Solo per ricordare che oggi dovremmo dedicare un attimo del nostro tempo a meditare sul dolore che una parte del genere umano ha prodotto su altri suoi simili. Noi, a differenza delle altre specie animali, siamo in grado di uccidere i nostri affini per un'ideologia, per una supposta, inesistente superiorità di razza.
La memoria non serve solo a ricordare, ma anche ad evitare che tali crimini possano di nuovo essere compiuti.
 

asiul

New member
Per non dimenticare

Oggi c'è un bellissimo film su La7 Train de vie vedetelo!

 

Dory

Reef Member
Il mio ricordo va a tutte le popolazioni della storia che sono state perseguitate, decimate, o ridotte in schiavitù.
 

mame

The Fool on the Hill
Ho tradotto un libro sul Terzo Reich, e credetemi, è stata una delle esperienze professionali più devastanti. C'erano momenti in cui non riuscivo neanche a continuare a leggere.
 

isola74

Lonely member
Auschwitz
Francesco Guccini


Son morto con altri cento, son morto ch' ero bambino,
passato per il camino e adesso sono nel vento e adesso sono nel vento....

Ad Auschwitz c'era la neve, il fumo saliva lento
nel freddo giorno d' inverno e adesso sono nel vento, adesso sono nel vento...

Ad Auschwitz tante persone, ma un solo grande silenzio:
è strano non riesco ancora a sorridere qui nel vento, a sorridere qui nel vento...

Io chiedo come può un uomo uccidere un suo fratello
eppure siamo a milioni in polvere qui nel vento, in polvere qui nel vento...

Ancora tuona il cannone, ancora non è contento
di sangue la belva umana e ancora ci porta il vento e ancora ci porta il vento...

Io chiedo quando sarà che l' uomo potrà imparare
a vivere senza ammazzare e il vento si poserà e il vento si poserà...
 

elisa

Motherator
Membro dello Staff
Una carezza per la memoria

I 20 bambini di Bullenhuser Damm.

Il 20 aprile 1945 nella scuola amburghese di Bullenhuser Damm 20 bambini ebrei provenienti da tutta Europa vennero uccisi per impiccagione, in quanto potenziali scomodi testimoni. Tra questi anche il piccolo italiano Sergio de Simone. Furono giovani creature spezzate, dall’arresto alla detenzione nel campo di Auschwitz-Birkenau, alla separazione dai genitori, agli assurdi esperimenti pseudo-scientifici cui furono soggette da parte di Mengele ed altri medici, fino allo straziante epilogo.
 

Meri

Viôt di viodi
Ogni anno ricordo insieme ai bambini delle classi quinte questa giornata, leggendo alcune pagine di Levi e di Anna Frank. Guardiamo anche il film "La vita è bella" l'unico, secondo me proponibile a bambini di dieci anni, ma soprattutto l'unico che io riesca a guardare su tale argomento. Da parte dei bambini c'è un grande coinvolgimento e partecipazione e mi auguro che diventati adulti se ne ricordino.
 

alessandra

Lunatic Mod
Membro dello Staff
È piccolo il giardino
profumato di rose,
è stretto il sentiero
dove corre il bambino:
un bambino grazioso
come il bocciolo che si apre:
quando il bocciolo si aprirà
il bambino non ci sarà.

Franta Brass, nato a Brno il 14.9.1930
morto ad Auschwitz il 28.10.1944


Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.

Steinlauf mi vede e mi saluta, e senza ambagi mi domanda severamente perché non mi lavo. Perché dovrei lavarmi? starei forse meglio di quanto sto? [...] Più ci penso, e più mi pare che lavarsi la faccia nelle nostre condizioni sia una faccenda insulsa, addirittura frivola: un’abitudine meccanica, o peggio, una lugubre ripetizione di un rito estinto. Morremo tutti o stiamo per morire: se mi avanzano dieci minuti fra la sveglia e il lavoro, voglio dedicarli ad altro, chiudermi in me stesso, a tirare le somme, o magari a guardare il cielo e a pensare che lo vedo forse per l’ultima volta; [...] appunto perché il Lager è una gran macchina per ridurci a bestie, noi bestie non dobbiamo diventare; che anche in questo luogo si può sopravvivere, e perciò si deve voler sopravvivere, per raccontare, per portare testimonianza; e che per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà. Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è l’ultima: la facoltà di negare il nostro consenso. Dobbiamo quindi, certamente, lavarci la faccia senza sapone, nell’acqua sporca, e asciugarci nella giacca. Dobbiamo dare il nero alle scarpe, non perché così prescrive il regolamento, ma per dignità e proprietà.

“24 gennaio. Libertà. La breccia nel filo spinato ce ne dava l’immagine concreta. A porvi mente con attenzione voleva dire non più tedeschi, non più selezioni, non lavoro, non botte, non appelli, e forse, più tardi, il ritorno. Ma ci voleva sforzo per convincersene e nessuno aveva tempo di goderne.”

Primo Levi - Se questo è un uomo
 

Zefiro

da sudovest
Grazie per l’apertura di qs thread lillo.

Voglio contribuire con una esperienza personale, una delle più sconvolgenti, in assoluto di tutta la mia vita. Risale a non molti anni fa. La visita all’attuale Oswiecim, in Polonia, meglio nota come Auschwitz.

Non è un posto tremendo visto dall’esterno, no. Doppio filo spinato a parte, la cui vista non impressiona molto di più di quella di un normale sito militare sulla Prenestina. Entrando ci si trova in realtà in una specie di comprensorio di edifici e villette in mattoncino grigio e rosso scuro. C’è del verde, leggeri declivi ed amene collinette. Quasi ti chiedi, d’estate, quando fa caldo e si indossano magliette con le maniche corte –puoi vedere le braccia nude delle persone- cosa ci stiano a fare lì quelle persone di una certa età dall’aria triste, qualcuna piange, con il numero tatuato sul braccio. E’ facile individuarle tra la folla dei visitatori: quelli che sono sopravvissuti che tornano nei luoghi dell’orrore, magari con i figli, qualcuno con i nipotini. E’ sempre complicato guardare un vecchio che piange.

Poi la visita guidata. Spiegano com’è che era organizzato il campo. Le procedure di smistamento dei prigionieri in arrivo, lo stoccaggio dei “materiali”, organici e non, che venivano ricavati. Ci sono stanze con montagne di occhiali –ogni paio di occhiali una persona come noi ci pensate? Erano tantissimi…- altre con enormi ammassi di scarpe, e ancora, di vestiti, di capelli… Ti avvicini alle amene collinette verdi, ci sono delle porte. L’ingresso delle camere a gas. E poi i forni.

Ti spiegano la massiccia attività di ricerca e sviluppo (investimenti da capogiro) con studi teorici ed attività sperimentali cui si applicarono i migliori chimici del Reich e che portò alla scelta infine del Zyclon B come la soluzione più efficiente e della sua successiva industrializzazione per la produzione di volume.

Ognuno guarda le cose attraverso la lente deformante di quello che lui è. Io sono un tecnico. Passo le mie giornate ad affrontare problemi tecnici. Mi guadagno da vivere inventando o applicando approcci, procedure e technicalities, formalizzando le implicazioni logistico-gestionali che un problema tecnico complesso comporta… Insomma, è quello spicchio di mondo, ognuno di noi ha il suo, che conosco per esperienza diretta.

Se chiudo gli occhi quasi le vedo le riunioni, magari fino a tarda notte, un sacco di fumo… Fisici, ingegneri, chimici, esperti di logistica, medici, biologi, rappresentanti delle forze armate. I grafici di trade-off, costi, tempi, benefici, drawbacks. Le bar chart per gli schedule, i break-even, i flussi ingresso uscita. Le vedo così bene da pensare, (certi pensieri a volte ti arrivano all’improvviso silenziosi ed infidi, alle spalle come un amico che ti tradisce, li scacci via subito per il terrore di scoprire qualcosa di indicibile…) che se mi fossi trovato lì avrei potuto tranquillamente dire la mia. Se fossi nato in Germania prima, non tantissimo tempo fa, quelli sarebbero stati i miei colleghi. Di più. Avrei potuto essere uno di loro.

In fondo la mission era molto chiara, il problema “tecnico” ben delineato. Eliminare uomini massimizzandone il numero, massimizzando il ricavo, minimizzando il tempo. A questo si sono applicate alcune delle più brillanti menti che allora erano in circolazione.

Mi rendo conto che è forse una prospettiva ben strana, ma quel che ha completamente sconvolto me visitando quel luogo è stato questo: la mirabile industrializzazione del processo. Perché credete, ingegneristicamente parlando lo è: una efficienza prossima al 100%.

Si… siamo stati capaci di questo.

Mi piace girare per l’Europa senza dover mostrare il passaporto, con gli euro in tasca, senza dover passare per l’ufficio di cambio. Il rate non è il top rispetto alla lira, ma mi piace lo stesso.

Due guerre, i campi di concentramento, milioni di morti… Beh, in fondo -vuoto per pieno, con ancora moltissimo da fare- ci hanno consegnato una bella Europa i nostri padri, la generazione che è venuta prima.

Come se alla nostra capacità di bene sia necessario passare per l’orrore.

... ancora un pensiero infido, di quelli che scacci via subito per paura di dove puoi arrivare.... Basta un attimo di distrazione della memoria. Da ora in poi siamo a rischio: la nostra generazione, qui in occidente almeno, non ha vissuto alcun orrore.
 
Ultima modifica:

mame

The Fool on the Hill
Grazie per l’apertura di qs thread lillo.

Voglio contribuire con una esperienza personale, una delle più sconvolgenti, in assoluto di tutta la mia vita. Risale a non molti anni fa. La visita all’attuale Oswiecim, in Polonia, meglio nota come Auschwitz.

Non è un posto tremendo visto dall’esterno, no. Doppio filo spinato a parte, la cui vista non impressiona molto di più di quella di un normale sito militare sulla Prenestina. Entrando ci si trova in realtà in una specie di comprensorio di edifici e villette in mattoncino grigio e rosso scuro. C’è del verde, leggeri declivi ed amene collinette. Quasi ti chiedi, d’estate, quando fa caldo e si indossano magliette con le maniche corte –puoi vedere le braccia nude delle persone- cosa ci stiano a fare lì quelle persone di una certa età dall’aria triste, qualcuna piange, con il numero tatuato sul braccio. E’ facile individuarle tra la folla dei visitatori: quelli che sono sopravvissuti che tornano nei luoghi dell’orrore, magari con i figli, qualcuno con i nipotini. E’ sempre complicato guardare un vecchio che piange.

Poi la visita guidata. Spiegano com’è che era organizzato il campo. Le procedure di smistamento dei prigionieri in arrivo, lo stoccaggio dei “materiali”, organici e non, che venivano ricavati. Ci sono stanze con montagne di occhiali –ogni paio di occhiali una persona come noi ci pensate? Erano tantissimi…- altre con enormi ammassi di scarpe, e ancora, di vestiti, di capelli… Ti avvicini alle amene collinette verdi, ci sono delle porte. L’ingresso delle camere a gas. E poi i forni.

Ti spiegano la massiccia attività di ricerca e sviluppo (investimenti da capogiro) con studi teorici ed attività sperimentali cui si applicarono i migliori chimici del Reich e che portò alla scelta infine del Zyclon B come la soluzione più efficiente e della sua successiva industrializzazione per la produzione di volume.

Ognuno guarda le cose attraverso la lente deformante di quello che lui è. Io sono un tecnico. Passo le mie giornate ad affrontare problemi tecnici. Mi guadagno da vivere inventando o applicando approcci, procedure e technicalities, formalizzando le implicazioni logistico-gestionali che un problema tecnico complesso comporta… Insomma, è quello spicchio di mondo, ognuno di noi ha il suo, che conosco per esperienza diretta.

Se chiudo gli occhi quasi le vedo le riunioni, magari fino a tarda notte, un sacco di fumo… Fisici, ingegneri, chimici, esperti di logistica, medici, biologi, rappresentanti delle forze armate. I grafici di trade-off, costi, tempi, benefici, drawbacks. Le bar chart per gli schedule, i break-even, i flussi ingresso uscita. Le vedo così bene da pensare, (certi pensieri a volte ti arrivano all’improvviso silenziosi ed infidi, alle spalle come un amico che ti tradisce, li scacci via subito per il terrore di scoprire qualcosa di indicibile…) che se mi fossi trovato lì avrei potuto tranquillamente dire la mia. Se fossi nato in Germania prima, non tantissimo tempo fa, quelli sarebbero stati i miei colleghi. Di più. Avrei potuto essere uno di loro.

In fondo la mission era molto chiara, il problema “tecnico” ben delineato. Eliminare uomini massimizzandone il numero, massimizzando il ricavo, minimizzando il tempo. A questo si sono applicate alcune delle più brillanti menti che allora erano in circolazione.

Mi rendo conto che è forse una prospettiva ben strana, ma quel che ha completamente sconvolto me visitando quel luogo è stato questo: la mirabile industrializzazione del processo. Perché credete, ingegneristicamente parlando lo è: una efficienza prossima al 100%.

Si… siamo stati capaci di questo.

Mi piace girare per l’Europa senza dover mostrare il passaporto, con gli euro in tasca, senza dover passare per l’ufficio di cambio. Il rate non è il top rispetto alla lira, ma mi piace lo stesso.

Due guerre, i campi di concentramento, milioni di morti… Beh, in fondo -vuoto per pieno, con ancora moltissimo da fare- ci hanno consegnato una bella Europa i nostri padri, la generazione che è venuta prima.

Come se alla nostra capacità di bene sia necessario passare per l’orrore.

... ancora un pensiero infido, di quelli che scacci via subito per paura di dove puoi arrivare.... Basta un attimo di distrazione della memoria. Da ora in poi siamo a rischio.

La nostra generazione, qui in occidente almeno, non ha vissuto alcun orrore.

Beato te. Io vorrei tanto andarci.
 

elisa

Motherator
Membro dello Staff
Voglio anche ricordare le 22.765 persone considerate "Giusti tra le nazioni" che hanno contribuito direttamente alla salvezze degli ebrei durante la shoah, cosa deve avere l'uomo per stare da quella parte e non dalla parte degli aguzzini?
Tra di loro italiani come Giorgio Perlasca, Angelo Rotta, Carlo Angela, sono circa 500 gli italiani riconosciuti come "Giusti", ma ce ne devono essere di più perchè certe tragedie non si ripetano. la Memoria serve proprio a questo, ad aumentare sempre di più il numero dei Giusti, facendo in modo di essere tra di loro.
 

kikko

free member
Mi indigna il fatto che ci siano persone che ancora oggi negano che l'olocausto sia mai avvenuto


Per non dimenticare......

 

nici

New member
Non mi vengono delle parole adatte per commentare l'olocausto. E' una cosa troppo crudele, troppo incomprensibile che non ce la si può immaginare nemmeno con tutta la fantasia unita a tutta la spietatezza di questo mondo. Eppure è successa.
Volevo semplicemente unirmi a voi in questo thread.
 

Minerva6

Monkey *MOD*
Membro dello Staff
Ho messo Auschwitz cantata dai Modena City Ramblers e Guccini come canzone del giorno.
In memoria di tutte le persone annientate dalla follia di una parte della razza umana,quella davvero sbagliata.
Mi sento troppo coinvolta su questo argomento x scrivere qualcosa,lascio alle parole della canzone il compito di sostituirmi.
 

asiul

New member
C'è un paio di scarpette rosse

C'e' un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede ancora la marca di fabbrica
"Schulze Monaco".
C'è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio di scarpette infantili
a Buckenwald
erano di un bambino di tre anni e mezzo..
chi sa di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni
ma il suo pianto lo possiamo immaginare
si sa come piangono i bambini
anche i suoi piedini li possiamo immaginare
scarpa numero ventiquattro
per l' eternità
perché i piedini dei bambini morti non crescono.
C'è un paio di scarpette rosse
a Buckenwald
quasi nuove
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole.

Joyce Luss
 

Apart

New member
Le testimonianze dei sopravvissuti non possono non persuadere sulla realtà dell'inferno, come la vita dei santi ci assicura sulla realtà del cielo.

(G. Marcel)

Mi unisco a voi, al ricordo comune, condiviso. A questa giornata, dedicata alla memoria, ai sopravvissuti e a quelli che non ce l'hanno fatta. M. Proust scrisse del ricordo di un'immenso edificio sopra la rovina di tutto il resto.
 
Ultima modifica:

Mizar

Alfaheimr

Ed ecco anche ciò che crea un ebreo, un represso, un preterito, un mezzo slavo. Uno di quelli che avrebbero dovuto essere in Lager per una pletora di ragioni. Ecco Gustav a creare o profetizzare l'inferno con trent'anni d'anticipo.




Il piede, dove maggiore era la strage, scivolava nel sangue: dappertutto la lieta e feroce fatica del pogrom riempiva le strade e le case di spari, di pianti, di urli terribili e di risa crudeli.
Quando giunsi finalmente al Consolato d'Italia, nella verde strada che passa dietro il muro dell'antico cimitero, il console Sartori sedeva su una sedia sulla soglia, fumando una sigaretta. Fumava placidamente, con la sua flemma napoletana. Ma io conosco i napoletani, e sapevo che soffriva. Dalle stanze interne giungeva un singhiozzare sommesso.
"Ci voleva proprio questa scocciatura" disse Sartori, "ne ho salvati una decina, di quei poveracci, alcuni son feriti. Mi volete aiutare, Malaparte ? Io non so fare l'infermiere".
...
Sartori mi guardò con uno sguardo di cane "Avevo un pò di provviste ma i gendarmi che hano invaso il Consolato mi hanno rubato tutto. Pazienza"
" 'O vero ?" gli domadai in napoletano
" 'O vero" rispose Sartori sospirando
Mi faceva piacere star vicino a Sartori in quei momenti, mi sentivo sicuro accanto a quel placido napoletano che dentro di sé tremava di paura, di orrore, di pietà, e non batteva ciglio.
...
Il capostazione era a tavola. Sulle prime non voleva interrompere il suo desinare, poi, saputo che Sartori era il Console d'Italia e che io ero un dòmnule capitan italiano, si alzò da tavola, e ci seguì trotterellando con un paio di grosse pinze in mano. I soldati si misero subito al lavoro, tentando di aprire lo sportellone del primo carro. Lo sportellone di legno e di ferro resisteva, sembrava che dieci, cento braccia lo trattenessero dall'interno, che i prigionieri facessero forza
per impedir che si aprisse. A un certo punto il capostazione gridò:
«Ehi voialtri, là dentro, spingete anche voi». Nessuno dall'interno rispose. Allora facemmo forza tutti insieme. Sartori stava in piedi davanti al carro, coi viso alzato, asciugandosi il sudore coi fazzoletto. A un tratto lo sportello cedé, e il carro si aprì. Il carro a un tratto si aprì, e la folla dei prigionieri si precipitò su Sartori, lo buttò a terra, gli si ammucchiò addosso. Erano i morti che fuggivan dal carro. Cadevano a gruppi, di peso, con un
tonfo sordo, come statue di cemento. Sepolto sotto i cadaveri, schiacciato dal loro freddo, enorme peso, Sartori si dibatteva, si divincolava, tentando liberarsi da quel morto gravame, da quella gelida mora: finché scomparve sotto il mucchio dei cadaveri, come sotto una valanga di pietre. I morti sono rabbiosi, testardi, feroci. I morti sono stupidi. Capricciosi e vanitosi come bambini e come femmine. I morti sono matti. Guai se un morto odia un vivo, Guai se se ne innamora. Guai se un vivo insulta un morto, o l'offende nel suo amor proprio, o lo ferisce nel suo onore. I morti sono gelosi e vendicativi. Non hanno paura di nessuno, non hanno paura di nulla, né delle percosse, né delle ferite, né del numero soverchiante dei nemici. Non hanno paura nemmeno della morte. Combattono con le unghie e con i denti, in silenzio, non indietreggiano di un sol passo, non lasciano la presa, non fuggono mai. Combattono fino all'ultimo, con un coraggio freddo e testardo: ridendo o ghignando, pallidi e muti, gli occhi sbarrati, stravolti, quei loro occhi da matto. Quando giacciono sopraffatti, quando si rassegnano alla sconfitta e all'umiliazione, quando si stendono vinti, mandano un odore dolce e grasso, e lentamente si sfanno. Alcuni si buttavano su Sartori con tutto il loro peso, tentando di schiacciarlo, altri gli si lasciarono cadere addosso freddi, rigidi, inerti, altri ancora gli picchiavan con la testa nel petto, lo percuotevano con i gomiti e con i ginocchi. Sartori li afferrava per i capelli, li ghermiva per i lembi del vestito, li abbrancava per le braccia, tentava di respingerli stringendoli alla gola, percuotendoli in viso con i pugni chiusi. Era una lotta feroce e silenziosa: noi eravamo tutti accorsi, in suo aiuto, cercando invano di liberarlo dalla grave mora dei morti, finché, dopo molti sforzi, riuscimmo ad agguantarlo e a trarlo di sotto al mucchio. Sartori si rialzò, aveva il vestito in brandelli, gli occhi gonfi, e sanguinava da una guancia. Era pallidissimo, ma tranquillo. Disse soltanto: «Guardate se c'è ancora qualche vivo, là in mezzo. Mi hanno morso il viso».
I soldati saliron dentro il carro, e si misero a buttar fuori i cadaveri ad uno ad uno: erano centosettantanove, morti soffocati. Tutti avevano la testa gonfia, il viso turchino. Intanto erano sopravvenute una squadra di soldati tedeschi, e una piccola folla di abitanti dei villaggio e di
contadini, che diedero mano ad aprire i carri, a buttar giù i morti, ad allinearli lungo la scarpata della ferrovia. Era sopraggiunto anche un gruppo di ebrei di Podul Iloaiei, col rabbino in testa: avevano saputo della presenza del Console d'Italia, e si erano fatti animo. Apparivano pallidi, ma sereni; non piangevano, parlavano con voce ferma. Tutti avevano parentele e amicizie a Jassy, ognuno temeva per la vita di un congiunto, di un amico. Erano vestiti di nero, con strani cappelli di feltro duro in testa. Il rabbino, e cinque o sei di loro, che dissero di appartenere al consiglio di amministrazione della Banca Agricola di Podul Iloaiei, s'inchinarono davanti a Sartori.
«Fa caldo» disse il rabbino asciugandosi il sudore col palmo della mano.
«Eh sì, fa molto caldo» disse Sartori premendosi il fazzoletto sulla fronte. -
Le mosche ronzavano rabbiose. I morti, distesi in fila lungo la scarpata della ferrovia, erano circa duemila. Eh, duemila cadaveri, allineati sotto il sole, son molti. Son perfino troppi. Stretto fra le ginocchia della madre, fu trovato un bambino di pochi mesi, ancora vivo. Era svenuto, respirava ancora. Aveva un braccino spezzato. La madre era riuscita a tenerlo per tre giorni con la bocca incollata a uno spiraglio della porta: si era difesa selvaggiamente perché la folla dei
moribondi non la strappasse di lì, era morta schiacciata nella ressa feroce. Il bambino era rimasto sepolto sotto la madre morta, stretto fra le sue ginocchia, succhiando con le labbra quel tenue filo d'aria. «è vivo» diceva Sartori con voce strana, «è vivo - è vivo!». E io guardavo commosso il buon Sartori, quel grasso e placido napoletano che finalmente aveva perduto la sua flemma, e non per tutti quei morti, ma per un bambino vivo, per un bambino ancora vivo.
Dopo alcune ore, verso il tramonto, dal fondo di un carro bestiame, i soldati buttarono sulla scarpata un cadavere dalla testa avvolta in un fazzoletto insanguinato. Era il proprietario della sede del Consolato d'Italia a Jassy. Sartori lo guardò a lungo, in silenzio, gli toccò la fronte, poi si volse al rabbino e disse: «Era un galantuomo».


di C. Malaparte, dal mare e dagli scogli di Capri
 
Alto