Zefiro
da sudovest
Jacob C. Schäffern. Visse nel ‘700, a Ratisbona, e di mestiere faceva il teologo. Mi piace ricordarlo perché sviluppò la prima lavatrice della storia, secondo il principio di funzionamento per il trattamento dei tessuti sporchi, a tutt’oggi applicato e noto come ciclo di lavaggio a 6 passi: 1) immersione in acqua e sapone 2) agitare e scuotere 3) eliminare l’acqua sporca 4) centrifugare 5) aggiungere acqua pulita 6) risciacquare.
Ho una teoria personalissima tutta mia secondo la quale Schäffern andrebbe ricordato come uno dei principali artefici del WLib, e, più in generale, anche non volendo porre l’accento su considerazioni relative al femminismo o alla condizione della donna, per aver liberato una incredibile quantità di tempo ed energia che in passato venivano impiegati in una attività durissima, “lavare”, impegnando oltre la metà -le donne appunto- del genere umano.
Propongo qui sotto alcuni stralci di un articolo di G. Zucconi apparso su La Stampa tre anni fa, in cui mi sono imbattuto per caso e che trovo acuto ed interessantissimo. Da un lato coglie gli aspetti positivi della evoluzione tecnologia, partendo dalla lavatrice appunto, dall’altro ne paventa i pericoli ed i rischi connessi ad una singolare spinta di ritorno indietro involutivo e disumanante.
Consideriamo ora due affermazioni opposte:
A: La tecnologia è amica del genere umano;
A-negato: La tecnologia è nemica del genere umano.
Ciascuno di noi probabilmente, a seconda degli angoli di vista da cui le si considerino, le condivide entrambe corredandole però, l’una e l’altra con gli opportuni caveat, argomentazioni, limitazioni e così via…
Mi chiedo:
1) Cosa si nasconde di infido tra l’una e l’altra affermazione?
2) Dove è che si deve riflettere (ed agire!) affinché dalla prima affermazione non si passi alla seconda? Ovvero: quali sono i passaggi pericolosi per cui da “A” si migra ad “A-negato”?
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“ L’inventore della lavatrice fu un teologo settecentesco di Ratisbona (…) Non è stata la pillola, ma la lavatrice ad aver liberato ed emancipato le donne (…) sarebbero però le donne a dover rendere grazie al parallelepipedo: ad adorarlo come il totem del tempo ritrovato. Se solo non avessero, se non avessimo, dimenticato in fretta, frastornati come siamo e lamentosi contro il logorio della vita moderna, com’era il logorio della vita premoderna. Il freddo, i panni ruvidi, la schiena rotta, i geloni.
Se mai riuscissimo a scendere dalla giostra (o forse è una centrifuga) dei consumi, la testa ci girerebbe troppo: non capiremmo che cosa ci è capitato in un paio di generazioni appena. Ed è un peccato. È un peccato che non sia esistito un Carducci, anzi una Carducci, che estendesse il suo elogio del locomotore (Inno a Satana) anche alla lavatrice. Dalla ingenuità idolatra del positivismo e di tutti i progressismi, che in ogni motore o aggregato di ferraglia vedevano il Mito Incarnato, siamo passati troppo in fretta a una delusa malinconia. È come se, insieme con l’aria e le acque, fosse inquinato anche il piacere di avere liberato tempo ed evitato fatica, grazie all’automazione. E il frastuono impedisse di ringraziare la lavatrice, la lavastoviglie, i mille ingranaggi che hanno sollevato l’uomo, e specialmente la donna, da servitù ottocentesche. Ora che l’Ottocento è finito da un pezzo e il Novecento pure, il «si-stava-meglismo» è diventato un automatismo, la nostalgia un rictus collettivo. Certo, sui Navigli milanesi, guardando agli orribili déhors fracassoni popolati di mutanti, ragazzi depilati e ragazze plasticate che emulano gli squinzi televisivi, non occorre essere bacucchi per rimpiangere i tempi neanche tanto lontani delle lavandaie ai fontanili, e le chiacchiere, e i cento risciacqui, e il sapone e la cenere, e le fantesche che spettegolavano sui signori, e i panni sporchi che non si lavano in famiglia ma in gruppo, in pubblico, insieme.
Ecco: «insieme» è una parola apparentemente sciacquata via dalla lavatrice, elettrodomestico che, a differenza di radio televisione e poi computer, non collega con il mondo esterno. Tant’è che all’inizio le femministe dibatterono se non fosse un più evoluto strumento di segregazione domestica, anziché di liberazione. Metalli, vetro, pulsanti, anche la casa diventava fordista, una catena di montaggio della pulizia sempre più pulita, dell’efficienza efficientissima, era l’epoca delle pattíne (a proposito: che fine hanno fatto?) e del patema per la prima pentola a pressione. Questo, però, a guardarla dal qui e ora: dal crinale sul quale ci troviamo adesso, a rischio come siamo di soffocare non per troppa fatica fisica ma per eccesso di tecnologia, per il tempo che le complicazioni immateriali ci sottraggono proprio come, qualche decennio fa, quelle fin troppo materiali.
Guardando però all’oblò non con il nostro sfiancato cinismo ma con l’entusiasmo delle tante piccole liberazioni che seguivano alla Liberazione, piace immaginare una donna seduta a leggere, mentre nello stanzino la lavatrice faceva il suo lavoro, sobbalzando per i contraccolpi del cestello: a leggere magari le Lavandare di Pascoli, o L’Agnese va a morire di Renata Viganò che ha per protagonista appunto una lavandaia, o quella tremenda pagina di De Roberto in cui la serva in ginocchio accumula mutande e lenzuola, e enumera disgrazie, mentre la padrona signorilmente la compiange. Meglio oggi. (…) “
(Giovanna Zucconi - La Stampa, 11 dicembre 2007)
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Ho una teoria personalissima tutta mia secondo la quale Schäffern andrebbe ricordato come uno dei principali artefici del WLib, e, più in generale, anche non volendo porre l’accento su considerazioni relative al femminismo o alla condizione della donna, per aver liberato una incredibile quantità di tempo ed energia che in passato venivano impiegati in una attività durissima, “lavare”, impegnando oltre la metà -le donne appunto- del genere umano.
Propongo qui sotto alcuni stralci di un articolo di G. Zucconi apparso su La Stampa tre anni fa, in cui mi sono imbattuto per caso e che trovo acuto ed interessantissimo. Da un lato coglie gli aspetti positivi della evoluzione tecnologia, partendo dalla lavatrice appunto, dall’altro ne paventa i pericoli ed i rischi connessi ad una singolare spinta di ritorno indietro involutivo e disumanante.
Consideriamo ora due affermazioni opposte:
A: La tecnologia è amica del genere umano;
A-negato: La tecnologia è nemica del genere umano.
Ciascuno di noi probabilmente, a seconda degli angoli di vista da cui le si considerino, le condivide entrambe corredandole però, l’una e l’altra con gli opportuni caveat, argomentazioni, limitazioni e così via…
Mi chiedo:
1) Cosa si nasconde di infido tra l’una e l’altra affermazione?
2) Dove è che si deve riflettere (ed agire!) affinché dalla prima affermazione non si passi alla seconda? Ovvero: quali sono i passaggi pericolosi per cui da “A” si migra ad “A-negato”?
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“ L’inventore della lavatrice fu un teologo settecentesco di Ratisbona (…) Non è stata la pillola, ma la lavatrice ad aver liberato ed emancipato le donne (…) sarebbero però le donne a dover rendere grazie al parallelepipedo: ad adorarlo come il totem del tempo ritrovato. Se solo non avessero, se non avessimo, dimenticato in fretta, frastornati come siamo e lamentosi contro il logorio della vita moderna, com’era il logorio della vita premoderna. Il freddo, i panni ruvidi, la schiena rotta, i geloni.
Se mai riuscissimo a scendere dalla giostra (o forse è una centrifuga) dei consumi, la testa ci girerebbe troppo: non capiremmo che cosa ci è capitato in un paio di generazioni appena. Ed è un peccato. È un peccato che non sia esistito un Carducci, anzi una Carducci, che estendesse il suo elogio del locomotore (Inno a Satana) anche alla lavatrice. Dalla ingenuità idolatra del positivismo e di tutti i progressismi, che in ogni motore o aggregato di ferraglia vedevano il Mito Incarnato, siamo passati troppo in fretta a una delusa malinconia. È come se, insieme con l’aria e le acque, fosse inquinato anche il piacere di avere liberato tempo ed evitato fatica, grazie all’automazione. E il frastuono impedisse di ringraziare la lavatrice, la lavastoviglie, i mille ingranaggi che hanno sollevato l’uomo, e specialmente la donna, da servitù ottocentesche. Ora che l’Ottocento è finito da un pezzo e il Novecento pure, il «si-stava-meglismo» è diventato un automatismo, la nostalgia un rictus collettivo. Certo, sui Navigli milanesi, guardando agli orribili déhors fracassoni popolati di mutanti, ragazzi depilati e ragazze plasticate che emulano gli squinzi televisivi, non occorre essere bacucchi per rimpiangere i tempi neanche tanto lontani delle lavandaie ai fontanili, e le chiacchiere, e i cento risciacqui, e il sapone e la cenere, e le fantesche che spettegolavano sui signori, e i panni sporchi che non si lavano in famiglia ma in gruppo, in pubblico, insieme.
Ecco: «insieme» è una parola apparentemente sciacquata via dalla lavatrice, elettrodomestico che, a differenza di radio televisione e poi computer, non collega con il mondo esterno. Tant’è che all’inizio le femministe dibatterono se non fosse un più evoluto strumento di segregazione domestica, anziché di liberazione. Metalli, vetro, pulsanti, anche la casa diventava fordista, una catena di montaggio della pulizia sempre più pulita, dell’efficienza efficientissima, era l’epoca delle pattíne (a proposito: che fine hanno fatto?) e del patema per la prima pentola a pressione. Questo, però, a guardarla dal qui e ora: dal crinale sul quale ci troviamo adesso, a rischio come siamo di soffocare non per troppa fatica fisica ma per eccesso di tecnologia, per il tempo che le complicazioni immateriali ci sottraggono proprio come, qualche decennio fa, quelle fin troppo materiali.
Guardando però all’oblò non con il nostro sfiancato cinismo ma con l’entusiasmo delle tante piccole liberazioni che seguivano alla Liberazione, piace immaginare una donna seduta a leggere, mentre nello stanzino la lavatrice faceva il suo lavoro, sobbalzando per i contraccolpi del cestello: a leggere magari le Lavandare di Pascoli, o L’Agnese va a morire di Renata Viganò che ha per protagonista appunto una lavandaia, o quella tremenda pagina di De Roberto in cui la serva in ginocchio accumula mutande e lenzuola, e enumera disgrazie, mentre la padrona signorilmente la compiange. Meglio oggi. (…) “
(Giovanna Zucconi - La Stampa, 11 dicembre 2007)
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