Mi ero dimenticato di questo stupendo libricino!
Lo stile di racconto autobiografico della bambina mi ricorda il ragazzino con la testa a forma di pallone da rugby del cartone animato "I Griffin".
La visione del mondo da parte del protagonista mi ha divertito: potente anzi onnipotente e con essa stessa centro del mondo! Uno spasso questa lettura!
Lo consiglio a tutti. Una lettura veloce e tanto divertente quanto generatrice di riflessioni.
In principio era il tubo. Amélie Nothomb trasforma l'autobiografia in cosmogonia (e viceversa). Così il tubo è usato come immagine della perfetta autosufficienza e compiutezza, dell'ente supremo che come si dice "pensa a se stesso pensante". E' la forma cilindrica che comprende la sua intera natura tra un buco d'entrata e uno d'uscita, che si trasforma in un neonato assolutamente inerte nella sua soddisfazione, tanto da essere chiamato "la Pianta" dai pur premurosi genitori.
All'età di due anni "la Pianta" si sveglia, perfettamente capace di intendere e soprattutto di volere, e come un marziano appena atterrato va alla scoperta del pianeta della sua condizione terrena: figlia di diplomatici belgi residenti in Giappone, in un universo popolato da una sorella, un fratello e un amichetto, un giardino e due governanti giapponesi, le personificazioni stereotipate della bontà e della cattiveria rispettivamente.
Il percorso conoscitivo si conclude con un rifiuto, un evento traumatico deliberato e a suo modo comunque definitivo.
Una parte del libro:
Ero giapponese. Nella provincia del Kansai, a due anni e mezzo, essere giapponese significava vivere nel cuore della bellezza e dell'adorazione. Essere giapponese significava abbuffarsi dei fiori esageratamente profumati del giardino molle di pioggia, sedersi sul bordo dello stagno di pietra a guardare, in lontananza, le montagne grandi come l'interno del proprio petto, prolungare dentro di sé il canto mistico del venditore di patate dolci che attraversa il quartiere all'imbrunire. A due anni e mezzo, essere giapponese significava essere la prediletta di Nishio-san. Se glielo chiedevo, lei abbandonava in qualsiasi momento le sue occupazioni per prendermi in braccio, coccolarmi, cantarmi canzoni che parlavano di gattini o di ciliegi in fiore. Era sempre pronta a raccontarmi le sue storie di corpi fatti a pezzi che tanto mi stupivano, oppure la leggenda di questa o quella strega che cuoceva la gente in un calderone per farne la zuppa: racconti adorabili che mi incantavano fino all'ebetudine. Si sedeva e mi cullava come una bambola. Io assumevo un'aria sofferente soltanto per il desiderio di essere consolata: Nishio-san stava al gioco e mi consolava a lungo per le mie pene inesistenti, compatendomi con grande maestria. Poi seguiva delicatamente con un dito il disegno dei miei tratti e ne vantava la bellezza che lei diceva estrema: si esaltava per la mia bocca, per la mia fronte, per le mie guance, per i miei occhi, e concludeva di non avere mai visto una dea dal viso così incantevole. Era una brava persona. E io non mi stancavo di rimanere tra le sue braccia, e ci sarei rimasta per sempre, estasiata dalla sua idolatria. Anche lei si estasiava nell'idolatrarmi a quel modo, dimostrando quanto la mia divinità fosse giusta ed eccellente. A due anni e mezzo, avrei dovuto essere idiota per non essere giapponese.
Lo stile di racconto autobiografico della bambina mi ricorda il ragazzino con la testa a forma di pallone da rugby del cartone animato "I Griffin".
La visione del mondo da parte del protagonista mi ha divertito: potente anzi onnipotente e con essa stessa centro del mondo! Uno spasso questa lettura!
Lo consiglio a tutti. Una lettura veloce e tanto divertente quanto generatrice di riflessioni.
In principio era il tubo. Amélie Nothomb trasforma l'autobiografia in cosmogonia (e viceversa). Così il tubo è usato come immagine della perfetta autosufficienza e compiutezza, dell'ente supremo che come si dice "pensa a se stesso pensante". E' la forma cilindrica che comprende la sua intera natura tra un buco d'entrata e uno d'uscita, che si trasforma in un neonato assolutamente inerte nella sua soddisfazione, tanto da essere chiamato "la Pianta" dai pur premurosi genitori.
All'età di due anni "la Pianta" si sveglia, perfettamente capace di intendere e soprattutto di volere, e come un marziano appena atterrato va alla scoperta del pianeta della sua condizione terrena: figlia di diplomatici belgi residenti in Giappone, in un universo popolato da una sorella, un fratello e un amichetto, un giardino e due governanti giapponesi, le personificazioni stereotipate della bontà e della cattiveria rispettivamente.
Il percorso conoscitivo si conclude con un rifiuto, un evento traumatico deliberato e a suo modo comunque definitivo.
Una parte del libro:
Ero giapponese. Nella provincia del Kansai, a due anni e mezzo, essere giapponese significava vivere nel cuore della bellezza e dell'adorazione. Essere giapponese significava abbuffarsi dei fiori esageratamente profumati del giardino molle di pioggia, sedersi sul bordo dello stagno di pietra a guardare, in lontananza, le montagne grandi come l'interno del proprio petto, prolungare dentro di sé il canto mistico del venditore di patate dolci che attraversa il quartiere all'imbrunire. A due anni e mezzo, essere giapponese significava essere la prediletta di Nishio-san. Se glielo chiedevo, lei abbandonava in qualsiasi momento le sue occupazioni per prendermi in braccio, coccolarmi, cantarmi canzoni che parlavano di gattini o di ciliegi in fiore. Era sempre pronta a raccontarmi le sue storie di corpi fatti a pezzi che tanto mi stupivano, oppure la leggenda di questa o quella strega che cuoceva la gente in un calderone per farne la zuppa: racconti adorabili che mi incantavano fino all'ebetudine. Si sedeva e mi cullava come una bambola. Io assumevo un'aria sofferente soltanto per il desiderio di essere consolata: Nishio-san stava al gioco e mi consolava a lungo per le mie pene inesistenti, compatendomi con grande maestria. Poi seguiva delicatamente con un dito il disegno dei miei tratti e ne vantava la bellezza che lei diceva estrema: si esaltava per la mia bocca, per la mia fronte, per le mie guance, per i miei occhi, e concludeva di non avere mai visto una dea dal viso così incantevole. Era una brava persona. E io non mi stancavo di rimanere tra le sue braccia, e ci sarei rimasta per sempre, estasiata dalla sua idolatria. Anche lei si estasiava nell'idolatrarmi a quel modo, dimostrando quanto la mia divinità fosse giusta ed eccellente. A due anni e mezzo, avrei dovuto essere idiota per non essere giapponese.
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