Patruno, Lino - Alla riscossa Terroni

Il libro è composto da una raccolta di articoli che Patruno ha pubblicato su vari quotidiani.
Sono tutti molto interessanti.
Voglio postarne uno:

Sud buono anzi fin troppo

LINO PATRUNO

Non è vero che la gente del Sud è più intelligente di quella del Nord. È vero invece che è più buona. Quindi la signora Franca Ciampi, che lo ha detto giorni fa con gran scandalo, ha ragione e torto. La gente del Sud non è più intelligente altrimenti non si sarebbe fatta trattare come è stata trattata dall’unità d'Italia in poi. Ed è più buona perché, nonostante questo trattamento, ha consentito al Nord di passare da vittima e di avere privilegi come se il Sud fossero loro e il Nord noi. E inutile ripetere la storia patria. Ma anche lo studioso meno benevolo verso il Sud sa che, dal 1861 in poi, non c'è stata decisione presa dai vari governi che non abbia servito gli Interessi della parte più forte del Paese e non quelli della parte più debole. E sempre il Sud è stato costretto ad interrompere ciò che stava facendo senza essere preparato alle conseguenze.

Atto primo. Al momento dell'unità, il Sud ha una florida industria metalmeccanica, tessile, della carta, del vetro, dei pianoforti. Ma si difende dalla concorrenza col protezionismo: pesanti tariffe doganali sui prodotti esteri per farne aumentare i prezzi. Il nuovo governo abolisce queste dogane e l'industria meridionale crolla sotto i colpi dei prezzi più bassi degli altri: come oggi con la Cina.

Atto secondo. Crollata l'industria, il Sud sì concentra sull'agricoltura, che ha uno sviluppo vertiginoso basato sulle esportazioni favorite indirettamente dall'abolizione delle tariffe doganali, che hanno creato un buon rapporto con gli altri Paesi. Ma d'improvviso il governo ripristina quelle tariffe, perché l'industria settentrionale ha bisogno di essere a sua volta protetta. Dopo l'industria è distrutta anche l'agricoltura meridionale, che non vende più un grammo por la ritorsione degli altri Paesi che non comprano più. E sono distrutte le banche, che perdono i soldi prestati per l'espansione della produzione. Una «vigliaccata» verso il Sud disse il meridionalista Giustino Fortunato. Con crescita ulteriore del divario.

Atto terzo. A inizio 1900 occorrono leggi speciali a favore del Mezzogiorno. Ma quando stavano dando i primi frutti, sulla spinta centro-settentrionale alla ricerca di nuovi mercati l’Italia si imbarca nella conquista della Libia. Finanze dissanguate, leggi speciali interrotte e Sud che continua a non avere strade, ferrovie, acquedotti, fognature, scuole, università. Guerra che assorbe anche i sudati risparmi inviati dai nostri emigrati nelle Americhe.

Atto quarto. L'Italia entra nella prima guerra mondiale, arricchendo ovviamente l'industria settentrionale, mica si potevano sparare chicchi d'uva anche se si potevano mandare i terroni a morire a Caporetto.

Atto quinto. Il fascismo, che nasce al Nord e sostiene il Nord. Grandi opere pubbliche quasi tutte lì. E quasi tutta 1ì anche la bonifica delle terre.

Atto sesto. Ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale. Più difficile dove già c'era meno prima, cioè al Sud. E intervento speciale al Sud fondato soprattutto sul Piano Marshall, aiuti americani che avrebbero dovuto aggiungersi, non sostituirsi a quelli dello Stato italiano, come invece andò. Ecco perché chi parla di soldi sprecali al Sud è disonesto: il Sud non ebbe una lira in più. E di quelle spese beneficiò soprattutto l’industria settentrionale, che vendeva al Sud o al Sud scendeva ad aprire fabbriche, spesso: chiudendo dopo aver incassato i soldi. E soprattutto dal Centro-Nord sono stati utilizzati gli incentivi delle altre leggi più recenti «a favore delle aree sfavorite».

Con tutto lo strombazzato intervento straordinario, lo Stato ha speso al Sud non più dello 0,50 per cento del reddito nazionale, molto meno di quanto speso per le casse integrazioni e per le ristrutturazioni delle industrie del Nord. Mai, insomma, nella storia dell'Italia unita, c'è stato un intervento soltanto per il Sud, ma il Sud è sempre stato al traino di quanto si faceva per il Nord. E ora arriva il federalismo, cioè ciascuno si tiene il suo: un federalismo che, se non sarà solidale con le regioni meno sviluppate, toglierà loro anche gli ultimi soldi dello Stato, lasciando ricchi i ricchi e poveri i poveri. Reco perché la signora Ciampi ha torto e ragione: meridionali tanto poco intelligenti da farsi schiacciare, tanto buoni da non alzare mai la voce. E da l'arsi insultare da Calderoli, il ministro leghista che ha parlato di razzismo verso il Nord. Incredibile.
 
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Leggere gli articoli di Patruno a distanza di cinque sei anni dall'uscita non rende la capacità di leggere il Sud che ha questo giornalista.
Pertanto vi posto un suo recente articolo pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno:

Non è vero che il Sud soffrisse di raffreddore

di LINO PATRUNO

Non ci vogliono stare. La famosa questione del divario economico fra Nord e Sud. E la annosa polemica sulle condizioni del Sud al momento dell’Unità d’Italia. Se era più arretrato come gli storici ufficiali si affannano a ripetere infastiditi. O se il divario è stato un dono del nuovo Regno la cui retorica non deve essere disturbata da simili questioncelle. Non serve una nuova guerra santa in questo Paese che ne ha una al giorno, e proprio mentre squillano i festeggiamenti dei 150 anni. E non occorrerebbe neanche tirar fuori le unghie se il Sud non sospettasse di essere, come si dice, «cornuto e mazziato»: sempre bacchettato per la sua arretratezza, lacerato dai sensi di colpa e poi magari scoprire che è stato solo vittima e non colpevole.

Chiedendo subito scusa per quel «vittima» che richiama il «vittimismo» meridionale, non se ne può più. All’ingrosso la tesi della maggior parte degli storici accademici è che il Regno delle Due Sicilie fosse tutt’altro che il paradiso di cui qualcuno ciancia (non si sa chi, anche perché è difficile che ci fossero paradisi a quei tempi). Sarebbe stato anzi in spaventose condizioni economiche e sociali, popolato più o meno da beduini col cammello, retaggio di secolari dominazioni che ne avevano prosciugato le risorse. E se alcuni suoi vantati primati c’erano, erano solo fumo negli occhi: tipo la prima ferrovia della penisola, la Napoli-Portici, subito bollata come un lusso privato di re Franceschiello per andare alla sua villa al mare. Irrilevante, per gli altezzosi critici, che i due terzi della ricchezza monetaria del nuovo Stato provenissero dal Sud: grazie, perché aveva i soldi e non li spendeva. Qualcosa di simile, ma guarda, a ciò che si dice ancora oggi.

Poi qualcuno è andato a vedere le carte, cominciando ad accorgersi che questo divario forse forse non c’era. Anzi, se vogliamo dirla tutta, ma ci si scusi la sfrontataggine, che nel 1861 il Sud era più ricco del Nord. E che se poi si è ridotto come oggi, bisognerebbe spulciare tutta la politica economica da allora in poi, a parte ciò che i vincitori sottrassero ai vinti come si fa in ogni sana guerra, figuriamoci se guerra civile. Cominciò il meridionalista e capo del governo Francesco Saverio Nitti nel 1900 (ricerca ora ripubblicata a Bari dai professori Nicola d’Amati e Caterina Coco). Hanno continuato ai nostri giorni studiosi come lo storico dell’economia Luigi De Rosa, o Piero Bevilacqua, o l’altra barese Enrica Di Ciommo, o Giordano Bruno Guerri.

E udite udite, è ancora viva l’eco di queste parole: «L’unificazione ha annichilito la società meridionale e di riflesso e conseguenza ha interrotto il suo processo di sviluppo». Magari qualche solito neoborbonico, se non fosse, come è, addirittura il ministro Tremonti, fra l’altro valtellinese doc, mica basso irpino. Sulla stessa linea un altro ministro, il veneziano Brunetta, nel suo ultimo libro. Inoltre. Sorpresa per i risultati dell’indagine dei professori Daniele e Malanima per conto del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche): anche loro in controtendenza rispetto alle verità finora spiattellate. Finché, nel luglio scorso, ci si è messa anche la Banca d’Italia con i professori Carlo Ciccarelli e Stefano Fenoaltea della Sapienza di Roma: l’arretratezza industriale del Sud non è stata un’eredità dell’Italia pre-unitaria ma è nata dopo.

Sembra una congiura revisionista. Ovvio che si scatenino i nervosi distinguo: magari il Sud aveva le fabbriche ma soffriva di raffreddore, la qualità della vita deve pur contare qualcosa. E via filosofando. Non ci vogliono stare. Non è solo storia, è carne viva. Un divario anche figlio della decisione di concentrare al Nord lo sviluppo, di contare sul Sud come grande serbatoio della manodopera a basso prezzo (l’emigrazione), di attivare lo Stato come grande mediatore ed elemosiniere ogni volta che al Sud le cose precipitavano.

In due parole: lo sviluppo del Nord fondato sul sottosviluppo del Sud. Fatto questo per 150 anni, ora s’inventano il federalismo: blocchiamo la situazione al momento, ciascuno si tenga il suo (anche se frutto di ricettazione) e si governi da sé. E il Sud cerchi di farlo bene, visto che deve prendersela con i suoi dirigenti se sta come sta. La storia? Per carità, siete dei piagnoni. Governarsi da sé si può. Ma dopo la restituzione del malloppo.

Negare la storia significa anche negare il diritto alla riparazione. Ora il federalismo lo chiamino anche equo e solidale. Però neanche dei Superman potranno rilanciare un Sud che parte col quaranta per cento in meno di ricchezza. E cominciando anche a capire perché. Festeggiamo con tutto l’orgoglio possibile l’unità del Paese e quel sortilegio ideale che la rese possibile. Ma non può essere unita una famiglia con figli e figliastri. Ora che il Sud lo sa, alzi il ditino. Oppure continui ad accontentarsi, ma per sempre, degli avanzi. Federali.

Fonte:La Gazzetta del Mezzogiorno del 22/10/2010
 
Prima o poi si estinguerà la mafia caro Brigante.

Falcone diceva che essendo stata costruita da uomini, è altamente probabile che altri uomini ne dispongano la fine. Non è toccato a lui, ma prima o poi ci si riuscirà.

Pensavo fosse un saggio il libro di Patruno, invece è una raccolta di editoriali pubblicati dal giornalista sulla Gazzetta del Mezzogiorno, in un periodo di tempo che abbraccia quasi dieci anni, dal 2000 al 2008.

Gli articoli sono tutti molto interessanti, ma letti a distanza di tempo perdono pathos.

Si va dalla bocciatura della riforma del titolo V della Costituzione, al nuovo federalismo alla leghista di questi anni.
Vengono analizzati i mali del Sud, e si cerca di riportare la Questione meridionale a Questione nazionale e non solo localistica.

Diciamo che su tale questione Salvemini e Nitti hanno scritto di meglio.
 
Ogni volta che leggo Patruno, qualcosa stride dentro di me. Non mi convince del tutto, anche se ad una prima lettura i suoi editoriali sono ineccepibili. Provate a leggerlo voi.





Dateci quattro leve e faremo il nuovo Sud

di LINO PATRUNO

Veloce veloce, possiamo rivoltare il Sud. E risolvere ora la Questione meridionale. Un delirio? Lasciamo stare il «Piano Sud», soliti soldi che girano, anzi ancor meno. Ma stavolta dicono che ci sono. E siccome le Regioni meridionali sono accusate di non spenderli, stavolta se li tiene il governo. Col quale le Regioni devono concordare come utilizzarli. Centralismo alla faccia del federalismo, si mettano d’a ccordo. Ma procediamo. Proclamano: poche fondamentali opere invece della pioggia di piccoli finanziamenti che vanno a tutti e non accontentano nessuno.

In Puglia, tanto per capire, ci si aspetta la ferrovia Bari-Napoli da un’ora e mezza e la litoranea jonica fino alla Calabria. Col 30 per cento di infrastrutture in meno rispetto al Nord, è il minimo. Mezza unificazione d’Italia 150 anni dopo. Se non sarà così, chiudiamo il discorso. Come e quando potranno farlo se ci vogliono 10 anni per u n’opera grande e 4 per una piccola, non si sa. A proposito. Siccome quando si parla di Stato si parla anche di aziende pubbliche tipo Terna, il governo scriva a Terna: prego darsi da fare a completare le reti per trasportare l’energia da fonti alternative. Terna, parente di Enel, ha tanti di quegli utili da non avere problemi. Perché, diciamocelo sottovoce, ci riempiamo la nostra bella terra di pale eoliche e di specchi fotovoltaici, ma quasi metà della loro energia va perduta perché non si sa appunto come mandarla altrove, cioè esportarla. Solita beffa.

Visto che ci siamo, e visto che il federalismo in salsa lumbard significa «ciascuno si tenga il suo» (perché ci siamo stancati di assistere il Sud ecc. ecc.), i nostri prodi parlamentari meridionali facciano una sola cosa. Prima di firmare qualsiasi carta, pretendano che le tasse si paghino dove si ottiene il reddito. Facciano insomma finire lo scandaletto di aziende nazionali che producono da noi e non solo si portano via il guadagno, ma vanno a pagare le tasse dove hanno la sede legale, cioè normalmente al Nord. Quelli, signor Bossi, sono soldi nostri, altro che vi siete stancati di assisterci. E sono tre (opere, reti elettriche, tasse).

Poi c’è un fatto nuovo, giustamente sottolineato in questi giorni. L’Irlanda rischia il fallimento, e non è che si sentano tanto bene neanche Portogallo e Spagna. Sono proprio i tre campioni che sbattevano in faccia al nostro Sud per dirgli: vedi come si sono sviluppati utilizzando bene i fondi europei? L’Irlanda, anzitutto. Che aveva attirato investimenti da tutto il mondo dimezzando le tasse rispetto al resto d’Europa. Da poveri a ricchi. Ma col vizietto dei debiti. Da ricchi a poveri. «Dear sir», cari signori, bisogna risparmiare. Come fa, dove ce la fa, il nostro Sud. Che altrimenti sarebbe già crollato. Siccome i governi (di oggi e di ieri) si sono sbracciati a sostenere che il sistema rapido per rilanciare il Sud è un’ampia zona franca fiscale (come l’Irlanda, per capirci), si diano rapidamente da fare. Vadano finalmente a Bruxelles a ottenerla. Quelli risponderanno che è violazione della concorrenza. Loro ribatteranno che, con la globalizzazione, le regioni valgono quanto gli Stati. E se l’hanno data all’Irlanda, possono darla anche alle Regioni del Sud. Forse complicato da capire per tutti noi, ma noi li abbiamo eletti per ques to. Il modello Irlanda (senza i debiti) potrebbe portare da noi le aziende multinazionali che se ne andranno di lì. Soprattutto informatica e alta tecnologia. E noi abbiamo freschi ingegneri non secondi a nessuno.

Possono scendere anche aziende del Nord, così la finiscono di alzare capannoni nel letto dei fiumi e di lamentarsi poi per le alluvioni. E il Nord si potrà tenere allora anche i suoi sacri soldi senza il federalismo, lo sviluppo al Sud servirà anche a loro. Se insisterà col federalismo, significa che c’è il trucco. A questo punto le leve per sollevare il Sud sarebbero quattro (opere pubbliche, reti elettriche, tasse pagate in loco, zona franca). Ce n’è u n’altra, più o meno prossima ventura. Quando ridurremo la produzione di oggetti (ne abbiamo fin troppi) e ci dedicheremo soprattutto ai servizi, gran parte dei lavori attuali si faranno via computer. Non solo il telelavoro, lavorare da casa. Ma commercio, medicina, amministrazione viaggeranno in Internet. Esempio: un chirurgo da Bari opera un paziente a Milano grazie a un robot. Per lui non ci sarà più lo svantaggio dell’ospedale di serie B. Come per i nostri giovani non ci sarà più lo svantaggio del dove sono (il Sud senza aree attrezzate) ma varrà soltanto la loro intelligenza. Si dice «decontestualizzare». E se hanno un’idea, fanno un programmino (software) e mandano a realizzare ovunque. Così finiremo di esportare laureati e di importare muratori. Sommato il tutto, possiamo rivoltare il Sud. E risolvere ora la Questione meridionale. Se non si farà, almeno la finiscano di prenderci in gir o
 
I giorni del ritorno della «meglio gioventù»


di LINO PATRUNO
Natale è il tempo del ritorno dei ragazzi. O quello, col poeta Montale, <che ci riporta gli amici sparsi>. I ragazzi sono i figli andati a lavorare fuori, quella <meglio gioventù> che ha dovuto lasciare un Sud con la partenza nel destino. Non è stato sempre così, perché di qui non andava via nessuno, anzi ci venivano. Era prima dell’unità d’Italia, paradiso o inferno che fosse allora questa terra che un giorno tornerà bellissima.

Dell’unità si è parlato, si parla e si riparlerà per i 150 anni. Ma il lavoro che non c’è continua a pesare come una ferita nel gran bel Paese in cui un giovane su tre al Sud non ce l’ha. In cui il 10% della popolazione detiene il 45% di tutta la ricchezza, roba da repubblica delle banane. E in cui i fratelli d’Italia sono piuttosto fratellastri, se quello settentrionale ha un reddito del 40% in più di quello meridionale. Per completare l’incredibile Ingiustizia italiana.

Un tempo si chiamavano emigranti, da quando prendevano i piroscafi per <terre assai lontane> a quando con le valigie di cartone sono stati inghiottiti dai treni per le nebbie. Venti milioni sono stati da fine Ottocento a metà Novecento. Non c’era famiglia che non ne avesse. E ancora oggi molti nostri paesi sono spopolati, ci sono rimasti i vecchi e i bambini. E quelli che sono rientrati a godere della fatica fatta parlano una lingua strana e aprono il negozio di alimentari, piccolo segno di benessere. La loro epopea non è stata mai raccontata come merita, non hanno avuto giustizia neanche con la memoria. Una storia di vinti anche questa.

Ora è l’era di Internet. E i nostri ragazzi nascono col trolley alla mano e il viaggio nel sangue. Vanno e vengono. Conoscono le lingue, prenotano <on line>. E preistoria sono i loro bisnonni che spesso non erano mai stati fuori dal loro villaggio, non avevano mai visto una città e il mare. E quando i motori del bastimento cominciavano ad ansimare, era come se una piccola morte scendesse su di loro: più della metà non sarebbero mai più rientrati.

Ma dalle Americhe salvarono l’Italia. Le loro rimesse, i soldi che mandavano a casa, fecero schizzare il valore della lira di carta al di sopra di quella d’oro, mai più avvenuto. Questo non preservò da una feroce tassazione quei denari della fatica e del dolore. E c’è qualche storico nordista odierno che continua a scriverne come traditori e furbi: per stare meglio, dicono, fecero stare peggio gli altri. Ovviamente una infamia, in un’Italia disunita che li costrinse ad andarsene. Ed erano i più forti e capaci, ciò che fece pagare al Sud anche questo impoverimento.

Si è calcolato che le loro rimesse siano state cinquanta volte più alte di tutta la spesa della Cassa per il Mezzogiorno. E anche ora è così, il Sud perde un patrimonio immenso, proprio quello che gli servirebbe per dare qualità ai suoi sforzi di sviluppo. Hanno tutti un titolo di studio, in gran parte laureati, vanno via i cervelli mentre prima andavano via le braccia. E anche se sono più randagi che legati al filo d’erba, gente di mondo, è uno scandalo anzitutto umanitario e poi economico che siano costretti a farlo. Come una fatalità.

Anche ora non è vano ripetere un calcolo che li riguarda. Ne vanno via 50 mila all’anno. E per capire ciò che il Sud regala, basta partire dalla spesa sostenuta dalle famiglie e dalle università meridionali per formarli: fra i 50 mila e i 100 mila euro ciascuno. Senza contare che chi va a lavorare altrove, deve cambiare residenza, spendendo e pagando anche le tasse lì. Il Sud si sacrifica per loro, altri ne beneficiano graziosamente. Anzi chiamandoli pure terroni.

Quando buona parte dell’attuale lavoro del mondo si farà via Internet, allora forse non partiranno più. Perché allora quei cervelli ora pendolari potranno rimanere a casa. Varrà più il loro talento davanti a una tastiera ovunque sia, che un territorio attrezzato per la produzione: proprio quel territorio non competitivo che ora li manda a cercare altrove. Ma nel frattempo una generazione avrà pagato ancòra un prezzo, una generazione di passaggio dal fisso al mobile e non solo telefonicamente. La generazione della precarietà spacciata per flessibilità. La generazione che non può prendere famiglia e casa perché nessuno sa dopo sei mesi di contratto cosa succede.

Ma anche le feste sono cambiate, quei ragazzi staranno un po’ in famiglia ma poi via con gli amici prima di riempire di nuovo il trolley con i jeans dei giramondo e la frittata della mamma. Forse poco a poco perderanno il richiamo della propria terra, diventeranno altro anche da sé e dai loro desideri di un tempo. E ricorderanno il luogo dal quale sono andati via come quello dei curriculum e dell’attesa di una chiamata. Così il Sud sarà sempre meno speranza dei giovani e sempre più delusione dei vecchi. Sarà un addio e un silenzio.
www.linopatruno.com
 

Bobbi

New member
Io sono pugliese. Sono stanca di sentir tirare in ballo fatti dell'800...la verità è che una parte non trascurabile di meridionali difetta di senso civico e di amor di patria e preferisce contribuire a tenere in vita le cattive eredità che ci distruggono. Non migliorerà mai nulla se ciascuno non fa il proprio dovere, aspettando sempre che le soluzioni piovano dallo Stato. La mafia non verrà mai sconfitta se la gente comune non smette di appoggiarla o di essere neutrale nei suoi confronti. Eccetera eccetera eccetera
 
Sei stanca di sentir tirare in ballo fatti dell'800?

Ho sottomano il libro di De Jaco, vuoi che ti legga alcune dichiarazioni dell'On. Ricciardi alla Camera dei Deputati il 18 aprile 1863?


"Nel Matese, non lungi da Piedimonte d'Alife, una compagnia di bersaglieri nel perseguitare i briganti arrestò cinque carbonari, fra cui due padri di famiglia, li arrestò, o signori, e un quarto d'ora dopo li faceva fucilare siccome briganti. Eppure erano tutti innocenti! Lascio stare altri fatti per non funestarvi più oltre"

“La verità attraversa tre fasi:
prima la si ridicolizza;
poi ci si oppone violentemente;
infine, la si accetta come ovvia.”

Schopenhauer
 
Stanchi dei fatti dell'800, ne aggiungiamo di nuovi.

Valico dei Giovi, cattedrale incompiuta
da sei miliardi di euro Il Cipe ha stanziato a novembre altri 500 milioni di euro per il tratto dell'Alta velocità che dovrebbe collegare Milano a Genova. Intanto restano bloccati i fondi per la ricostruzione de L'Aquila e delle scuole del Sud, che vantano un credito di 600 milioni di euro, denaro assegnato ma fermo da un annoMeno di un dodicesimo, cinquecento milioni sulla spesa complessiva prevista di oltre 6 miliardi. È questa la proporzione del finanziamento che lo scorso 18 novembre il Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE) ha accordato rispetto al totale necessario per realizzare il Valico dei Giovi, tratta della Tav Milano Genova. Mezzo miliardo di euro per un’opera che negli anni ’90 costava meno di un terzo e di cui si promette l’inaugurazione da quasi trent’anni. A cosa servirà questo primo stanziamento? A riaprire i cantieri, assumere personale, dare respiro alle promesse elettorali. Poi, se non si troveranno altri soldi, si ritornerà al 2007, quando le opere sono state chiuse perché i fondi erano esauriti.

Il quadro drammatico delle casse statali impone delle scelte. Per riaprire i cantieri del Valico dei Giovi, ad esempio, si rinuncia alle ultime assegnazioni per la ricostruzione degli edifici in Abruzzo e alla ristrutturazione delle scuole meridionali: a tutt’oggi, i fondi bloccati per completare questi due interventi ammontano a circa 600 milioni. In pratica, manca all’appello il 40% di ciò che è stato previsto dopo il terremoto abruzzese per la ricostruzione di edifici pubblici e privati e circa la metà di quanto promesso dal Cipe nel 2009 alle opere medio-piccole del Mezzogiorno. Quindi, perché secondo il Cipe l’antipasto della Tav Genova-Milano è prioritario rispetto ai terremotati abruzzesi e agli studenti meridionali? Se qualcuno lo chiede al segretario del Comitato, Gianfranco Miccichè, si sente rispondere che i soldi stanziati dall’ultimo governo vanno solo verso le opere del Nord e che «bloccheremo tutti i fondi se non arrivano i fondi anche per le opere nelle altre regioni». Invece, il sindaco de L’Aquila Massimo Cialente ha un’altra spiegazione: «In Italia si pensa prima a rifare il salotto buono e poi la cucina, cioè prima si pensa alla grande opera e poi a quelle essenziali per il territorio. Perché? L’infrastruttura nuova si annuncia, crea consenso elettorale, invece i soldi impiegati per le piccole opere non hanno visibilità. Ma prima di fare il Ponte sullo Stretto bisogna mettere in sicurezza il Paese. Ed è il governo in carica che decide quali siano le priorità».

«Il Governo farebbe bene a decidere quali infrastrutture sono prioritarie e a minor impatto ambientale, sociale ed economico», tuonava qualche tempo fa il Wwf. E il governo lo ha fatto: due su tre sono al Nord. Riprende Cialente: «Mi sono dimesso da vicecommissario alla ricostruzione per i ritardi nelle assegnazioni dei finanziamenti selezionati dal Fas: un miliardo di euro che non possiamo usare perché la governance che sovrintende i lavori, decisa dal governo, è inadeguata. A volte mi viene il sospetto che sia fatto tutto apposta per non farci usare i fondi. Ma noi come facciamo a non essere prioritari con 14mila persone che ancora non hanno ripreso possesso della propria casa?». Sarà anche perché scarseggiano gli sponsor per l’Abruzzo e per le opere di manutenzione al Sud. Mentre per il Valico dei Giovi non mancano: in primis, l’ex ministro Claudio Scajola e quindi il viceministro alle Infrastrutture Roberto Castelli. Scajola, in particolare, al Valico è legato per provenienza: ligure d’origine e dominus di molti progetti infrastrutturali in regione, l’ex ministro sa che la Tav Milano Genova è il sogno di molti conterranei. A cominciare dai 150mila pendolari che transitano ogni mattina tra il capoluogo lombardo e quello ligure, per proseguire con gli abitanti delle zone interessate che vedrebbero occupazione e sviluppo, e concludere con gli imprenditori che collegando il porto genovese a Milano incrementerebbero ricavi e investimenti.

Infatti nel caso del Terzo Valico il problema non è la volontà, ma la disponibilità: l’opera è antieconomica. Pian piano l’hanno ammesso tutti: la Banca europea per gli investimenti, l’Ispa (Cassa depositi e prestiti), gli imprenditori. Il tratto costa oltre sei miliardi e per ora la Ue non ha intenzione di sborsare un euro. Tant’è che l’estate scorsa Giovanni Calvini, presidente di Confindustria Genova ha dichiarato a proposito del Valico: «A questo punto sarebbe meglio rinunciare. Le abbiamo provate tutte ma da soli non ce la facciamo». Ed è comprensibile visto che con questi chiari di luna dovuti alla crisi è improbabile che lo Stato sborsi sei miliardi per un tratto della Tav considerato tra i più cari d’Europa: 6.200 milioni per 54 chilometri di tracciato, 114 milioni di euro per chilometro. Per alleggerire il peso sull’Erario Castelli ha proposto di spalmare la cifra necessaria per tutti gli anni di lavoro, almeno altri otto secondo le previsioni: in pratica, una tassa in più. E poi una volta terminato il Valico, secondo alcune stime i costi di gestione ricadrebbero per l’85% sullo Stato: la tassa, quindi, sarebbe definitiva.

A proposito del Valico, un anno fa il Wwf ha acceso il sospetto di cantieri rilanciati per soli fini elettorali: «Alcuni commi della finanziaria appena votata alla Camera rischiano di trasformare i primi cantieri delle Grandi Opere in colossali incompiute, cattedrali nel deserto». In effetti uno dei commi stabilisce che «il contraente generale o l’ affidatario dei lavori nulla abbia a pretendere nel caso dell’eventuale mancato o ritardato finanziamento dell’intera opera o di lotti successivi». E perfino l’Ance (Associazione nazionale dei costruttori edili) è d’accordo con gli ambientalisti: «I timori del Wwf sono condivisibili – spiega Stefano Delle Piane, vicepresidente nazionale di Ance – (…) È come se lo Stato dicesse: sappi che oggi i quattrini ci sono ma non potrai eccepire se in futuro non arriveranno. Diciamo che io, che lavoro con i miei soldi, un contratto del genere non lo firmerei».

Il Valico però si deve fare, costi quel che costi, anche se a spese del costruttore. Fin dal 1994 – quando l’opera valeva appena 1,5 miliardi di euro – la vicenda è stata ricca di previsioni definitive e smentite categoriche. Con alcuni esponenti politici in rilevanza. Uno di questi è il senatore Luigi Grillo, fedelissimo di Scajola, finito sotto l’occhio degli inquirenti nel 1999: alcune associazioni ambientaliste avevano denunciato i tempi e i costi dei lavori per il Valico che lievitavano in maniera irrazionale. Il 24 febbraio 1998 si decide il sequestro dei cantieri aperti nell’alessandrino, tra Franconalto e Voltaggio, e nel 1999, per decreto del ministro Ronchi, i cantieri sono chiusi. Intanto, a tal proposito, la Procura di Milano rinvia a giudizio per truffa aggravata nei confronti dello Stato proprio il senatore Luigi Grillo (al tempo presidente della Commissione ambiente del Senato) ed Ercole Incalza, che ha qualcosa in comune con Scajola: anche lui sembra abbia usato soldi ricevuti dalla “cricca” per acquistare una casa a Roma. A proposito dell’inchiesta sull’opera alessandrina, nel 2006 i reati cadono in prescrizione: Grillo, Incalza ed altri manager fruiscono della legge ex Cirielli. In ogni caso, nel 2005 Grillo è di nuovo sui cantieri auspicando la pronta ripresa dei lavori e a giugno del 2010 il senatore è ancora a Voltaggio per promettere che presto la Tav si rimetterà in moto: a ottobre, però, non c’era ancora nessuno a popolare i prefabbricati cantieristici, abbandonati o quasi da almeno tre anni.

Ma è Claudio Scajola il vero promoter del Valico durante i governi Berlusconi. Nel 2001, Lunardi inserisce il tratto tra le opere prioritarie del governo e la Banca europea per gli investimenti promette fondi che nel 2007 ritirerà: è un’infrastruttura antieconomica. Il governo rilancia: l’opera sarà pagata tramite obbligazioni dell’Ispa (Infrastrutture Spa). Ma nel 2006 il presidente della società, Andrea Monorchio, smentisce in maniera categorica: «Si sapeva da sempre che la Milano-Genova non era finanziabile con le modalità finora seguite per le altre tratte dell’alta velocità. Costa 5 miliardi e l’opera non è redditiva perché i ricavi valgono solo il 15% dei costi». E anche Mauro Moretti, ad di Ferrovie dello Stato, affermava tre anni fa: «Nessuno vuole cancellare il progetto del Terzo Valico, però oggi le priorità sono altre». Ma quando nel 2008 Berlusconi torna al governo e Scajola approda al ministero dello Sviluppo economico, Moretti cambia idea sull’importanza dell’opera, che torna ad essere prioritaria. E alla prima riunione del Cipe il Valico dei Giovi ottiene subito lo stanziamento dei primi 500 milioni. Soldi che un mese fa sono stati confermati e che rimetteranno in moto i cantieri per un altro anno – forse qualcosa di più – poi si vedrà. Intanto, la ristrutturazione in Abruzzo e le piccole opere del Mezzogiorno dovranno aspettare il prossimo giro: i soldi non possono bastare se le priorità sono altrove.

di Gianluca Schinaia – FpS Media


Un'ala della scuola media del mio borgo è stata chiusa per pericolo crolli, ci si arrangia nell'altra, anch'essa necessita di lavori di ristrutturazione. La priorità mi sembra chiaro è il valico dei Giovi.
 
Gli insegnanti meridionali non servono più.

Il disco rotto del «noi» e «loro»


di LINO PATRUNO
Sembra un disco rotto. Al Nord ci sono i Comuni virtuosi, al Sud quelli che sprecano. E allora col federalismo del «fai-da-te» sistemiamo tutto, quei sindaci che dovranno dar conto ai loro cittadini diventeranno anch’essi virtuosi. Sarebbe da chiedere a questi pappagalli un elenco dei Comuni con le mani bucate. O parlano perché così hanno sentito dire?

È vero che se vai nelle città del Nord le vedi funzionare come le città meridionali per prime vorrebbero. Ma se lì possono pensare ai parchi, qui si deve pensare agli sfrattati. Facile far funzionare le cose dove si può pensare a vivere e non a sopravvivere.

E poi, bisognerebbe conoscere la storia prima che gli uni dicano a vanvera e gli altri se lo tengano come una vergogna. Il «noi» e «loro» non è nato oggi. È nato da quando l’Italia è cominciata, cioè da quando quel «noi» e «loro» non avrebbe dovuto più esserci, altrimenti era meglio rimanere come prima. Da che mondo è mondo, se si fa una unificazione, si tratta, si concorda, si vede cosa conservare o eliminare dell’uno e dell’altro. Si fa nelle famiglie, nelle aziende, negli Stati. In Italia, invece, si cambiò tutto al Sud, dagli impiegati pubblici, alle leggi, agli usi. E senza discuterne. E non deciso del nuovo parlamento dove anche il Sud fosse rappresentato, ma dai «piemontesi». E senza ascoltare chi suggeriva di andarci piano, di tener conto delle differenze, anzi di unire le differenze come una ricchezza.

Se federalismo doveva essere, doveva essere allora. Invece gli inviati che da Torino scendevano al Sud per descriverlo, condannavano senza capire. Di un’Africa di selvaggi, parlavano. Di due civiltà addirittura, poi di due razze. Magari perché al Sud si mangiavano molti maccheroni. E non erano passati che pochi anni dalle camicie rosse e dalle fanfare del patriottismo, che già proponevano di separarsi dai «napoletani», non era possibile che «loro» rimanessero con «noi». E non era possibile che «noi» ricevessimo dallo Stato più di «loro», cosa allora ancora più falsa di oggi. Anzi si diceva che il Nord «paga» e il Sud «non paga». Tanto da chiedersi perché i garibaldini in quel 1860 non si fossero messi in ferie.

Quindi se un Bossi è spuntato solo meno di vent’anni fa, la gravidanza è durata quasi 150 anni, come se neanche la madre lo volesse. E si è distratta solo con le guerre. E col fascismo, nordico fino al punto che il signor Mussolini faceva sostituire ovunque le piante mediterranee con pini e abeti. Così il federalismo, che avrebbe salvaguardato il Sud dopo la conquista, gli viene imposto oggi che lo danneggia. Perché nel frattempo il «noi» e «loro» si è incrudelito in un divario economico che allora non c’era. Mentre «loro» si lamentano perché «noi» avremmo meridionalizzato l’Italia, visto che anche nell’unitario e civilissimo Piemonte (ma consegnato alla Lega separatista) si mangia la pizza.

E non gli va bene neanche l’emigrazione, che ha unito l’Italia più di Garibaldi. Anzi i sudisti non sarebbero dovuti partire nemmeno «per terre assai lontane». E quelli che lo fecero non furono disperati a caccia di un futuro, ma traditori del meraviglioso Paese disunito che si stava costruendo. E furbi. Fino a chi si preoccupava per l’immagine dell’Italia all’estero deturpata dall’emigrazione di «torme di pezzenti sudici». Magari erano preoccupati dal successo di molti di questi «sudici» altrove, avessero dimostrato di non avere «crani spiccatamente dolicocefali» (da inferiori e delinquenti nati) come si diceva in patria. (W Lombroso)

Per tutto questo il federalismo non è una forma diversa di organizzazione dello Stato, ma il coronamento del sogno di un’Italia divisa cominciato il giorno stesso dell’Italia unita. Insomma il Sud serviva, ma mantenendo le distanze. Mai mischiando «noi» e «loro». Ovviamente nell’economia, cioè nei sacri soldi. Perché poi il Paese può essere molto più unito di quanto dica la sola pizza. Unito dal turismo, dal servizio militare, dalla televisione, dallo sport, dai jeans, dai consumi, dal cinema, dai vizi, dalle virtù. Unito anche dalle mafie, che al Nord hanno fatto crescere senza chiedersi da dove provenissero tanti denari, tranne accusare il Sud di omertà e fargli la lezione. Non vogliono ora gli insegnanti meridionali al Nord, ma appena sistemano qualche disoccupato, figurati se vorranno fare loro gli insegnanti.

Diciamo che se «loro» si potessero tenere tutti i soldi, con un federalismo che lo sancisse, «noi» potremmo anche essere sopportati. Ma essenziale è sapere, con l’aiuto della storia, che sono false le basi su cui si sostiene ora come lo erano false allora: da ciò che il Nord darebbe al Sud, a ciò che lo Stato spenderebbe più al Sud che al Nord. Ma la storia ha smesso da tempo di essere maestra di vita. Altrimenti non si capirebbe perché questi 150 anni da festeggiare vedano sempre e ancòra «loro» contro «noi».

Lino Patruno
 
Federalismo, le 7 bugie a danno del Sud

Federalismo, le 7 bugie a danno del Sud


di LINO PATRUNO
Il pareggio in Commissione significa che mezza Italia vuole il federalismo e mezza no. Mezzo Paese può fare una riforma del genere contro l’altro mezzo? Una riforma che è un nuovo Risorgimento, un’altra Italia 150 anni dopo? E si può farla come allora, con mezza Italia che conquista l’altra e l’assoggetta? E si possono ripetere tutte le belle conseguenze che ancòra oggi subiamo? Si può condizionare il domani con una riforma che non sia quanto più condivisa possibile? E come si comporterebbero dopo le due Italie una verso l’altra? E si può dividere l’Italia proprio mentre si celebra il compleanno della sua Unità? E può diventare il federalismo un mercato arabo in cui ciascuno tenta di strappare quanto più possibile a danno degli altri? E come funzionerebbe un siffatto nuovo Paese, cioè una Repubblica fondata sul colpo di mano?

Vedremo cosa succederà ora, voto non voto e dintorni. Il direttore De Tomaso ha spiegato ieri perché questo federalismo è un futuro peggiore del passato. Essenziale è però sapere che il Sud non teme il . Ma teme un nuovo Risorgimento tradito. E soprattutto respinge le bugie sulle quali il Nord della Lega vuole imporglielo. Senza le bugie, si può discutere quanto si vuole.

Anzitutto, non è vero che il Sud non sa utilizzare i soldi a sua disposizione. Questi soldi sono i Fas (Fondo aree sottoutilizzate) e i Fondi europei. I Fas li gestisce il governo: se sono stati inutilizzati, utilizzati male, utilizzati non per il Sud, prego rivolgersi allo stesso governo. I fondi europei sono a compartecipazione dei privati e dello Stato. Quindi per i progetti occorre una quota dei privati e una dello Stato. Questa molto spesso è mancata, o ha ritardato fino a far perdere il finanziamento. Se a utilizzarli male sono state le Regioni, vedere quante volte non si sono aggiunti alla spesa ordinaria dello Stato (quella fatta sia al Nord che al Sud) ma l’hanno dovuta sostituire. E quanto agli sprechi, che pure ci sono, prego controllare l’aumento continuo della spesa pubblica da parte di quello stesso Stato che bacchetta il Sud.

Due. Non è vero che tanti soldi passano dal Nord al Sud, quindi . E’ vero che ogni anno 50 miliardi scendono dal Nord al Sud, ma non da un territorio all’altro, bensì da chi più può a chi meno può: come in tutti gli Stati civili moderni. Passano anche dall’industriale all’operaio lombardo (sempre che l’industriale dichiari più dell’operaio). Ma poi la Banca d’Italia rivela che ogni anno tornano dal Sud al Nord 70 miliardi per prodotti e servizi del Nord acquistati dai meridionali. Quindi Sud in credito di 20 miliardi l’anno.

Tre. Non è vero che il federalismo fiscale costringa alla responsabilità: chi spende male e troppo, è giudicato dai suoi cittadini e non più rieletto. Un sindaco può spendere male al secondo mandato quando non è rieleggibile e quindi fregarsene. Ma due capisaldi del federalismo municipale sono la tassa sulla seconda casa e la tassa di soggiorno. La seconda casa ce l’ha in genere chi viene da fuori. E anche la tassa di soggiorno la paga il non residente. Entrambi cioè non votano lì. E quanto alla responsabilità, una cosa è sprecare, un’altra è dover spendere se troppe sono le necessità della gente, come normalmente avviene al Sud. E infine in Italia non si è mai visto (purtroppo) nessuno cacciato per eccesso di spesa più che di risparmio.

Quattro. Non è vero che il federalismo non farà aumentare le tasse e la spesa. Con meno di fondi da parte dello Stato, i Comuni dovranno aumentare le loro tasse. Però lo Stato dovrebbe diminuire le sue. Ma chi pagherà i 70 miliardi l’anno di soli interessi sul debito pubblico? E come potrà rinunciare a parte delle sue entrate uno Stato schiacciato dal peso di due Camere uguali, di quattro Polizie, delle Province, di un numero infinito di Authority (dalla concorrenza alla trasparenza), di quattro sistemi giudiziari (civile, penale, Tar, Consiglio di Stato), di migliaia di enti inutili, delle casse integrazione, del buco pensionistico? E quanti dipendenti pubblici passeranno dallo Stato alle Regioni e ai Comuni, distribuendo le funzioni invece di raddoppiarle?

Cinque. Non è vero che il divario fra Sud e Nord ( meno 33% di reddito, meno 30% di infrastrutture, il triplo della disoccupazione) potrà essere compensato dal fondo di perequazione. Nessuno ha finora saputo di quanto sarà. E se la perequazione non ha funzionato finora, figuriamoci dopo. Nessuno conosce neanche quanti saranno gli investimenti in infrastrutture al Sud. E il federalismo fiscale non può partire da basi così diseguali, i ricchi saranno sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.

Sei. Non è vero che lo Stato spenda più al Sud. E che se il Sud nonostante questo non è cresciuto, sono problemi suoi ma ora basta. Cliccare su Internet, ministero di Tremonti: spesa dello Stato più al Nord che al Sud, cioè l’anti-perequazione. E dal governo Amato in poi, mai rispettata la percentuale stabilita del 45% della spesa al Sud, non andata oltre il 36-37 per cento.

Sette. Non è vero che i sono il mezzo per evitare che una siringa costi 5 in Lombardia e 10 al Sud. I costi li fa il mercato. E possono dipendere dalla quantità di siringhe acquistate, dai fornitori, dal sistema di pagamento, dall’efficienza dei trasporti. Se ci sono abusi, li giudica la magistratura non un piano di tipo sovietico che fissa i prezzi per tutti.

Sette. Detto questo, non è vero che il federalismo fiscale risolverebbe tutti i problemi italiani. Risolverebbe al massimo quelli del Nord. Appunto.
 
Viva il Federalismo.

Federalismo dal Sud. Proposta al Nord


di LINO PATRUNO
Dunque il presidente lombardo Formigoni ha detto basta. La sua Regione è stanca di pagare al resto del Paese e vuole un federalismo vero. Risposta generica a chi gli chiedeva quale sia questo federalismo vero. Forse quello tipo <i soldi nostri ce li teniamo noi>. O, come dicono i leghisti, <noi vogliamo solo portarci a casa il federalismo>. Portarci a casa, molto chiaro. Un riforma spacciata nell’interesse di tutto il Paese. Anzi, dirò di più, soprattutto del Sud. Se la portano a casa loro.

Formigoni, che è persona civile, ha spiegato l’ultimatum: per la prima volta dal 1995 è diminuito il reddito delle famiglie in Italia. Quindi sono necessarie meno tasse, altrimenti si vivrebbe sempre peggio. Per la legge della logica, federalismo significa quindi meno tasse.

Vero per vero, federalismo significa invero un’altra cosa: ciascuno si tiene le sue tasse sul suo territorio, e lo Stato si prende solo la piccola parte per i servizi a suo carico, diciamo sicurezza, giustizia e dintorni. Invece questo federalismo è falso perché lo Stato rinuncia a poco del suo ma riduce di molto quanto versa ora ai territori. E i territori devono ricorrere a loro nuove tasse per avere gli stessi servizi, stante la riduzione del versamento dello Stato. Per la legge della logica, il risultato è l’aumento delle tasse.

Ma in questo federalismo fin troppo fiscale, nel senso di senza limiti per il fisco, senza risposta è la principale domanda: chi paga il debito pubblico, il terzo al mondo. Che ogni anno costa 80 miliardi in soli interessi. Ecco perché lo Stato non può rinunciare al suo. Ma quelli che vogliono portare <il federalismo a casa> hanno sempre fatto finta di niente. Anzi dicono che vogliono tenersi <i loro soldi>.

Allora, visto quanto ci tengono al federalismo (ma nell’interesse del Sud, sia chiaro) facciamo una proposta. Loro che lo spasimano, insomma il Nord, si paghino una tassa patrimoniale con la quale si dimezza il debito. Dopo di che tutte le Regioni siano a statuto speciale, tipo Sicilia e Val d’Aosta, che trattengono quasi tutte le loro tasse. Così lo Stato non avrà più bisogno di conservare le sue, almeno all’attuale livello, cioè il più alto d’Europa. Solo così il federalismo sarà più vero. E non significherà aumento delle tasse.

Ovvio che ci vorrà sempre il fondo di perequazione a favore delle regioni che partono in svantaggio. Quel fondo del quale i prodi Bossi e compagni non parlano. E sul quale un Sud con gli attributi non dovrebbe farsi beffare. Perché è troppo comodo aver creato in 150 anni gli attuali divari e poi dire: bene, da ora in poi chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, facciamo il federalismo e ciascuno per conto suo.

Graziamo Formigoni di qualche cifra interessante, ma già nota a queste colonne. Se dai più ricchi ai meno ricchi scendono ogni anno 50 miliardi, dai meno ricchi ai più ricchi salgono ogni anno 70 miliardi in loro prodotti e servizi acquistati. Ecco perché vogliono il federalismo e non la secessione, mica fessi. E lasciamo stare anche il dato della Banca d’Italia (prego accedere in Internet) sul debito delle amministrazioni locali nel novembre 2010: Nord 48 milioni di euro, Sud più isole 34 milioni. Ma a responsabilizzarsi a spendere meno deve essere il Sud. E lasciamo stare i soldi della sanità, che vanno più al Nord che al Sud perché lassù hanno più vecchi: i giovani sono pregati di non prendersi mai il raffreddore. E lasciamo stare la spesa dello Stato, sorpresa: maggiore al Nord che al Sud, cioè di più dove serve meno (prego accedere in Internet, ministero di Tremonti).

E però, federalismo o no, non può continuare così. Con l’Italia unita ma mai disunita da un divario simile. Allora c’è il piano per il Sud. Non il primo e chissà se l’ultimo. Centomila miliardi, diventati 70 mila perché una fetta se ne è già andata al Nord per le multe dei lattai leghisti e compagnia bella. Soldi non nuovi ma messi insieme perché non spesi, soprattutto perché comparivano e scomparivano, il Sud li chiedeva e il governo non li dava. E ora da spendere come dice il governo, perché voi Regioni meridionali non ne siete capaci. Federalismo statale. E per grandi progetti, basta con queste spese un po’ qui un po’ lì e alla fine non cambia niente.

Mettiamo: l’alta velocità ferroviaria Napoli-Bari. Mettiamo la superstrada jonica che unisca finalmente Puglia, Basilicata e Calabria, scientificamente divise dovesse funzionare insieme un Sud i cui confini furono disegnati dai prefetti sabaudi soprattutto per indebolirlo. Ma se dicono che le opere sono immediatamente cantierizzabili, si aprano domani i cantieri, senza far passare l’anno e mezzo passato dall’ultima volta. E magari, un Sud con gli attributi si faccia sentire al di là di centrodestra o centrosinistra. Altrimenti ha ragione Formigoni: si tenga il federalismo, rimanga Sud e ora davvero basta, ché lorsignori si sono rotti.
 
Un fiore per tutti nell’Italia unita

Un fiore per tutti nell’Italia unita

di LINO PATRUNO

Non si sa come andrà a finire, ma è avvenuto. Per la prima volta nella storia d’Italia, una popolare trasmissione televisiva come “Porta a porta” ha invitato a parteciparvi il Movimento neoborbonico. Che aveva chiesto il diritto di replica dopo la cavalcata patriottica di Benigni al festival di Sanremo. Poi la guerra civile libica ha fatto rinviare la puntata.

Ora, dire Neoborbonici non è dire una cosa qualsiasi. Forse è più facile che il diavolo in persona sia invitato in una chiesa, che il nome “neoborbonico” sia pronunciato: è più bestemmia questa. Se si vuole trovare un aggettivo sgradevole e unanimemente condannato, eccolo: borbonico. Per dire inetto. inefficiente, arretrato, cialtronesco. Leggi borboniche. Burocrazia borbonica. Comportamento borbonico. Per finire alla polizia borbonica o alle carceri borboniche. L’Impero del Male. Lasciamo stare l’inviato di Cavour che, sceso a Napoli come all’inferno, poi disse: ci conviene imitarla, questa amministrazione borbonica. E lasciamo stare tutto il corredo di “viva o’ rre”, di bandiere gigliate, di rievocazioni gloriose. Sia pure in un Paese in cui c’è una Lega Nord il cui statuto all’articolo uno dichiara: il nostro obiettivo è la secessione.

E cui si concede non solo di pulirsi il didietro col tricolore, ma di essere forza determinante al governo di un Paese che dichiaratamente vuole spaccare.


Ma “neoborbonico” non si può dire. Nostalgici, passatisti, patetici. Una vergogna da tenere chiusa in una stanza come nei film dell’orrore. E completamente cancellata dalla storia. Premettiamo: dei Borbone ci può interessare tanto quanto. Così come della polemica se da loro si stesse meglio o peggio, in un secolo in cui non è che abbondassero Stati campioni del benessere o personaggi campioni di democrazia. Lasciamo stare la polemica su chi fosse più ricco. E lasciamo stare la verità storica che i Borbone non è che avessero minacciato nessuno, anzi si videro i garibaldini in casa senza una dichiarazione di guerra e senza che avessero mai detto: no, l’Italia non la vogliamo. Anzi si trattava, e neanche segretamente, per farla insieme e federale. Ma mentre si trattava, qualcuno sparò. Diciamo che la storia si fa anche così. E che un’Italia disunita non avrebbe fatto grandi passi in avanti.

Lasciamo stare tutto. Ma la memoria è un’altra cosa. E non si può negare a nessuno. E nessun Paese che si voglia definire Paese, e unito per giunta, può permettersi di tener fuori una parte della sua storia. E non farne i conti. Negli Stati Uniti si è combattuta, e contemporaneamente al Risorgimento, la più atroce guerra civile del mondo occidentale a parte il genocidio dei nativi, gli “indiani” dei film western. Ma hanno riconosciuto le ragioni dei perdenti e la loro festa nazionale la festeggiano tutti insieme. Così la Francia con la sua Rivoluzione. E la Germania. E la Spagna. E l’Inghilterra dopo i Puritani di Cromwell. E la stessa federale Svizzera, nata da un massacro fra i Cantoni. Ma anche in Italia si comincia a riconoscere pari dignità ai morti di Salò, che stavano dalla parte sbagliata ma chi combatte va rispettato perché combatte e basta.

Non un ricordo, non una lapide, non un cenno sui libri di scuola, non un fiore per i meridionali che morirono per la loro terra. E non c’entrano neanche i briganti, che vennero dopo e sono altra cosa. Ci possono essere morti di serie A e morti di serie B? E’ vero che si cominciò a criticare il Risorgimento nel momento stesso in cui lo si faceva. Ma poi c’è anche un Risorgimento tradito che 150 anni dopo si legge ovunque nel Sud, e non solo nei numeri del divario.

Tutto questo anima i, pardon, Neoborbonici, e gli altri movimenti meridionali, le cui voglie di secessione non sono neanche lontanamente paragonabili a quelle della Lega Nord.

E che comunque buttare come polvere sotto il tappeto non serve a nessuno. Perché sono molti, e appassionati, e convinti fino alla commozione. Da capire più che demonizzare, perché rappresentano anch’essi un Sud tenuto sempre ai margini dal resto del Paese, fuori dall’Italia unita che va a festeggiare se stessa peraltro nella più grande disunità possibile.

Se questo è oscurantismo neoborbonico, si dica pure. Chissà se è neoborbonico chi si attende che, quando un capo del governo si alza al mattino, la prima cosa che faccia è guardare una cartina e vedere dove nel Sud manca un’autostrada o un binario. E agire.

Guardare la cartina e vedere dove i giovani non hanno lavoro e sono una generazione perduta. Guardare la cartina e vedere dove la criminalità è più forte dello Stato che non c’è. Tutti i capi dei governi, da 150 anni, avrebbero dovuto e, a conti fatti, non l’hanno fatto.

Obiezione: ma proprio ora dobbiamo parlarne, ora che dobbiamo invece riscoprire le ragioni dello stare insieme in questo Paese? Appunto, il problema è stare insieme, e come. E poi, se non ora, quando?
 
L'invitato che manca alla festa di compleanno

Il minimo che ci si potesse aspettare erano le città impettite di festoni e coccarde.

Vetrine in gara tricolore fra loro. Bande squillanti di Mameli. Cortei di commozione collettiva. Abbracci, lacrime e clacson. Ma avrebbe dovuto vincere la Nazionale di calcio. Invece questo 17 marzo 2011 dei 150 anni dell’Unità d’Italia non è né Cassano néBuffon. E molto meno di un qualsiasi san Silvestro col conto alla rovescia, lo spumante, le trombette e il trenino della samba.

Non una bandiera in più in questa vigilia. E nessuno che abbia neanche pensato a mandare in tintoria quelle annerite e sfilacciate che c’erano.

Anzi il grande anniversario, più che celebrato, è vilipeso. A Verona bruciano un Garibaldi come “Eroe degli immondi”. Tre ministri che hanno giurato fedeltà al Paese vo*tano contro la ricorrenza del Paese. Il presidente della Provincia di Bolzano avrà da fare altro. Il presidente Berlusconi mette nel taschino il fazzolettino verde della Lega Nord. La quale proprio in questi giorni provvede a cancellare l’Italia unita disunendola col federalismo. Addio .

Ma non era andata meglio per i 50 anni. E nemmeno per i cento. A conferma di un Paese fondato sulle tre “guerre civili” del 1799, del Risorgimento, della Resistenza. E ora nella quarta della rissa continua del tutti contro tutti. E del resto anche la Costituzione, che pur ogni tanto dovremmo ripassare, parla una sola volta di “patria” all’articolo 52. Né i padri di questa patria erano da meno. Cavour monarchico. Mazzini repubblicano. Cattaneo federalista laico. Gioberti federalista cattolico. Non ci fosse stato il mangiapreti Garibaldi, ora starebbero ancora a odiarsi e litigare. Un’Italia unita mezza morta di parto.

Siamo una storia e una geografia. Una lingua e un pater-ave-gloria. Cultura, bellezze, inventiva. Meno una nazione. E tantomeno uno Stato. Col complesso di superiorità per il nostro passato, dall’impero romano al rinascimento, e il complesso di inferiorità dei nobili decaduti. E gli “Stati e staterelli” che già facevano arrabbiare Machiavelli e Guicciardini. E “cento città” per dodici secoli divise. Anzi con i loro quartieri e le loro contrade che ancora si menano. Latita la solidarietà collettiva, il sentimento dei sacrifici compiuti e di quelli da compiere ancora insieme. Latita la passione di continuare a vivere gli uni con gli altri. Quella che il sociologo francese Ernest Renan definiva “il plebiscito di ogni giorno”, la conferma quotidiana di un comune cammino.

Eppure in 150 anni siamo entrati fra i dieci Paesi più sviluppati del mondo. Abbiamo libertà e democrazia, anche se scomposte e urlate. Una modernità ancorché sempre piena di arretratezze. Ma ci pesa addosso uno Stato inefficiente e costoso. Ci pesa addosso il 40 per cento della ricchezza nazionale in mano al 10 per cento della popolazione. Ci pesa addosso un divario territoriale che dovrebbe far vergognare i Cavour e i Garibaldi. Perché con questo anniversario chi può dire davvero di c’entrarci poco è il Sud.

Non si può parlare di Italia unita se il treno da Bari a Milano ci mette 12 ore, da Bari a Napoli cinque, da Catania a Palermo quattro, con tutta l’alta velocità al Nord. Non si può parlare di Italia unita se al Sud ci sono mille chilometri di ferrovie in meno del 1938, se il 70 per cento delle linee non è elettrificato, se il doppio binario è un lusso, se Matera continua a essere l’unica città italiana senza ferrovie dello Stato, se i treni puliti sono una pretesa stravagante e i bagni non otturati una eventualità. Non si può parlare di Italia unita se al Sud le autostrade sono a due corsie e non a tre, non hanno l’asfalto autodrenante e si fermano molto prima dei centri da raggiungere. Non si può parlare di Italia unita se al Sud con più mare ci sono meno porti che al Nord e gli aerei hanno orari impossibili. Non si può parlare di Italia unita se al Sud c’e il triplo delle interruzioni per l’acqua, il triplo per l’energia elettrica e occorre il triplo del tempo per avviare un’attività. Non si può parlare di Italia unita se tutte le ricche fondazioni bancarie sono al Nord. Non si può parlare di Italia unita se l’Istituto italiano di tecnologia è a Genova, l’Agenzia per l’innovazione a Milano, l′Agenzia per la sicurezza alimentare a Parma, la conferenza del Mediterraneo a Milano.

Soprattutto non si può parlare di Italia unita se, a parità di condizioni, al Nord si guadagna 100 e al Sud meno di 70. Se al Sud c’e una disoccupazione tripla e un giovane su tre non ha lavoro. Non si può parlare di Italia unita se le famiglie povere del Sud sono il doppio. Non si può parlare di Italia unita se questo divario in 150 anni si è allargato tanto da costringere ancora i giovani del Sud a partire: l’emigrazione. Quando i giovani del Sud non dovranno andare più via come rondini tristi, allora anche il Sud dirà viva l’Italia.

Lino Patruno


La butto là. Quanti di voi hanno uno stabilizzatore automatico di tensione collegato al PC? Io non ce l'avevo, confidavo nell'Enel. L'Enel mi ha tradito e ci ho rimesso la scheda madre.
D'altronde ho più probabilità che un black out di energia mi provochi danni, di quanti ne abbia un mio connazionale che abita sopra il Tronto.


Vicino al mio balcone la bandiera italiana è legata da 9 mesi.
 
Un matrimonio senza conoscere la sposa

Ma guarda: Milano, Monza, Parma, Imperia, Siena, Pescara, Lodi, Padova, Mantova, Brescia. E’ la classifica delle città che più ci guadagneranno col federalismo fiscale. Pescara stia attenta, potrebbero espellerla come spia. Tutto Centro Nord, anzi più Nord che Centro. Sistema rapido per confermare il ritornello di Bossi: i soldi nostri ce li teniamo noi. Le città che più ci perderanno? Napoli, Cosenza, Taranto, L’Aquila, Foggia, Brindisi, Salerno. Tutte Sud, tranne L’Aquila, altra intrusa. Sono dati degli Artigiani di Mestre, non meridionali.

Commento (loro): ovvio che sia così, quelle città sono meglio amministrate. Ma a nessuno, meno che mai ai politici del Sud, che salti in mente un’obiezione. Essendo più ricche, hanno entrate più ricche. Magari sono meglio amministrate, compresa la Milano di Tangentopoli, degli assessori arrestati con le bustarelle in tasca, degli scandali finanziari, dei soldi della ‘ndrangheta che non dispiacciono, degli sprechi e della guerra per bande dell’Expo 2015. Ma essere più ricchi significa avere più asili, più assistenza agli anziani, più bus. Vivere meglio.

Situazione col federalismo fiscale: meno trasferimenti (soldi) dallo Stato alle città. Con quelle più ricche sempre più ricche e quelle più povere sempre più povere. Allora quelle più povere, per non chiudere gli asili e non abbandonare gli anziani, dovranno aumentare le tasse, tranne che non sia cambiata l’aritmetica. E con l’evasione che c’è, le tasse in più le pagano i soliti lavoratori dipendenti e i soliti pensionati.

Va bene, aumentano le tasse locali, ma diminuiscono quelle nazionali, di che vi lamentate? No, di questo nessuno ha finora parlato nel Paese più tassato d’Europa e con i servizi pubblici peggiori d’Europa. Ai politici meridionali non è venuta mai la curiosità di chiederlo. Perché non può ridurre le sue tasse uno Stato col terzo debito del mondo, e con 80 miliardi di interessi da pagare ogni anno. E uno Stato che, nonostante i proclami, continua ogni anno ad aumentare la sua spesa invece di diminuirla. Tranne poi accusare i sindaci (soprattutto del Sud, ovvio) di essere spendaccioni, ma ora il federalismo li costringerà alla responsabilità. Piccolo particolare tra parentesi. Bossi vuol tenersi i suoi soldi, perché Roma Ladrona glieli toglierebbe andando a spenderli al Sud. Falso: la spesa pubblica è maggiore al Nord. Quindi quand’anche glieli togliesse, glieli restituisce uno dietro l’altro (controllare su Internet, ministero del Tesoro). E se il Nord cede ogni anno 50 miliardi dei suoi soldi, dal Sud al Nord ne salgono ogni anno 96, in acquisto di prodotti e servizi del Nord (tipo ricoveri nei loro ospedali), in ragazzi che emigrano con la laurea pagata dai loro genitori al Sud.

Conclusione: federalismo uguale più tasse. E più a Sud, ovviamente. Proprio quel Sud che Bossi e i «bossoidi» dicono di voler avvantaggiare. Però federalismo uguale anche più spesa. La Spagna federale ha raddoppiato i suoi dipendenti. Ma basta vedere cosa è avvenuto in Italia con le Regioni. E scommessa: se alcune funzioni passeranno dallo Stato agli enti locali, ci sarà un dipendente che vorrà trasferirsi senza promozione, buonuscita, vertenza, danno biologico? Ma allora, occorre capire cosa è questo federalismo. Non è la madre di tutte le riforme che finalmente modernizzerà l’Italia e risolverà il problema del minore sviluppo del Sud. Non è insomma ciò che dice col sorrisetto razzista il “lumbard” Salvini, quello che “i napoletani puzzano”. E’ una riforma fiscale col principio contrario a quello costituzionale della progressività delle imposte: pagherà più tasse chi meno ha (il Sud), ne pagherà di meno chi più ha (il Nord, ma non se ne stia anch’esso così tranquillo).

Tutti si sono innamorati della parola “federalismo” come un tempo si combinavano i matrimoni senza conoscere lo sposo o la sposa. Essere contrari al federalismo sembrava ammettere di avere l’alito pesante. E così i politici del Sud dichiarano, per carità, di non aver paura del federalismo. Ma anche gli industriali, i sindacati, gli intellettuali, tanto per capirci quando si parla di classe dirigente meridionale. Però lo vogliono “equo e solidale”, cioè partire dalle stesse condizioni, o quasi. Allora si vedrà davvero chi sarà più capace.

Pronto consenso della Lega Nord. E ci mancherebbe, si venderebbero le sorelle pur di fare il secondo colpo della storia (dopo l’Unità d’Italia tutta a loro vantaggio). Ci sarà un fondo di perequazione per consentire al Sud di diminuire o azzerare il divario col Centro Nord. Bene, dov’è, quant’è, com’è? Ricerche finora tutte vane, quand’anche siano state fatte. Nessuno ne sa nulla, né c’è un onorevole sudista che sia andato a chiederlo. Ma il federalismo è bello, ce lo prendiamo a scatola chiusa come abbiamo sempre fatto in 150 anni. Ce lo prendiamo proprio.

Lino Patruno
 
Mi si chiede perché al Sud manchiamo di senso civico. Potrei rispondere: "Non è vero". Nel mio borgo la differenziata è al 65%. Ma poi guardo le macchine parcheggiate sui marciapiedi, il non rispetto dei passi carrabili, gli abusi edilizi che sono diventati norma, insomma il non rispetto delle regole, l'assenza del cosiddetto "senso civico". Ed allora faccio mia questa spiegazione:

"Il tessuto civile del Sud fu lacerato da una
guerra di invasione e occupazione. Ma questo è accaduto anche ad altri paesi che poi
si sono ricomposti (chi più, chi meno), col tempo. Mentre, al Meridione, il paese unito
ha applicato discriminazioni, ostacoli, pesi, perché restasse nello stato di minorità;
nella condizione, è stato detto, del malato «che non muore e non guarisce».
Ma queste cose, pur note, paiono ancora insufficienti a spiegare il disfacimento
dell'ordine civile che si riscontra in larghe zone del Mezzogiorno
, dove il senso di
comunità si restringe al paese, al clan familiare, magari mafioso (fenomeno che dopo
l'Unità assume dimensioni e potere mai avuti).

Non si sono, stranamente, mai valutate le conseguenze del danno più grave
procurato al Sud dall'invasione e dall'ultrasecolare politica discriminatoria:
la perdita
dei padri
. Centinaia di migliaia ne furono uccisi, perché resistenti o solo
fastidiosamente esistenti. Ma questo capita in tutte le guerre, poi la saggezza della
demografia naturale rimette le cose a posto. Nel Mezzogiorno è successo che, dopo la
strage, l'unica via lasciata ai meridionali fu la fuga e, in un secolo (ovvero, per tre
generazioni di seguito) i padri furono costretti a emigrare, a milioni, senza contare le
altre centinaia di migliaia ingoiati da due guerre mondiali e da quelle coloniali.
Non era mai accaduto. Il Sud aveva sempre avuto visibili i suoi punti di riferimento
in famiglia e fuori. Non importa, qui, se arretrati o no, belli o brutti; importa che erano
forti e presenti e che questo durava da un tempo così lungo da poter essere ritenuto
immutabile. Il Mezzogiorno poteva apparire ed essere una società ancorata a valori
antichi (ancor oggi, in parte, lo è. Questo non costituisce ostacolo allo sviluppo, alla
modernità: il Giappone, l'India, la Cina ne sono esempi). Per quanto male stessero i
più disgraziati, ritenevano ancora più conveniente restare che andarsene; al contrario
di quanto avveniva nelle regioni settentrionali.

Una società esiste finché ha (ma più corretto sarebbe dire: è) un codice morale,
etico, da confrontare con altri. Troia non è morta se anche uno solo, Enea, può
piantare altrove il seme della sua civiltà e riprodurla. Un sistema sociale resta integro,
se si salvano non le sue dimensioni, ma i suoi valori e le capacità di trasmetterli; come
una cellula; e una può bastare: per questo Enea è un mondo; mentre un milione di
uomini senza più radici e memoria, no. Egli è un'idea del bene e del male, conosce il
peso da dare agli altri, ai loro pensieri, ai loro bisogni; è la disposizione ad avere la
porta di casa aperta o chiusa, a seconda di come sia inteso il vicino; è il dispensatore
della giusta quantità e qualità di buona creanza; è quanto si apprende e trasmette senza
nemmeno la coscienza di farlo, stando in famiglia; è quello per cui si ritiene di valere
e di potersi confrontare con gli altri. «Ora so tutto», dice ai Proci il figlio di Ulisse,
Telemaco, quando si accorge di essere ormai un uomo e del motivo per cui finalmente
lo è: «Il bene giudico, e il male». E lo ha fatto senza il padre, ma grazie a quello che,di Ulisse, ha resistito alla sua prolungata assenza. Un sistema sociale può sopportare
molte mutilazioni e restare se stesso. Ma se queste stramano la comunità,
interrompono il ciclo delle generazioni, tolgono gli esempi alle nuove e gliene danno
di incompatibili, un ordine si perde; e non sempre un altro ne viene suggerito
(o, se
proposto, accettato).
In famiglia e in società, i padri sono la legge, i custodi delle regole uguali per tutti;
le madri sono l'amore, il motore dell'eccezione a favore dei propri figli,
e questo le
rende più disposte a porne le richieste al di sopra di tutto, «anche quando esse sono
contrarie alla legge e ai principi» scrive Mario Alcaro {Sull'identità meridionale). Il
padre deve garantire la società pure a spese della sua casa; la madre deve garantire la
sua casa anche a spese della società.
Questa distinzione di ruoli è all'origine e alla
base della nostra civiltà patriarcale. Lo apprendo, sintetizzando, soprattutto dal mai
troppo lodato libro di Luigi Zoja sulla paternità, Il gesto di Ettore (nell'edizione in
inglese, il titolo è, semplicemente: The Father, Il padre). Se l'autorità dei padri
s'indebolisce, il sistema delle regole che regge la comunità si sfilaccia, perché viene a
mancare il guardiano dei limiti di comportamento
(civile, per la civiltà data, sia quella
dei ca valieri mongoli o dei pescatori di perle del Pacifico). Quindi: «Ogni perdita di
paternità è perdita di civiltà»
dice Zoja. È vero persino oggi, con padri presenti, ma
ruolo affievolito; figurarsi in una società che vede abbattuti da un invasore i suoi
riferimenti istituzionali, legali, familiari e vede i suoi padri sbagliare, sia se si
oppongono, sia se si adeguano; e poi, per un secolo, i padri manco li vede, perché se
ne vanno.

L'emorragia fu così violenta che sorse un serio problema demografico: il
Meridione divenne un popolo a prevalenza femminile. E il sistema delle regole virò
verso quello matriarcale:
è giusto, se a favore dei miei figli, pur se a danno della
comunità
(in questo si vede una ragione del successo della mafia, la cui radice è
femminile: a dispetto del suo machismo, il mafioso è figlio dell'eccezione materna,
non della legge paterna).
Friedrich Vochting riassume diverse inchieste sull'argomento (Faina, Arias,
Marcozzi): «Venne ovviamente a soffrirne anche la morale. In certi comuni degli
Abruzzi (dove furono condotte indagini specifiche; nda), secondo fonti degne di fede,
sembra che solo un ventesimo di tutte le donne e le fanciulle si siano mantenute caste.
Non soltanto si moltiplicavano le accuse di adulterio; ci si doveva render conto di
come il senso - così suscettibile nella generazione più vecchia - per l'onore coniugale
e familiare, per difendere il quale si era ricorsi anche alla rivoltella e al pugnale, fosse
rilassato e spesso quasi distrutto, per la lunga assenza degli uomini».
Vito Teti (La razza maledetta) cita lo studio di Lionello De Nobili che, «partendo
dalle relazioni e dalle condanne dei pretori calabresi, collega l'aumento dei delitti
contro il "buon costume" e "l'onore della famiglia", che vedono spesso come
protagoniste le donne, al fenomeno migratorio». In questo modo di vedere «vi furono
senza dubbio pregiudizi moralistici» osserva Ercole Sori, in L'emigrazione italiana
dall'Unità alla seconda guerra mondiale, che «si appuntarono soprattutto sulla
famiglia, luogo sociale ove potevano essere meglio misurati gli effetti disgregatori
dell'emigrazione di massa. I segni sembravano espliciti: diffusione del fenomeno dei
"due focolari", uno al paese e l'altro all'estero; scomparsa di mariti lungo le tortuose
strade dell'emigrazione; aumento delle separazioni coniugali; crescita dell'"ozio" e
dell'infedeltà coniugale delle "vedove bianche", che nella lotta contro la maldicenza
dei vicini facevano innalzare gli indici giudiziari di litigiosità; diffusione della sifilide,
importata dagli emigranti; precoce emancipazione, fino al limite dell'insubordinazione
e dell'allentamento dei "freni morali" dei figli».E se, anche, in alcuni casi, «nasce una nuova morale, al cui centro c'è una famiglia rinsaldata dall'emigrazione», corruzione della donna (e, di conseguenza, della famiglia) ed emigrazione parevano intrecciarsi e autoalimentarsi. E così, «la
moltiplicazione degli adulteri, delle nascite illegittime e degli aborti imputati agli
espatri maschili» riferisce Andreina De Clementi, Di qua e di là dall'oceano. (Posso
pregarvi di ricordarlo, quando parlerò della teoria delle finestre rotte) Grazie.)
«Specie nel primo quindicennio del secolo (scorso; nda) gli uomini furono quasi
sempre assenti. Il Meridione continentale dovette sopportare un drenaggio senza
uguali di maschi adulti.» Il che «non poteva non mettere a soqquadro l'intero assetto
economico-sociale». Ci si sposava civilmente, il marito emigrava con la dote della
moglie e, quando tornava con "i soldi fatti", ci si sposava in chiesa e si consumava il
matrimonio. In Calabria, le famiglie "acefale" erano una su tre.

Terroni di Pino Aprile
 
Togliamo la maionese da questa Unità

di LINO PATRUNO

Ha ragione il presidente Napolitano: esistono non cinque, quattro, tre Italie ma una Italia. E’ d’accordo soprattutto il Sud. Perché nessuno come il Sud vuole l’unità, come capita a chi desidera ciò che non ha. Importa meno, e in questi giorni si è visto, al Nord chi quell’unità la fece. Il Nord che ora disfa ciò che 150 anni fa impose col ferro e col fuoco al Sud. Patriottismo e interessi di poteri forti allora. Solo interessi di poteri forti oggi. Che come sempre abusano a danno degli altri. Eppure il Risorgimento è stato la seconda grande storia italiana dopo il Rinascimento. E non saremmo fra i dieci Paesi più ricchi del mondo se fossimo rimasti divisi.

Ma ora fra le valli alpine c’è qualche furbetto del quartierino che vuole tenersi il suo dopo essersi preso il Sud. Contraddicendo il “nuovo cemento unitario” invocato dal presidente. Come in una famiglia non possono esserci figli e figliastri, così in un Paese non possono esserci privilegiati e danneggiati. E’ proprio la giustizia che i Mille di Garibaldi dissero di venire a portare al Sud da “liberare” dall’oppressione.

Tutto dimenticato 150 anni dopo sull’altare di nuovo dell’arroganza di un pezzo d’Italia verso l’altro. L’arroganza di un pezzo d’Italia che dal 18 marzo 1861 ha tanto schiacciato l’altro da avere oggi un’Italia unita disunita da un divario economico senza pari in Occidente. Il contrario delle “cieche partigianerie” e delle “risposte collettive” invocate dal capo dello Stato. Neanche questa occasione è stata colta nel Paese per raccontare verità che avrebbero potuto finalmente pacificarlo. Invece la mancata rivoluzione evangelica della verità ha acuito lo scontro con la Lega Nord che non festeggia perché vuole sempre di più. La cappa della retorica ha ancòra una volta annebbiato tutto. Retorica come la maionese che si mette sul pesce per nascondere che non è fresco. Una salsina. Che esaspera invece di rasserenare.

Gli storici dovrebbero finalmente dire ciò che sanno e non dicono. Dovrebbero finalmente dire che l’Italia da unire fu unita con una fretta tale da non andare troppo per il sottile verso un Sud che era quasi metà della penisola e metà della popolazione. E dovrebbero finalmente dire che l’urgenza di uno sviluppo avviato già da tempo negli altri Stati europei fece scegliere di concentrare quello sviluppo al Nord. Ma il Nord che si rimpolpava significò il Sud che si spolpava. Ci fu molta superficialità, molta spocchia, molta malafede. Si può anche comprendere sia pure a fatica tutto ciò. Ma non si può tollerare che lo si deformi attribuendo al Sud inferiorità genetiche da selvaggi, come si fece allora e come qualche disturbato mentale fa ancòra oggi.

Ora, le industrie sono come i soldi di cui parlava Eduardo De Filippo: hanno voce, si chiamano fra di loro, insomma si fa soldi dove già ci sono soldi. Le industrie vanno dove già ce ne sono altre. E’ l’effetto palla di neve: più rotola lungo il pendìo, più si ingrossa. E come dove c’è sviluppo si crea il meccanismo automatico di un ulteriore sviluppo, così dove c’è sottosviluppo si crea il meccanismo automatico di un ulteriore sottosviluppo. Dal quale è impossibile uscire se non rovesciando il tavolo, come sanno i Paesi colonizzati. E come i Paesi colonizzati dipendono dalla benevolenza dei colonizzatori e dalla beneficenza chic in visone, così le aree in ritardo dipendono dalla assistenza dello Stato, cui li si condanna a tavolino.

Così è andata per il Mezzogiorno, altro che vizio di lamentarsi, di dipendere dagli altri, di parassiti senza spirito di iniziativa e senza voglia di lavorare. E’ il sistema rapido col quale le vittime vengono fatte passare per colpevoli. Vittime designate di un disegno che attribuiva al Sud l’agricoltura per tutti, il ruolo di grande mercato per i prodotti industriali del Nord, il privilegio di essere fornitore della manodopera a poco prezzo (l’emigrazione), l’omaggio di essere il serbatoio di voti in cambio di elemosina. Ciò che è avvenuto. E avviene. Questo non spiega però, dicono gli storici col nasino all’insù, perché il Sud non abbia avuto una forza in grado di denunciare e cambiare.

La responsabilità del Sud è aver lasciato fare. Le famose classi dirigenti meridionali hanno sempre barattato il consenso con i soldi pubblici: non disturbo se mi paghi il non disturbo. Anche questa è sudditanza che finisce per strisciare più che alzare la testa. E un trasformismo che Tomasi di Lampedusa capì bene quando disse che dopo i gattopardi sarebbero arrivati gli sciacalli, pronti a tutto pur di conservare il potere. Ma ora il Sud comincia a sapere. E Napolitano per primo vuole un Paese unito. Quest’anniversario ha fatto più bene che male al Sud perché ne ha riattizzato il fuoco sotterraneo. Intanto va avanti gloriosamente un secondo cattivo Risorgimento come il federalismo fiscale che vuole ripetere il sacco di allora. L’unità d’Italia fu fatta dagli occhi incantati dei giovani. Si spieghi tutto ai giovani di oggi, la scuola esca dalla sua maionese. Solo la verità può riaccendere quegli occhi incantati e rifare l’Italia.
 
Prenditi lo schiaffo e dimmi grazie

Cinque disoccupati di Vieste sono stati arrestati per vilipendio della bandiera italiana. O Dio, e allora perché è in libertà Bossi che la voleva usare come carta igienica? C’è un vilipendio nordista meno vilipendio di quello sudista? E perché non viene perseguita come eversiva e incostituzionale la Lega che per statuto vuole spaccare l’Italia? Perché è invece al governo del Paese che si propone di distruggere?

E chi la vota (meridionali inclusi) condivide il suo progetto di due Italie proprio mentre si celebra il compleanno di una sola?

Consueta risposta: la Lega mostra da tempo grande responsabilità, non facciamo polemiche sterili. In effetti la Lega ha, bontà sua, rinunciato alla secessione. Tanto una secessione c’è già: quella economica, quella che conta. Perché incasinarsi con una indipendenza che sotto sotto non le conviene? Anzi, visto che queste due Italie economiche ci sono già, e visto che tutti dicono che non c’è la secessione, tanto vale bloccare la situazione prima che qualcuno se ne accorga. Il federalismo: sistema rapido per far continuare a essere ricchi i ricchi e poveri i poveri. Anzi sempre più poveri i poveri, che senza nuove tasse dovranno andare a piedi perché non ci saranno più bus e lasciare i figli a casa perché non ci saranno più asili.

Però, questi meridionali, sempre a lamentarsi. Poi dice che li chiamano “cancro” del Paese (ministro Brunetta), “topi da derattizzare” (ministro Calderoli), “porci” (ministro Bossi), “puzzolenti” (europarlamentare Salvini). Anzi più glielo dicono più se ne sentono colpevoli, una pacchia. E invitano a pranzo chi li insulta, come a Roma. Metti ora, con la storia degli immigrati tunisini, altri meridionali della malora. Quel lord inglese di Bossi ha sentenziato: “Foeura di ball”. Fuori dalle balle. Anzi su Radio Padania che ha ripreso a trasmettere in Salento, un parlamentare leghista ha aggiunto: “Se li tengano siciliani e pugliesi, noi siamo occupati a lavorare”.

Siciliani e pugliesi non sono occupati a lavorare: vorrebbero. Anzi sono stati anch’essi tunisini e marocchini, emigrati che hanno arricchito il Nord. Ancòra oggi, regalati ogni anno 80 mila giovani laureati dal costo medio dell’istruzione di 100mila euro cadauno. Meridionali brava gente. Che però la smettano, ha scritto bacchettandoli come al solito un severo giornale di su, di dire che non hanno soldi: ne sono pieni. Tanto da sprecare milioni di soldi europei, anche se il giornale li definisce soldi “nostri”. Mah.

Solita tiritera, colorata di polemica politica perché non paia solo razzistica. Ogni anno buttate decine di milioni invece di spenderli. Magari pugliesi e campani, per dirne una, vorrebbero che la ferrovia Napoli-Bari fosse costruita con soldi nazionali, così come per la Milano-Torino, invece che con soldi europei. Però non lo dicono se no si lamentano sempre e poi devono anche invitare a pranzo per farsi perdonare. Dovrebbero dire che con gli sprechi occorrerebbe andare cauti in un Paese che per non far votare nello stesso giorno per le amministrative e il referendum antinucleare spreca 400 milioni di euro. Non lo dicono causa solito costo aggiuntivo del pranzo. Dovrebbero dire che i progetti con i fondi europei vanno finanziati anche con una quota di fondi nazionali e regionali mentre non c’è una lira. E dovrebbero dire che nessuno può tirare la prima pietra in un Paese col terzo debito pubblico del mondo e che invece di risparmiare ogni anno aumenta la spesa.

Per la verità, i meridionali lo ricordino, il Sud è pieno anche di soldi per le aree svantaggiate. Ma non è che possono stare a rinfacciare che li si utilizza per la cassa integrazione al Nord o per pagare le multe dei lattai padani: un po’ di generosità ci vuole. E poi non possono rischiare che per farsi perdonare della rapina subìta debbano offrire non solo il pranzo ma anche la cena.

Ma poi, che il Sud sia pieno di soldi, è vero, nessuno più del Nord lo sa. Mettiamo una casalinga meridionale che fa la spesa. Va con auto torinese, indossa abbigliamento veneto, ha scarpe marchigiane, preleva soldi in banca lombarda, acquista formaggio emiliano, vino toscano e olio con etichetta umbra anche se è pugliese. Ogni giorno il Sud acquista quasi il 90 per cento dei prodotti del Nord. E ogni anno il Sud passa al Nord 61 miliardi di euro ricevendone dal Nord solo 50.

Se il Sud comprasse solo Sud, Bossi diverrebbe un agnellino. E magari ci penserebbe sul federalismo del “ciascuno si tenga il suo” visto che non potrebbe più tenersi anche il “nostro” (nel senso del Sud). Ma il Sud è generoso anche di schiaffi che si dà da solo. Anzi è ammirevole l’atmosfera di pace pre-pasquale di questi giorni, con Bossi che ringrazia il Partito Democratico per avergli fatto passare il federalismo regionale. A dimostrazione che, quando si tratta di danneggiare il Sud, il Paese disunito si riunifica di nuovo. Pace e bene di Lino Patruno


Della mia classe del liceo siamo rientrati alla base dopo gli studi solo in due. Oggettivamente qui non si corre, e anche volendo correre, per andare dove? Una delle cose che mi ha spinto a fare il percorso inverso: la lentezza. Gli altri sono in giro per il Nord. A memoria, il primo della classe dirige un laboratorio di una casa farmaceutica ove si fanno ricerche sul fegato. Magari un giorno ci salverà una sua ricerca da un'epatite fulminante. Suo padre come il mio, ha investito la cifra stilata da Patruno per farci studiare (ancora in lire), lui con più profitto di me, claro, ma ci vuole davvero poco. Formato il ragazzo, se lo è accaparrato il Nord, anche perché se fosse restato in queste lande avrebbe fatto l'insegnante di scienze (era un grande il mio insegnante di biologia, chimica e geografia astronomica). Direte: "Al Nord c'è più possibilità di lavoro". Verissimo, ma non è stato sempre così. Prima del 1861, erano gli svizzeri che emigravano a Napoli.

"Dalle grandi città svizzere verso Sud

Se agli inizi degli anni Sessanta tanti cittadini dell'Italia del sud lasciano la propria terra spinti in Svizzera dalla speranza di una vita economicamente migliore, nel secolo precedente il Meridione d'Italia, e in particolare Napoli, rappresenta un vero e proprio Eden per tanti svizzeri.

Sono le città svizzere più importanti, come Ginevra, Neuchâtel, Zurigo e Friborgo ad alimentare il flusso migratorio verso il Mezzogiorno, dimostrando peraltro la grande capacità attrattiva della capitale borbonica tanto nei confronti dei germanofoni, quanto dei francofoni.

Gli svizzeri emigrano con diversi obiettivi personali, ma tutti mossi dalle prospettive di lavoro offerte dalla dinamica realtà partenopea. E emigrano numerosi, a tal punto che, verso la metà dell'Ottocento, nella capitale del Regno delle Due Sicilie quella svizzera era tra le più numerose comunità straniere presenti a Napoli.
"

da: http://www.swissinfo.ch/ita/Special..._La_pasta_Voiello_e_svizzera.html?cid=5584854
 
La domanda del Sud

La domanda del Sud
di Lino Patruno

Si, ma ora cosa facciamo? È la domanda puntuale dopo aver raccontato l’Unità d’Italia vista da Sud. E come il Risorgimento tradito abbia lasciato in eredità un divario col resto del Paese senza pari nel mondo occidentale.Perché la scena, piaccia o non piaccia ai puri e duri, è sempre la stessa. Inno nazionale mano al petto. A volte coccarde. Qualche altra invenzione tricolore, dagli addobbi alla torta. Fervore e al*legria_ Ma poi i presenti subito desiderosi di sentirsi dire il contrario di ciò che le premesse promettevano, come in un agguato alla festa. E cioè per*ché il Sud è stato sottomesso e violentato.

Con una tensione, uno sconcerto e bat*timani inaspettati per chi credeva al consueto fatalismo meridionale del «cosi deve andare», del tanto non cambia mai niente».

Cosi il Sud ha vissuto questi 150 anni con una doppia anima. Nessun altro ha festeggiato tanto. Ma nessuno ha tanto festeggiato con l’aria del processo. Una sorta di liberazione senza mai mettere in discussione l’Unità, ma mettendo in discussione le verità ufficiali e i libri scolastici reticenti e immutabili. Aperto però il dibattito, l’inesorabile domanda finale: si, ma ora cosa facciamo? Come a riprecipitare il Sud nella vec*chia schizofrenia della ribellione o della assue*fazione, del mi conviene e del non mi conviene. Il vecchio Sud dei briganti o emigranti, combattere o abbandonare.

Un Sud reduce dalla festa vuole soprattutto che qualcuno gliela vada a dire, che alzi la voce a sua difesa. Ma è lo stesso Sud che poi va allineato e coperto a votare come sempre, o al massimo non ci va, in mancanza di alternativa. E ogni famiglia un figlio o una figlia che cerca lavoro e non lo trova, se non sono già partiti e amen. E ciascuno a dire, ma come mai qui un cantiere pubblico lascia le strade piene di buche e al Nord no? E come mai qui devo aspettare tre mesi per una endoscopia mentre se vado su in due giorni me la fanno? Sono beffe al Sud, non sue colpe. E c’è una risposta per ciascuna. Ma intanto il figlio o la figlia se ne sono andati, la strada continua a essere piena di buche, l’endoscopia si va a fare altrove.

E quanto ai partiti, consueto rituale. Piani di «strategie», «piani», o nella misura in cui», ma nessuno che si occupi del latte dei bambini. E tanti <> senza che si capisca perchè non lo abbiano fatto. E più attenti alla nuova presidenza dell’Enel che alla luce che se ne va. Più preoccupati del rimpasto in giunta che del bus che non arriva. Più pieni di riforma o non riforma della giustizia che di code per avere un certificato.

Certo per il conferenziere e difficile rispon*dere alla domanda: si, ma ora che abbiamo sa*puto, cosa facciamo? Come se sotto sottodices*sero: va bene, ci hai raccontato come ci hanno ridotto in queste condizioni, hai acceso il nostro fuoco, hai preso gli applausi, ma non possiamo ritirarci come se nulla fosse. Anzi possiamo, proprio come se nulla avessimo saputo, è stata una bella serata e tutto come prima. Allora il conferenziere deve provare una risposta, si at*tendono molto da lui perche ha parlato come uno di loro, non è stato il solito comizio e via.

Allora il conferenziere dice: anzitutto è im*portante aver conosciuto la storia matrigna e le decisioni che hanno affossato il Sud in 150 anni. Conoscere significa prendere coscienza, nel sen*so che ora ciascuno può capire al volo chi rac*conta chiacchiere e rispondere a Bossi che dice che il Sud è parassita e che se sta cosi è perché non si da da fare. Questo e già un passo in avanti. Cioè ribellarsi perlomeno alle bugie. O ribellarsi dav*vero. Ciò che attizza un supplemento di doman*da: si, ma come?

Embè, la politica. Ma lei lo sa, quelli sono tutti uguali e pensano solo ai fatti loro. Giudizio trop*po drastico, ma cosi la gente la pensa. Allora conferenziere dirotta, non c’è solo la politica. Ci si può mettere insieme, persone, associazioni, comitati che intervengano anzitutto sui proble*mi delle città, un Paese che cambi può partire dalla riparazione dei marciapiedi. Con la frase ad effetto: bisogna riempire di partecipazione i vuo*ti delle città del Sud. Non ancora sufficiente, ecco la domanda finale: e un Partito del Sud?

Rispondi che un Partito del Sud può spaccare l’Italia come vuole la Lega, che l’incompleto svi*luppo del Sud e unproblema nazionale e quindi devono risolverlo i partiti nazionali eccetera ec*cetera. Ma per l’insistenza e lo scetticismo della sala c’è l’estrema soluzione: un partito si può anche fare, l’essenziale e che sia autonomo, non intruppato a destra o sinistra, altrimenti rischia di fare il gioco di chi finora il Sud se lo è di*menticato. Magari si può minacciarlo. A questo punto la serata finisce. E l’ora del buffet.

Sembra una serata qualsiasi. Ma dovrebbe tenerne conto chi volesse davvero fare qualcosa per il Mezzogiorno. In questa serata c’è tutto il suo ventre e il suo cuore e il suo scontento.
 
Questa scuola bugiarda sul Sud

Questa scuola bugiarda sul Sud


di LINO PATRUNO

Si dice che siano due le categorie che in 150 anni hanno fatto più male al Mezzogiorno. Una è quella degli insegnanti che hanno raccontato una storia in buona parte falsa. L’altra è quella dei bersaglieri mandati a massacrare i meridionali. I bersaglieri rispondevano ai comandi. E quanto agli insegnanti, i veri colpevoli sono i libri adottati: scelti senza una alternativa. Perciò, vista da Sud, ha sapore acido l’iniziativa dell’on. Gabriella Carlucci contro i testi definiti troppo ideologizzati, comunisti per capirci. Per il Sud è come chiedere pane e vedersi offrire brioche. Nulla da dire sul diritto dell’on. Carlucci, si può essere d’accordo o no sull’”indottrinamento di sinistra”. Ma il Sud attende che qualcuno si ricordi anche delle bugie sulla sua storia. E dei libri che continuano a spacciarla fra i ragazzi. Quasi tutti di editori nordici, per carità.

LA STORIA SUI LIBRI DI TESTO - Qualche libro a caso. “Oggi storia” (Le Monnier), parlando dei Mille, dice che “Cavour accettò il progetto purché si realizzasse spontaneamente senza l’appoggio del governo piemontese”. Invece il governo piemontese lo sapeva benissimo. Ma si teneva al riparo in caso di insuccesso e per non passare da complice di una guerra di conquista quale fu, altro che plebisciti per l’annessione. L’impresa si preparava già da due anni in Inghilterra con la regia della massoneria e sottoscrizioni ovunque, dai giornali ai circoli nobiliari: Londra voleva abbattere il Regno del Sud per prendersi la Sicilia dal grande valore strategico in Mediterraneo. La favoletta di Garibaldi convinto da Crispi a sbarcare a Marsala è raccontata anche da “I percorsi della storia” (Loffredo editore) Sulla nascita della “Questione meridionale” si sofferma “La civiltà dell’Ottocento” (Archimede ed.). Parlando della divisione fra Nord e Sud, dice che “era sempre esistita: il Nord aveva conosciuto i liberi Comuni, il Sud no; il Nord era ricco di città, il Sud era una terra di piccole borgate agricole; nel Nord si sviluppavano traffici e manifatture, mentre nel Sud dominava il latifondo”. Ma se non aggiunge che, nonostante tutto, non c’era divario fra Nord e Sud al momento dell’unità (e se c’era era a vantaggio del Sud), non induce a chiedersi perché e come si è arrivati all’attuale divario senza pari nel mondo occidentale.
Stessa solfa “Scoprire la storia” (De Agostini): nel 1861, Nord ricco e Sud povero. Zero in storia anche a “Il mio Sussi” (Fabbri ed.). Sul brigantaggio, dice che “il primo scontro fra il nuovo governo e le plebi contadine del Sud” avvenne quando “i Piemontesi imposero ai meridionali la leva militare, che sottraeva ai campi i giovani braccianti per cinque anni”. Immediata la reazione degli studiosi meridionali: non solo la leva obbligatoria. Occorre aggiungerci le mancate terre ai contadini, la reazione alla sanguinosa invasione militare, la reazione alla messa all’asta degli usi civici (possibilità di attingere acqua, far passare animali, raccogliere vegetazione nei campi) concessi dai Borbone, l’aumento brutale delle tasse, il trasferimento delle aziende al Nord, la sostituzione della manodopera meridionale con quella del Nord, le rappresaglie su civili, la distruzione dei paesi, le fucilazioni sommarie. Di brigantaggio “guerra civile” e non “guerra sociale” è convintissimo “Valore storia” (Paravia ed.).

IL SACRIFICIO PER FARE IL PAESE UNITO - Per i 150 anni, ci sono state scuole che hanno tentato di sapere di più e di farlo sapere anche ai ragazzi. Ma è difficile andare a raccontare che i briganti non erano tutti rapinatori se fino a un minuto prima il libro di testo li ha trattati solo come avanzi di galera da fucilare. E continuerà a farlo un minuto dopo. Ed è difficile dire che il Garibaldi come la Croce Rossa, nel senso che non si spara su di lui, era uno che oltre all’eroismo si faceva un po’ di calcoli. E che la nave con le scottanti carte sui furti dei garibaldini in Sicilia affondò misteriosamente col suo Ippolito Nievo senza che neanche un foglietto sia mai stato recuperato. Prima strage di Stato italiana. Diceva il drammaturgo tedesco Brecht che “chi non conosce la verità è uno sciocco. Ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Finché il sacrificio fatto dal Sud per la pur sacrosanta Unità d’Italia non arriverà nelle scuole, il Sud continuerà a credersi brutto, sporco e cattivo. E a non reagire. Unica maniera per evitare che la cosa più giusta da fare sia lasciarlo al più presto possibile quando si sarà passati dai libri scolastici alla vita.



Noi credevamo
 
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