Lo stile

sergio Rufo

New member
Ho visto in un altra discussione la digressione sullo stile.

Perche' in questa stanza non si riportano pezzi di " stile" o di "segno"?
Motivandone il perche'. Lo stile e' importante ma non va' confuso con un ripetitivo esercizio fine a se stesso.
Volere scrivere bene e' un modus; volere scrivere bene con significato e' un altro modus molto piu' difficile.
Piu' difficile perche' oltre alla tensione della scrittura, oltre al largo respiro di essa, oltre allla trasposizione estetica delle parole - a tutto questo- si vuole coniugare un apparire cristallino di una Storia perche', in qualsiasi caso, la Storia e' imprescindibile dall'esistere umano o viceversa.
Forse l'arte e' questa coniugazione.

Cormac MacCarthy
Quando si svegliava in mezzo ai boschi nel buio e nel freddo della notte allungava la mano per toccare il bambino che gli dormiva accanto. Notti più buie del buio e giorni uno più grigio di quello appena passato. Come l'inizio di un freddo glaucoma che offuscava il mondo. La sua mano si alzava e si abbassava a ogni prezioso respiro. Si tolse di dosso il telo di plastica, si tirò su avvolto nei vestiti e nelle coperte puzzolenti e guardò verso est in cerca di luce ma non ce n'era. Nel sogno da cui si era svegliato vagava in una caverna con il bambino che lo guidava tenendolo per mano. Il fascio di luce della torcia danzava sulle pareti umide piene di concrezioni calcaree. Come viandanti di una favola inghiottiti e persi nelle viscere di una bestia di granito. Profonde gole di pietra dove l'acqua sgocciolava e mormorava. I minuti della terra scanditi nel silenzio, le sue ore, i giorni, gli anni senza sosta. Poi si ritrovavano in una grande sala di pietra dove si apriva un lago nero e antico. E sulla sponda opposta una creatura che alzava le fauci grondanti da quel pozzo carsico e fissava la luce della torcia con occhi bianchissimi e ciechi come le uova dei ragni. Dondolava la testa appena sopra il pelo dell'acqua come per annusare ciò che non riusciva a vedere. Rannicchiata lì, pallida, nuda e traslucida, con le ossa opalescenti che proiettavano la loro ombra sulle rocce dietro di lei. Le sue viscere, il suo cuore vivo. Il cervello che pulsava in una campana di vetro opaco. Dondolava la testa da una parte all'altra, emetteva un mugolio profondo, si voltava e si allontanava fluida e silenziosa nell’oscurità.

Con la prima luce grigiastra l'uomo si alzò, lasciò il bambino addormentato e uscì sulla strada, si accovacciò e studiò il territorio a sud. Arido, muto, senza dio. Gli pareva che fosse ottobre ma non ne era sicuro. Erano anni che non possedeva un calendario. Si stavano spostando verso sud. Lì non sarebbero sopravvissuti a un altro inverno.

Quando ci fu luce a sufficienza per usare il binocolo ispezionò la valle sottostante. Tutto sfumava nell'oscurità. La cenere si sollevava leggera in lenti mulinelli sopra l'asfalto. Studiò quel poco che riusciva a vedere. I tratti di strada laggiù fra gli alberi morti. In cerca di qualche traccia di colore. Un movimento. Un filo di fumo. Abbassò il binocolo e si tirò giù la mascherina di cotone dal viso, si asciugò il naso con il polso e riprese a scrutare la zona circostante. Poi rimase seduto lì con il binocolo in mano a guardare la luce cinerea del giorno che si rapprendeva sopra la terra. Sapeva solo che il bambino era la sua garanzia. Disse: Se non è lui il verbo di Dio allora Dio non ha mai parlato.

Quando tornò dal bambino lo trovò che dormiva ancora. Gli tolse di dosso il telo azzurro, lo ripiegò e lo portò fino al carrello del supermercato, ce lo infilò e tornò con i piatti, qualche focaccina di mais dentro una busta e una bottiglietta di plastica piena di sciroppo. Stese a terra il piccolo telo impermeabile che usavano come tavolo e apparecchiò, si sfilò la pistola dalla cintura, la posò sul telo e restò a guardare il bambino che dormiva. Nel sonno si era tolto la mascherina, che era sepolta da qualche parte in mezzo alle coperte. Posò lo sguardo sul bambino e poi lo lasciò vagare fra gli alberi verso la strada. Quello non era un posto sicuro. Adesso che era giorno si poteva vedere. Il bambino si rigirò nelle coperte. Poi aprì gli occhi. Ciao papa, disse.
Sono qui.
Lo so.
 

franceska

CON LA "C"
Io in questo stile trovo un respiro particolare, ne posto un alito.

Da “Il pane di Abele” di Salvatore Niffoi:

Il tempo a Capriles ha ali di corvo e artigli di astore, per agguantare in fretta le ore e portarsele in volo oltre l’altopiano di Sos Canargios. Il tempo a Crapiles nasce morto, è creatura persa per strada, carogna da spolpare sotto il sole, è funerale all’imbrunire, quando tutti si guardano intorno e si perdono come orfani del sacro castigo.
Mannoi Pirroccu se n’era andato così, come il tempo, in un pomeriggio tisico che tingeva di luce malata le lapidi impolverate e arroventava la ghiaia dei viali del Camposantu Novu. Lo interrarono nella tomba di famiglia, sopra mannai Gonaria, che l’inverno prima aveva lasciato la casa di Sas Bullittas, portandosi nell’aldilà le tasche della fardetta piene di bacche di costiu e tabaccugurpe. Era morta senza un lamento. Si lasciò portare via dal destino come fosse un vento leggero, un vento largo che precipita dalla collina e apre le sue ali di seta sopra gli stanchi di vivere. Morì con un’espressione serena stampata in faccia, e sulle labbra il sorriso di chi ha la certezza che la morte non avrebbe sbagliato persona, non sarebbe passata due volte.
-Ecco, sono io, sono pronta, venite a prendermi!- sembrava dire, dopo che l’avevano composta, oliata e pettinata. I suoi occhi parevano ancora vivi, brillavano dal profondo delle orbite come cristalli di anatasio. Mannai Gonaria era una di quelle fortunate che, fede o non fede, tornano alla nuda terra senza soffrire.
Il nonno, invece, il dolore del trapasso lo aveva sentito in anticipo, a volte anche nel sogno. Sputò l’ultimo respiro fieloso sopra un cuscino ricamato con boccioli di roselline rosse e dorate. All’aria già pesante e insopportabile aggiunse, mentre lo giravano e lo spogliavano per pulirlo, una colata di liquidi che sapeva di carne d’asina dimenticata a salsare.
Zosimo e Nemesio gli erano rimasti vicini sino a quando non si era sfreddato tutto. Per notti e giorni ne avevano ascoltato il rumore lamentoso, un rohii rohii che segnalava la difficoltà di morire in grazia di Dio. Lo aveva sempre detto, mannoi Pirroccu, quando la moglie si lamentava dei dolori del parto:
-Ma cosa ne saprai tu! L’uomo, cara mia, soffre più della donna, anche se non ha le doglie, perché impiega nove mesi per nascere e nove per morire!-. Forse aveva ragione, perché almeno per lui era andata così, come se il Padreterno non avesse voluto offenderlo smentendo una sua profezia. La sua agonia era durata nove lunghi mesi. Nove mesi su un lettino smollato, piegato sul fianco sinistro, con un cuscino dietro la schiena che assorbiva l’ultima svaporata di umidità corporale. Sopra una sedia, a portata di mano, un’edizione economica dei Vangeli e degli Atti degli Apostoli, un catino d’acqua, pezze di cotone strizzate, monconi di sigaro sporchi di saliva. Sotto il lettino, due paioli di latta, un tappeto sfrangiato di velluto, una fascina di lavanda, un vecchio corno di muflone incollato a una tavoletta. Fissata alla parete calcinata di bianco con un rampone di ferro, una vecchia lampadina a pigna sempre accesa, incorniciata da un cerchio azzurro disegnato sul muro, il cerchio che separava la vita dalla morte. Quando la lampadina a pigna si fulminò, mannoi Pirroccu si spense.
 

lillo

Remember
Don De Lillo - Mao II

Eccoli che arrivano, marciando nella luce del sole d'America. In fila per due, l'eterno duetto ragazzo-ragazza, sbucano dalla pista al di là della staccionata sul centrocampo sinistro. La musica li attira sull'erba a dozzine, a centinaia, già troppi per contarli. Si ammassano csì vicini, attraversando il vasto arco del fuoricampo, che l'effetto è quello di una trasformazione. Da una serie di coppie allacciate diventano un'onda ininterrotta, sempre più grande, che copre gli spazi aperti di blu marino e di bianco.
 
Un'altro scrittore che mi ha colpito tanto per la delicatezza e le ricercatezza dello stile - Henry Fielding e il suo romanzo Tom Jones:

1 • Introduzione all'opera, ovvero lista del banchetto.


L'autore dovrebbe considerare se stesso non come un gentiluomo che offra un pranzo in forma privata o d'elemosina, bensì come il padrone d'una taverna aperta a chiunque paghi. Nel primo caso, colui che invita offre naturalmente il cibo che vuole, e quand'anche questo sia mediocre e magari sgradevole ai loro gusti, gli ospiti non debbono protestare; ché l'educazione impone loro d'approvare e lodare qualunque cosa venga loro posta dinanzi. Proprio il contrario accade al padrone d'una taverna. Quelli che pagano vogliono dar soddisfazione al proprio palato, anche quando questo sia raffinato e capriccioso, e se non è tutto di loro gusto, si sentono in diritto di criticare, di protestare, d'imprecar magari contro il pranzo, senz'alcun ritegno.
Ecco perché, per non deludere i clienti, l'oste onesto e benintenzionato espone in genere una lista delle pietanze, a cui tutti, appena entrati nella taverna, possono gettare uno sguardo; ed essendosi resi conto di quel che c'è, possono rimanere gustando ciò che vien loro offerto, oppure andarsene altrove dove la lista meglio s'accordi coi loro gusti.
Non sdegnando d'accettare lezioni di spirito o di saggezza da chiunque sia in grado di darcene, volentieri abbiamo preso lo spunto da questi onesti approvvigionatori e non solo premetteremo quindi una lista generale di quel che offriamo, ma daremo anche al lettore l'annuncio d'ogni portata che sarà servita in questo e nei volumi che seguiranno.
La vivanda di cui ci siamo provvisti è semplicemente la natura umana. E non temo certo che il lettore di buon senso, per quanto di gusto raffinato, rimanga stupito, perplesso od offeso per il fatto che accenno a un unico piatto. La tartaruga - come ben sa per esperienza il consigliere comunale di Bristol assai dotto in gastronomia - contiene, oltre ai
deliziosi calipash e calipee, molte altre parti commestibili; e similmente il dotto lettore non può ignorare che la natura umana, seppure definita con un unico nome generale, ha una varietà così prodigiosa che un cuoco avrà cucinato tutte le più diverse specie di cibi animali e vegetali del mondo prima che un autore abbia potuto esaurire un argomento così vasto.
Forse i più raffinati obietteranno che si tratta d'un piatto troppo comune e volgare; che altro troviamo infatti in tutti i racconti, romanzi, drammi e poesie di cui son piene le bancarelle? Ma molte squisite vivande sarebbero respinte dall'epicureo se bastasse, per condannarle come comuni e volgari, il fatto che si trovino con lo stesso nome nei vicoli più miserabili. In realtà trovar nei libri la vera natura non è meno difficile che trovare nelle botteghe il prosciutto di Bayonne o la mortadella di Bologna.
Ma, per continuare nella stessa metafora, quel che conta è il modo di cucinare usato dall'autore; poiché, come dice il signor Pope,
Il vero spirito è la natura vestita nel modo migliore;
ciò che, pensato spesso, mai fu sì bene espresso.​
Lo stesso animale, parte della cui carne ha l'onore d'esser gustata alla tavola d'un duca, può esser degradato in altre sue parti, e alcune sue membra si posson vedere appese ai ganci nella peggiore bottega della città. Che differenza c'è, dunque, tra il cibo del nobile e del facchino, quando entrambi si nutrono dello stesso bue o dello stesso vitello, se non nel condimento, nella cottura, nel modo di prepararlo e presentarlo? Ecco perché uno provoca ed eccita il più languido degli appetiti, mentre l'altro ripugna e respinge l'appetito più vivo.
Allo stesso modo, la bontà del divertimento mentale dipende meno dall'argomento che non dall'abilità dell'autore nel presentarlo. Il lettore dovrà quindi esser soddisfatto nel vedere come, nell'opera che segue, abbiamo strettamente aderito ai principi supremi del migliore dei cuochi prodotti dalla nostra epoca, o fors'anche da quella d'Eliogabalo. Questo grand'uomo, come è ben noto a tutti gli amanti del mangiar raffinato, incomincia col porre dinanzi agli ospiti affamati le cose più semplici, salendo poi gradatamente, a misura che il loro stomaco si riempie, alla quintessenza delle salse e delle spezie. Allo stesso modo, presenteremo dapprima al vivo appetito del nostro lettore la natura umana nel suo aspetto più comune e più semplice, quale si trova nelle campagne, e soltanto dopo passeremo a cucinarla e condirla con le piccanti spezie italiane e francesi dell'artificio e del vizio che ci offrono le corti e le città. Siamo certi così che il nostro lettore vorrà continuare a leggere per sempre, proprio come si dice che il personaggio
summenzionato riesca a suscitar negli ospiti il desiderio di continuare a mangiare.
Premesso questo, non vogliamo più trattenere quelli a cui piace la nostra lista, e passeremo senz'altro a servir la prima portata della nostra storia per loro divertimento.
 

jeanne

New member
Mi piacerebbe così tanto partecipare a questa discussione proponendo questo incipit di Rimbaud le fils, scritto da Pierre Michon, ma è in francese, e immagino non tutti gli amici del forum ne possano godere la musicalità...:? Mi permetto di scriverlo lo stesso:

On dit que Vitalie Rimbaud, née Cuif, fille de la campagne et femme mauvaise, souffrante et mauvaise, donna le jour à Arthur Rimbaud. On ne sait pas si d'abord elle maudit et souffrit ensuite, ou si elle maudit d'avoir à souffrir et dans cette malédiction persista : ou si anathème et souffrance liés comme les doigts de sa main en son esprit se chevauchaient, s'échangeaient, se relançaient, de sorte qu'entre ses doigts noirs que leur contact irritait elle broyait sa vie, son fils, ses vivants et ses morts. Mais on sait que le mari de cette femme qui était le père de ce fils devint tout vif un fantôme, dans le purgatoire de garnisons lointaines où il ne fut qu'un nom, quand le fils avait six ans. On débat si ce père léger qui était capitaine, futilement annotait des grammaires et lisait l'arabe, abandonna à bon droit cette créature d'ombre qui dans son ombre voulait l'emporter, ou si elle ne devint telle que par l'ombre dans quoi ce départ la jeta ; on n'en sait rien. On dit que cet enfant, avec d'un côté de son pupitre ce fantôme et de l'autre cette créature d'imprécation et de désastre, fut idéalement scolaire et eut pour le jeu ancien des vers une vive attirance : peut-être que dans le vieux tempo sommaire à douze pieds il entendait le clairon fantôme de garnisons lointaines, et les patenôtres aussi de la créature de désastre, qui pour scander sa souffrance mauvaise avait trouvé Dieu comme son fils pour le même effet trouva les vers ; et dans cette scansion il maria le clairon et les patenôtres, idéalement.

Michon, attraverso l’utilizzo dell’imperfetto, attraverso l’impiego di parole comuni e anche arcaiche, ma usate in modo originale, attraverso la danza del suo stile unico, attraverso le ripetizioni come per esempio di “mauvaise”, “”ombre”, “fantôme”, “créature”, “garnisons lointaines”, “désastre”, attraverso il gioco sulle parole dalla stessa radice come “souffrante, souffrit, souffrir” o “maudit, malédiction”, ci fa già vedere nel bambino Arthur Rimbaud quello che sarà l’Arthur Rimbaud poeta e ci fa già capire in queste poche righe dell’inizio del libro, da dove proviene Arthur, chi sono i suoi, perché diventerà quello che diventerà. Le parole-chiavi per capire il poeta sono già tutte qui, martellanti. E’ una musica, è uno stile incredibile.

ah! il libro esiste in italiano, Rimbaud il figlio!:YY
 
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