A
Antonio_76
Guest
Qualcosa picchiettò
Qualcosa picchiettò al vetro della mia camera;
Nessuna traccia
Di vento o pioggia; nella penombra vidi materializzarsi
Il prostrato viso della mia Amata.
“Stanca sono di attendere”, disse,
“Notte e giorno, mane e meriggio,
Nel gelido abbraccio del solitario mio giaciglio;
Credetti che presto a me ti saresti ricongiunto!”
Levatomi, ai negri cristalli della finestra mi avvicinai,
Ma dileguatasi era la di lei figura:
Solo una pallida falena, ahimè,
Picchiettava al vetro per me.
Su di un ricciolo di capelli rinvenuto
Quando il profumato tuo respiro effondeva vaporosi benvenuto,
Questo ricciolo sul tuo capo ondeggiava,
E quando camminavamo laddove, assordanti, i flutti si frangevano,
Dilettarsi pareva esso nel sole e nel vento,
E quando vinto avevo la resistenza delle tue cortesi parole,
Sfiorando il mio viso, esso si avvinghiava in molle amplesso.
Indi, a mitigare la triste sofferenza
Del distacco, qual farmaco, quel ricciolo a me desti.
Dove sono i suoi compagni ora? Ahimè,
La bronzea veste hanno abbandonato, per indossare un grigio abito,
E giacciono in un cavo sarcofago,
Eterne tenebre ad assediarlo!
Eppure, questo solitario ricciolo, inviolato dal tempo,
Irradia vitali brune iridescenze come nel primitivo suo rigoglio,
Sicchè pare che in questo stesso istante potrei
Restituirlo ad ornamento della viva tua fronte,
Solo se percorressi il cammino occidentale,
Sino a giungere alla tua antica dimora.
Vago, uno spettro sono adesso
Vago, uno spettro sono adesso,
Siccome nessuno riconoscer vuole
Carne e sangue in sì scheletrito e spoglio ramo,
Quale la Natura di me fece.
Così il mio trasparente sembiante visitare può
Il malinconico misterioso umano consesso, ove il disaccordo regna;
Mi chiedo se l’esistere dell’Uomo
Fu un errore di Dio.
Ma poi te incontro e, pietrificato,
Penso che se l’umano esistere un errore fu,
Come è stato detto, tale errore
Ben posso sopportare!
Gli occhi alzai dallo scrivere
Gli occhi alzai dallo scrivere,
E principiai a mirare,
In assorto rapimento il ciglio mio,
La muta pupilla lunare, su di me fissa.
I malarici vapori della bruma pareva celassero
Le spettrali meditazioni dell’astro lunare,
Sicchè inavvertitamente dissi,
“Cosa stai tu facendo ivi?”
“Oh, interrogando stavo l’immobilità dello stagno,
Le cavità ed il rivo qui dattorno,
Per rinvenire il corpo, del vitale effluvio dell’anima privo,
Di uno che spense il lume della propria vita.
“Udisti forse il convulso suo parlare?
Dolente a cagione del figlio,
Caduto morto durante una feroce battaglia,
Sebbene nessuno egli avesse mai offeso.
“E ora curiosa sono di penetrare
La miope ottusa mente
Di uno che vuole scrivere un libro
In un mondo siffatto.”
L’inquieto umore della luna mi contagiò
E cauto mi celai al suo austero sguardo,
Siccome certo ero che ella avrebbe veduto in me
Un altro che pur dovesse annegarsi.
Solo polvere su cui meditare
“Cosa ti affligge, in tal guisa, mia leggiadra fanciulla,
Seduta, qui, accanto a me?
Fiorì mai giorno di tersa luminosità pari
A questo che a noi si approssima, privo del contagio delle ombre?”
“Oh, no” disse lei. “Giunge diletto e delizia
Per te, a voce o per iscritto,
Per me un siffatto giorno, una siffatta notte non principierà,
No, non di nuovo!”
Il biondo chiarore dei lumi ad avvolgerci in morbide carezze
I nostri scranni in intima obliquità,
Come se per l’eternità
Dovessimo sedere ivi, in un etereo dialogo di sorrisi.
Pur tuttavia soggiunse, come costretta da invincibile necessità:
“Sì, presto il giorno sarà dissolto
E tutta la sua mitezza dilettevole lascerà solo polvere
Su cui meditare”.
Perchè ella da casa andò via
Perchè ella da casa andò via, senza profferir parola,
Non riesco a comprendere;
Specchi e fiori vegliavano su di lei, un libro e un uccello [a farle compagnia
E coorti di visitatori.
E dove lei ora dimora, non vi è sole,
Nessun fiore, nessun libro, nessun vetro in cui specchiarsi;
Io sono l’unico visitatore,
Io solo presso di lei mi soffermo, nel mio mesto errare.
Qualcosa picchiettò al vetro della mia camera;
Nessuna traccia
Di vento o pioggia; nella penombra vidi materializzarsi
Il prostrato viso della mia Amata.
“Stanca sono di attendere”, disse,
“Notte e giorno, mane e meriggio,
Nel gelido abbraccio del solitario mio giaciglio;
Credetti che presto a me ti saresti ricongiunto!”
Levatomi, ai negri cristalli della finestra mi avvicinai,
Ma dileguatasi era la di lei figura:
Solo una pallida falena, ahimè,
Picchiettava al vetro per me.
Su di un ricciolo di capelli rinvenuto
Quando il profumato tuo respiro effondeva vaporosi benvenuto,
Questo ricciolo sul tuo capo ondeggiava,
E quando camminavamo laddove, assordanti, i flutti si frangevano,
Dilettarsi pareva esso nel sole e nel vento,
E quando vinto avevo la resistenza delle tue cortesi parole,
Sfiorando il mio viso, esso si avvinghiava in molle amplesso.
Indi, a mitigare la triste sofferenza
Del distacco, qual farmaco, quel ricciolo a me desti.
Dove sono i suoi compagni ora? Ahimè,
La bronzea veste hanno abbandonato, per indossare un grigio abito,
E giacciono in un cavo sarcofago,
Eterne tenebre ad assediarlo!
Eppure, questo solitario ricciolo, inviolato dal tempo,
Irradia vitali brune iridescenze come nel primitivo suo rigoglio,
Sicchè pare che in questo stesso istante potrei
Restituirlo ad ornamento della viva tua fronte,
Solo se percorressi il cammino occidentale,
Sino a giungere alla tua antica dimora.
Vago, uno spettro sono adesso
Vago, uno spettro sono adesso,
Siccome nessuno riconoscer vuole
Carne e sangue in sì scheletrito e spoglio ramo,
Quale la Natura di me fece.
Così il mio trasparente sembiante visitare può
Il malinconico misterioso umano consesso, ove il disaccordo regna;
Mi chiedo se l’esistere dell’Uomo
Fu un errore di Dio.
Ma poi te incontro e, pietrificato,
Penso che se l’umano esistere un errore fu,
Come è stato detto, tale errore
Ben posso sopportare!
Gli occhi alzai dallo scrivere
Gli occhi alzai dallo scrivere,
E principiai a mirare,
In assorto rapimento il ciglio mio,
La muta pupilla lunare, su di me fissa.
I malarici vapori della bruma pareva celassero
Le spettrali meditazioni dell’astro lunare,
Sicchè inavvertitamente dissi,
“Cosa stai tu facendo ivi?”
“Oh, interrogando stavo l’immobilità dello stagno,
Le cavità ed il rivo qui dattorno,
Per rinvenire il corpo, del vitale effluvio dell’anima privo,
Di uno che spense il lume della propria vita.
“Udisti forse il convulso suo parlare?
Dolente a cagione del figlio,
Caduto morto durante una feroce battaglia,
Sebbene nessuno egli avesse mai offeso.
“E ora curiosa sono di penetrare
La miope ottusa mente
Di uno che vuole scrivere un libro
In un mondo siffatto.”
L’inquieto umore della luna mi contagiò
E cauto mi celai al suo austero sguardo,
Siccome certo ero che ella avrebbe veduto in me
Un altro che pur dovesse annegarsi.
Solo polvere su cui meditare
“Cosa ti affligge, in tal guisa, mia leggiadra fanciulla,
Seduta, qui, accanto a me?
Fiorì mai giorno di tersa luminosità pari
A questo che a noi si approssima, privo del contagio delle ombre?”
“Oh, no” disse lei. “Giunge diletto e delizia
Per te, a voce o per iscritto,
Per me un siffatto giorno, una siffatta notte non principierà,
No, non di nuovo!”
Il biondo chiarore dei lumi ad avvolgerci in morbide carezze
I nostri scranni in intima obliquità,
Come se per l’eternità
Dovessimo sedere ivi, in un etereo dialogo di sorrisi.
Pur tuttavia soggiunse, come costretta da invincibile necessità:
“Sì, presto il giorno sarà dissolto
E tutta la sua mitezza dilettevole lascerà solo polvere
Su cui meditare”.
Perchè ella da casa andò via
Perchè ella da casa andò via, senza profferir parola,
Non riesco a comprendere;
Specchi e fiori vegliavano su di lei, un libro e un uccello [a farle compagnia
E coorti di visitatori.
E dove lei ora dimora, non vi è sole,
Nessun fiore, nessun libro, nessun vetro in cui specchiarsi;
Io sono l’unico visitatore,
Io solo presso di lei mi soffermo, nel mio mesto errare.