Repetto, Diego - IL BACO E LA FARFALLA - Un'incredibile storia vera

Diego Repetto

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Ciao!

Mi chiamo Diego Repetto, sono fisico di professione e scrittore per passione. Dopo oltre dieci anni trascorsi in giro per l'Europa (Svizzera, Germania, Spagna), sono da poco tornato in Italia e attualmente vivo a Genova insieme alla mia famiglia (moglie e due figli).
Un ormai lontano pomeriggio di fine 2006 mi è stata raccontata un'incredibile storia vera. Quella storia, qualche anno dopo, ha dato origine a un romanzo, IL BACO E LA FARFALLA (Edizioni Italia Press, I ed. aprile 2011, II ed. novembre 2011).

Si tratta di una storia avvincente, perché ricca di colpi di scena.
È una storia interessante, perché si intreccia con gli episodi principali della storia d'Italia degli ultimi sessant'anni.
È infine una storia attuale, perché parla di problemi del nostro Paese mai risolti, dagli incidenti sul lavoro alla corruzione, dalla repressione violenta delle forze dell'ordine alle condizioni insostenibili dei detenuti in carcere.

Per chi avesse voglia di leggere alcuni passi del libro:
Diego Repetto - IL BACO E LA FARFALLA

Per chi fosse interessato ai commenti di chi già lo ha letto:
Il baco e la farfalla - Repetto Diego - Libro - IBS - Italia Press - Narrativa

Il libro è stato finora presentato con successo a Milano, Camogli, Recco, Sestri Levante, Genova, Imperia, Valencia (Spagna), Alzira (Spagna) e sara’ presentato prossimamente a Alessandria, Saronno, Stoccarda (Germania).

Non esitate a mandarmi i vostri commenti e a contattarmi se volete delle informazioni in più sul libro e/o organizzare una presentazione!


Un saluto a tutti

Diego


Quarta di copertina del libro:

“Chi sta fuori non si rende conto. Il ritmo della loro vita è scandito dai loro problemi, non dai nostri. Il lavoro, la famiglia e tutto il resto. Un ritmo frenetico, una corsa affannosa senza un attimo di respiro. A loro il tempo manca, a noi avanza… tutto cambia al di là di queste mura. Qui invece tutto resta uguale, cristallizzato. Siamo un baco che mai si trasformerà in farfalla”.

In questo mondo sono sempre i più deboli a pagare il prezzo più alto. Sono coloro che non possono volare ad essere presi ogni volta come capro espiatorio. E non volano non perché non vogliano, ma perché il fato o in molti casi qualcuno più potente ha spezzato loro le ali.

Guido si ritrova bambino con una madre da cercare e un padre da vendicare. Qualche anno dopo, poco più che adolescente, decide di fare i conti con un passato il cui peso si è fatto, col passare del tempo, insopportabile. Una scelta che lo porterà a scoprire molti lati oscuri della sua famiglia e che segnerà per sempre il resto della sua vita.
 
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elisa

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ciao Diego, ben arrivato, do un'occhiata al tuo libro e ti faccio tanti auguri :)
 

Diego Repetto

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presentazione "Il baco e la farfalla"

Volevo segnalare agli amici del forum la prossima presentazione de "Il baco e la farfalla".

Con preghiera di diffusione, soprattutto se conoscete qualcuno che vive nei pressi di Alessandria.
Grazie!
Saluti
Diego

***
Durante la Festa d'Estate dell'Associazione Casa Manuelli, nuova presentazione del romanzo IL BACO E LA FARFALLA.

Quando: Domenica 17 giugno, ore 15.30.
Dove: Casa Manuelli, via Quaglia 21, San Michele (Alessandria)

www.casamanuelli.it/_pages/details.aspx?GID=3

Il baco e la farfalla - Repetto Diego - Libro - IBS - Italia Press - Narrativa

Diego Repetto - IL BACO E LA FARFALLA
 

Diego Repetto

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Diego Repetto

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Il baco e la farfalla - 5° clas. al Premio Naz. di Arti Letterarie Città di Torino

Ciao a tutti,
condivido con voi la gioia per un altro premio assegnato al mio romanzo "Il baco e la farfalla" :)
5° classificato al Premio Nazionale di Arti Letterarie Città di Torino IX ed. 2012.
La premiazione avverrà sabato 27 ottobre alle ore 16.00 presso la Sala Conferenze della Galleria d'Arte Moderna di Torino.
Un saluto
Diego

Il baco e la farfalla - Repetto Diego - Libro - IBS - Italia Press - Narrativa
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla - Menzione d'Onore Premio Internaz. di Lett. Portus Lunae 2012

Cari amici,
condivido con voi la gioia per l'assegnazione al romanzo "Il baco e la farfalla" della Menzione d'Onore al Premio Internazionale di Letteratura Portus Lunae 2012.
La proclamazione ufficiale e la cerimonia di premiazione avranno luogo domenica 9 dicembre a La Spezia presso la sala dei congressi dell' NH Hotel, in via XX settembre 2.
ciao :)
Diego
 

Diego Repetto

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A proposito della situazione delle carceri in Italia

Su un altro forum di lettori, nella "discussione" riguardante il mio romanzo "Il baco e la farfalla", è nato uno scambio di opinioni sul tema delle carceri in Italia. Premetto che il libro non è un romanzo sul carcere (anche se un paio di capitoli si svolgono in prigione). L'argomento però mi sta a cuore e ho pensato quindi di riportare qui una mia risposta, con la speranza che possa essere di interesse anche per chi è iscritto a questo forum.

******

Prima di tutto una breve fotografia sulla situazione delle carceri italiane.

Nelle carceri italiane si trovano attualmente 67.800 detenuti per una capienza massima di 44.000.

Il 40% è in attesa di giudizio, quasi la metà sarà riconosciuta innocente.

Secondo le direttive europee, in Italia tre carceri su quattro sono illegali per quanto riguarda lo spazio nelle celle a disposizione di ogni detenuto. In alcune carceri ci sono celle con quattro persone sistemate su due letti a castello costrette a vivere in 7,6 metri quadrati. Meno di 2 metri quadrati a testa. In altre celle di uguali dimensioni ci stanno addirittura in 6.

Ma il dramma non è solo quello del sovraffollamento.

I detenuti sono spesso chiusi in una cella per 20 ore senza poter svolgere nessuna attività. Poco più del 10% svolge lavoro saltuario, pochissimi hanno la possibilità di frequentare le scuole. L’ozio forzato è la regola.
Le condizioni igienico-sanitarie sono pessime. Le celle sono luoghi immondi dove circolano scarafaggi, le finestre spesso non si possono aprire perché ostruite dai letti a castello. Mancano aria e luce, tanto che i detenuti devono tenere la lampadina accesa tutto il giorno.
Molti non possono vedere mogli e figli. L’avvocato, quasi sempre d’ufficio, l’hanno visto una sola volta e nulla conoscono del processo che li riguarda. Il 25% è tossicodipendente, il 36% è straniero senza appoggi in Italia, i casi psichiatrici sono tantissimi, l’assistenza sanitaria è quasi impossibile.

Dal 2000 al 2010 sono oltre 600 i detenuti che si sono tolti la vita. Nel solo 2010 sono stati segnalati 66 suicidi tra i detenuti e 7 tra gli agenti di polizia penitenziaria, a significare l’invivibilità di un sistema che non investe per migliorare la situazione.
In carcere si ha un tasso di suicidi 20 volte più alto che nella società, 1 suicidio ogni 100 detenuti contro 1 ogni 20.000 cittadini.

Cosa fare?

Sono d'accordo con te sul fatto che l'indulto sia stato una soluzione puntuale che a breve distanza di tempo ha mostrato tutti i suoi limiti.
A mio modo di vedere cose da fare ce ne sarebbero parecchie, purtroppo manca la volontà politica.

Un breve elenco, sicuramente non esaustivo, di proposte:

1) sostituire, quando possibile, i servizi sociali e i lavori socialmente utili alla pena detentiva (statisticamente si abbassa dal 70 al 25 % il livello di recidiva)

2) accelerare i tempi della giustizia

3) depenalizzare i reati minori

3) aumento del personale che lavora in carcere

4) creazione di nuovi carceri

5) sostenere tutte le associazioni e cooperative che si occupano dei detenuti


Un saluto e auguri per il nuovo anno.

Diego
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla - Un'incredibile storia vera (capitolo 1)

Pubblico volentieri, con la speranza che sia di interesse per i lettori del Forum, il primo capitolo del mio romanzo "Il baco e la farfalla" (Edizioni Italia Press, I ed. aprile 2011, II ed. novembre 2011, Finalista al Premio Internazionale di Letteratura Terre di Liguria 2012, 5° classificato al Premio Nazionale di Arti Letterarie Città di Torino IX ed. 2012, Menzione d'Onore al Premio Internazionale di Letteratura Portus Lunae 2012).

Pubblicherò in seguito altri capitoli.

Buona lettura!
Diego




Il baco e la farfalla

Questa storia è ispirata a fatti realmente accaduti.
Nel libro sono stati modificati i nomi delle persone citate e le descrizioni di alcuni luoghi.

Non v’accorgete voi che noi siam vermi nati a formar l’angelica farfalla, che vola alla giustizia senza schermi?
Dante
Purgatorio, X, 124-126


Ottobre 1943

“Si salverà, non si preoccupi. Il bambino non è in pericolo di vita. Fosse un adulto correrebbe qualche rischio, ma con la sua età è praticamente impossibile che non ce la faccia. Certo, i tempi di recupero saranno lunghi. Dalla poliomielite si guarisce con il riposo, più i muscoli lavorano più avanza la malattia. Per il momento non possiamo escludere dei danni permanenti. È possibile che non ci sia un pieno recupero della gamba malata, ma è troppo presto per dirlo. Mi raccomando, riposo. Il bambino deve restare a letto per almeno due mesi per evitare il rischio di una ricaduta”.
Il medico non era riuscito a tranquillizzarlo. Dai lineamenti contratti del viso traspariva una profonda inquietudine. Quando rimase solo nella stanza, si chinò su di me e mi accarezzò il viso. Mi sorrise.
“Papà, non andare via, resta con me”.
“Papà non se ne va, non temere. Promesso”.
Per i genitori la vita dei figli inizia quando nascono. Per i figli invece la propria vita inizia con i primi ricordi. Nella mia memoria nacqui in una stanza della clinica Bertani quando avevo cinque anni.
Nonostante la promessa - che cosa stupida promettere ciò che si sa già non poter mantenere - mio padre se ne andò presto. Era un comandante partigiano e non aveva tempo per prendersi cura di me, la Resistenza lo assorbiva completamente. Dopo l’operazione mi affidò alla madre di sua moglie. Pensava che in quella casa alla periferia di Genova sarei stato al sicuro. Al sicuro forse sì, felice no, ma non glielo confessai mai. Sapevo come avrebbe reagito, mi avrebbe detto di non fare il bambino viziato e che era per il mio bene. Fin dai primi giorni i rapporti con la mia nuova tutrice furono tesi e ben presto arrivai a odiarla profondamente. Aveva cinquantacinque anni portati discretamente, ma ai miei occhi appariva solamente come una vecchia strega. Mi parlava sempre con un tono scontroso, ruvido. I suoi movimenti erano bruschi. Rimasi insieme a lei quattro anni eppure non ricordo un solo gesto di affetto nei miei confronti. Non un bacio, non una carezza, non un sorriso.
Durante la convalescenza il tempo trascorse lentamente. Le giornate erano lunghe e noiose. Restare a letto era una vera e propria tortura. La vecchia entrava nella stanza quattro o cinque volte al giorno. Non era certo per farmi compagnia, ma piuttosto per comprovare che non mi alzassi e non abbandonassi il luogo a cui la malattia mi aveva relegato. Al mattino, a mezzogiorno e alla sera mi portava qualcosa da mangiare. Alla fine di ogni pasto, mi accompagnava in bagno. Quando mi riaccompagnava in camera e prima di richiudere la porta, muoveva ritmicamente su e giù l’indice della mano destra e mi intimava minacciosa di restare immobile fino al suo ritorno.
La situazione precipitò quando, una volta guarito, iniziai ad andare a scuola. Il fatto che fossi mancino era per lei inaccettabile. I compiti del pomeriggio diventarono così un supplizio. Mi legava la mano sinistra allo schienale della sedia, si accomodava sulla poltrona e vigilava imperturbabile gli sforzi che facevo per scrivere con la destra. Alle mie lamentele rispondeva secca che era per il mio bene – certo dovevo considerarmi un bambino fortunato, tutti che si preoccupavano per il mio bene - declamava che una persona che si rispetti deve saper scrivere con la mano destra.
Trascorsi i primi due anni senza rivedere mio padre. Lo incontrai nuovamente in una giornata piovosa di fine aprile del 1945. Mi disse che la guerra era finita e che a partire da allora ci saremmo incontrati spesso. Veniva il fine settimana, ma non si fermava mai a dormire. Erano incontri brevi ma intensi. Riusciva con parole semplici a trasmettermi un po’ di quella dolcezza di cui ogni bambino ha bisogno e che a me mancava terribilmente, stretto com’ero tra gli artigli della mia tutrice. A volte mi passava a prendere e mi portava in montagna, sull’appennino ligure, a ripercorrere i luoghi della Resistenza. I racconti delle lotte partigiane mi sembravano favole meravigliose. Da un lato i buoni, i partigiani. Dall’altro i cattivi, i tedeschi e i fascisti. Storie di generosità, lealtà, coraggio. Storie di rappresaglie e crudeltà. Mio padre era senza dubbio un buon oratore. Quando iniziava a parlare fissavo lo sguardo sulle sue labbra, attento a non perdermi nemmeno una parola, completamente catturato e affascinato dal racconto. Ogni volta andavamo in un paesino diverso, se si possono chiamare paesi quelli che spesso non erano altro che quattro case di pietra mezze diroccate. Ma anche se si cambiava paese, ogni volta era presente una donna giovane e bella con la quale mio padre trascorreva gran parte del tempo. Molti anni dopo venni a sapere che era una ex partigiana e l’amante di mio padre. Nel paesino di turno restavo qualche giorno e quando dovevo tornare a casa piangevo disperato per ore. Purtroppo ho una buonissima memoria. Ci sono molti momenti tragici della mia vita che vorrei poter dimenticare, mi piacerebbe gettarli per sempre nell’oblio. E invece mi ricordo tutto, nitidamente. A volte, se chiudo gli occhi, le immagini sono così definite che ho la sensazione di riprovare le stesse emozioni, di risentire lo stesso dolore, di essere colto nuovamente da quel senso di sconfitta e di ineluttabilità del destino che spesso mi hanno accompagnato lungo il tortuoso cammino della vita. Nonostante le frequenti visite di mio padre, anche quelli furono anni difficili. Non c’era giorno che non litigassi con la vecchia. Le discussioni erano feroci e spesso scappavo in camera per sfuggire alla scopa. Mi chiudevo a chiave e mi gettavo sul letto, supino, fissando il soffitto e cercando di trattenere le lacrime. La mia capacità di estraniarmi era straordinaria. Riuscivo a non udire il rimbombare dei colpi sulla porta e le grida della strega che mi ordinava di aprirla, altrimenti, urlava, si sarebbero abbattute su di me le punizioni più terribili. Quando mi ritrovavo solo, sdraiato sul letto, c’era un gioco che mi piaceva fare. Chiudevo gli occhi e li stringevo forte fino a sentire i bulbi dolere, come risucchiati nell’orbita, poi di scatto li riaprivo e vedevo una moltitudine di puntini brillanti. Il soffitto della stanza si trasformava nel cielo di una notte stellata. E ripensavo alle notti trascorse in montagna con mio padre, quando l’oscurità calava sul paese, quando in cielo si accendevano gradualmente le stelle e brillavano poi di una luce intensa. E dicevo a mio padre che quelle stelle erano più belle e più luminose di quelle della città. E gli domandavo come mai in quel cielo ci fossero molte più stelle che in quello sopra la città. E non gli credevo quando mi spiegava che si trattava delle stesse stelle, che non erano più luminose, che era il buio che le circondava che le faceva apparire più brillanti. È il contrasto dei colori, mi diceva con dolcezza, quando mangi gli spaghetti e ti schizza la salsa di pomodoro addosso, la macchia si vede molto di più su una maglietta bianca che su una rossa. Anche se la pasta mi sembrava che c’entrasse poco con le stelle, avevo l’impressione di aver capito. Quando pensavo a mio padre ero assalito dalla nostalgia. E ancor di più dopo le fughe in camera. Pur avendo condiviso con lui poco tempo, ne serbavo un ricordo vivo e associavo alla sua immagine i pochi momenti belli della mia vita.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 2)

Maggio 1947

Fu un quattro di matematica che cambiò radicalmente la mia infanzia. L’anno scolastico stava per finire, era la resa dei conti e un brutto voto sarebbe stato difficilmente rimediabile. Tanto mi piaceva studiare italiano e letteratura, quanto poco mi entusiasmava la matematica. Allora mi sembravano solamente concetti astratti e inutili e impiegai parecchi anni per rendermi conto che una mente scientifica e una certa familiarità con numeri e operazioni possono aprire molte porte e rendere più facile la vita. Bastava leggessi una volta le poesie e le imparavo a memoria. Pascoli, Leopardi, Carducci, mi piacevano tutti. Con i numeri, invece, non c’era niente da fare. Spesso la sera, quando non riuscivo ad addormentarmi, invece che contare le pecore recitavo le poesie a voce alta, ottenendo però l’effetto contrario. In compagnia di ermi colli e cavalline storne potevo restare sveglio per ore. Tornai a casa e lungo il cammino immaginai con apprensione la reazione della vecchia strega alla notizia del brutto voto rimediato nell’ultima prova scritta di matematica. Giunto a casa, la temuta domanda non si fece attendere.
“Come è andata a scuola? Come è andata la prova di matematica?”.
Avrei voluto mentire, ma sapevo che era inutile perché sarei stato scoperto in seguito con conseguenze ben peggiori.
“Male. Quattro”.
Furono le uniche due parole che mi uscirono di bocca.
“Sei il solito disgraziato!” urlò sollevando in alto le mani. “Sei un cavallo pazzo! Ecco, questi sono i risultati della tua testardaggine, con tutti i sacrifici che fa mia figlia per te!”.
La compagna di mio padre passava a trovare la madre una volta alla settimana. Con me non si tratteneva mai più di dieci minuti nei quali mi rivolgeva le solite domande, come stavo, come andava la scuola, come andava con la “nonna”, ricevendo in cambio le solite bugie, andava sempre tutto a meraviglia.
“Sacrifici? Quali sacrifici?” domandai stupito.
La risposta giunse tagliente, riaprendo una ferita mai del tutto rimarginata.
“Almeno lei non ti ha abbandonato, come tua madre”.
Sbattermi in faccia ciò che per me era una dolorosa e insopportabile verità fu la goccia che fece traboccare un vaso già colmo. Non avrei trascorso un solo giorno di più in quella casa. Andai in bagno e sfilai la chiave dalla toppa, mi sedetti sul divano e iniziai distrattamente a sfogliare un libro in attesa del momento propizio. Quando la vidi dirigersi verso il bagno, strinsi la chiave tra le dita. Aspettai che chiudesse la porta, mi alzai di scatto dal divano e un istante dopo l’avevo già chiusa dentro. Incurante delle grida che giungevano dall’interno, corsi verso l’ingresso e un istante dopo stavo correndo in strada, felice, verso una libertà che avevo sognato per quattro lunghi anni. Mentre correvo – una corsa buffa, caricando più sulla gamba sinistra che su quella destra, ricordo indelebile della malattia - pensavo al momento in cui avrei riabbracciato mio padre. Ero sicuro che avrebbe capito e avrebbe accettato che ritornassi a vivere insieme a lui. Erano tre mesi che non andavo a casa di mio padre. L’ultima volta che ci eravamo riuniti tutti insieme era stato il giorno del suo compleanno. In quell’occasione avevo rivisto anche Elisa, la figlia che aveva avuto con la sua nuova compagna. Aveva due anni in meno di me e viveva insieme ai nonni paterni. La incontravo raramente, quasi sempre in occasione delle festività, e ogni volta mi stupivo di quanto fosse cresciuta durante i mesi in cui non ci eravamo visti. Era come incontrare ogni volta una persona nuova.

“Papà, non voglio più vivere con quella vecchia strega, non ce la faccio più, è un inferno!”.
Non rispose. Mi lanciò uno sguardo severo, di rimprovero. Non era d’accordo con la mia fuga. Erano gli anni duri dell’immediato dopoguerra, quelli delle vendette tra vinti e vincitori, quando i morti erano all’ordine del giorno e sembrava che la guerra non fosse mai finita. Mio padre era noto per le sue idee comuniste e riceveva in continuazione minacce di morte. Non si fidava a farmi vivere insieme a lui sotto lo stesso tetto. Rimase in silenzio a guardarmi per un tempo che mi sembrò infinito, poi mi fece cenno di avvicinarmi, mi cinse le spalle con un braccio e con la mano iniziò ad accarezzarmi dolcemente la testa.
“Va bene. Ma non pensare che qui sarà il paradiso. Continuerai ad andare a scuola e dovrai imparare a badare a te stesso. Sono molto impegnato, lo sai, e non potrò stare molto tempo insieme a te. Non sarà facile. Te la senti?”.
Annuii sorridente. Ma in realtà non sapevo bene ciò che mi aspettava.

Il periodo più duro da superare fu quando finì l’anno scolastico. Era trascorso appena un mese da quando ero ritornato a vivere con mio padre. Finita la scuola, le mie giornate scorrevano lente e monotone. Mio padre usciva sempre presto al mattino e rientrava la sera tardi. Non dimenticava mai, prima di uscire, di prepararmi sul tavolo un paio di fette di pane con la marmellata. Mi alzavo tardi, mi piaceva restare a letto a fantasticare immaginandomi battaglie tra supereroi misteriosi e mostri tanto brutti quanto cattivi. A volte, quando i mostri erano particolarmente crudeli e sadici, mi capitava di ripensare alla vecchia strega e mi venivano i brividi al solo pensiero che avrei potuto in futuro rivederla. Dopo la colazione, iniziavo a vagare per la casa, un pellegrinaggio senza meta in cui le varie stanze venivano visitate senza un ordine predeterminato. La porta d’ingresso dava su un ampio vano che faceva apparire la casa più grande di quanto in realtà fosse. Situate ai quattro angoli della sala si trovavano le porte di accesso alla cucina, al bagno e alle due camere da letto. Quando mi veniva fame, di solito piuttosto presto, uscivo per comprare qualcosa con le poche centinaia di lire che mio padre mi lasciava ogni due o tre giorni sul tavolo. Pane, latte, mais, riso e pasta non mancavano quasi mai. Una volta alla settimana mi potevo permettere un po’ di frutta e verdura, il pesce invece ogni quindici giorni, la carne non più di una volta al mese e solamente se il prezzo era inferiore alle cinquecento lire al chilo. I negozi desolatamente vuoti non erano un bello spettacolo, ma ero troppo piccolo per fermarmi a riflettere sulle drammatiche conseguenze della guerra. A me piaceva fare la spesa, quello che si trovava, e mi intrattenevo sempre più del necessario. Era l’unico momento della giornata in cui potevo scambiare due parole con qualcuno. Alberto il panettiere, Maria la fruttivendola, Mario il macellaio, Trieste la pescivendola, che era nata due giorni dopo la fine della prima guerra mondiale. Erano la mia famiglia.
“Ciao Guido, come va?“.
“Bene. E lei signor Alberto?”.
“Ah, i soliti dolori. È la dura legge dell’età, figliuolo. Sai , si dice che uno ha gli anni che si sente, ma non è mica vero. Io di spirito mi sento come se avessi vent’anni, andrei a ballare tutte le sere, ma vaglielo a dire alla mia schiena... a lei non gliene frega niente del mio spirito e sa benissimo che fra tre settimane sulla torta ci saranno sessantacinque candeline! È da quando avevo dodici anni che faccio questo mestiere e mi sveglio ogni giorno alle tre del mattino, quando il resto del mondo sta ancora sognando. Smetterei volentieri, ma non posso, con la pensione che mi darebbero morirei di fame”.
“Non smetta per favore, il pane buono come lo fa lei non lo fa nessuno” lo supplicai sincero.
Nonostante la solitudine, non mi sono mai pentito di essere ritornato a vivere insieme a mio padre. Ancora oggi però vengo assalito ogni tanto dal rammarico per aver rinunciato, in seguito a quella scelta, a un’infanzia priva di responsabilità. Un’infanzia normale che non ho potuto vivere per essere stato costretto dagli eventi a crescere troppo in fretta.
A settembre iniziai nuovamente ad andare a scuola. Quell’anno frequentavo la quinta elementare. La sera precedente il primo giorno di scuola, mio padre entrò nella mia stanza, si sedette sul letto vicino a me e guardandomi serio negli occhi mi disse lentamente e scandendo le parole, come ogni qualvolta che doveva dirmi qualcosa che non doveva entrare da un orecchio e uscire dall’altro: “È importante che tu vada a scuola. Devi ritenerti fortunato per poterlo fare. Il mondo è pieno di gente cattiva, che se ne approfitta dei più deboli. E gli ignoranti sono deboli, nella vita perdono sempre. Devi studiare. Devi arrivare a sapere per poter giudicare. Per avere una tua opinione e non far tua quella di coloro che sono più convincenti di altri. Ma soprattutto per non essere indifferente. L’indifferenza è abulia, parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. È la morte della storia”.
Era proprio un partigiano convinto.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 3)

Settembre 1948

“Allora? Sei pronto? Dai che voglio passare dal barbiere prima di andare dal sarto”.
Si allacciò l’ultimo bottone della camicia, prese una cravatta dal cassetto e si fece il nodo guardandosi allo specchio. Con il palmo della mano si sistemò una ciocca ribelle. Diede un’ultima sistemata alla cravatta e rimase qualche secondo a fissare la sua immagine riflessa. Poi si volse verso di me.
“Fatti vedere”.
Mi avvicinai e restai dritto in piedi di fronte a lui, le mani lungo i fianchi, il mento leggermente sollevato. Nonostante fosse sabato mi aveva fatto indossare il vestito della domenica. I pantaloni corti beige, la camicia bianca e il gilet testa di moro. Erano già trascorsi cinque anni dall’armistizio. Nel frattempo l’Italia era diventata una Repubblica e in primavera la Democrazia Cristiana aveva vinto le prime elezioni, ma il giorno in cui era stata firmata la pace con l’Inghilterra e gli Stati Uniti era particolarmente sentito da mio padre e come ogni anno, dalla fine della guerra, si sarebbe riunito con tutti gli amici più cari. Ci teneva a fare bella figura. Non doveva apparire che stavamo attraversando un brutto momento dal punto di vista economico. Non voleva essere compatito, non voleva gli venissero offerti dei soldi. Non ne aveva mai chiesti in prestito e ne andava fiero.
“Lavati i denti e andiamo”.
Andai in bagno per eseguire quello che più che un invito era stato un ordine. Quando uscii dal bagno stava indossando il cappotto. Non faceva freddo, ma la tasca interna era un buon posto per nascondere la pistola. Sapevo che mio padre girava armato. Un giorno lo avevo sorpreso mentre riponeva la pistola tra le camicie in un cassetto. Questa non la devi toccare, mai, per nessuna ragione, mi aveva detto serio, frustrando sul nascere la mia curiosità. Uscii contento, accompagnato dal ricordo dell’anno precedente in cui la giornata era trascorsa tra i ricordi e le battute dei compagni di mio padre. Mi divertiva sentirlo chiamare con il nome di battaglia, Cesare. Non mi ero perso nemmeno mezza parola dei loro discorsi, girando la testa da una parte all’altra come se stessi assistendo alla finale del torneo di Wimbledon. Andammo al bar, dove ci stava aspettando suo fratello. Non si assomigliavano per niente. La domanda più ricorrente che veniva loro rivolta in tono scherzoso era se fossero sicuri di essere entrambi figli dello stesso padre e della stessa madre. Solitamente lo zio era molto affettuoso, generoso di buffetti e carezze sulle guance e sulla testa. Quel giorno invece, quando entrammo nel bar, non mi degnò nemmeno di uno sguardo. Era visibilmente nervoso, sembrava avesse fretta, come se avesse un appuntamento con qualcuno. Ordinarono un caffè. Mio padre si mise a sfogliare il giornale.
“Senti, vai dal barbiere prima di passare da Lollo?”.
“Sì, ma prima devo passare dal sarto, questo cappotto proprio non ce la fa più. Perché?”.
“No, niente. Magari vi accompagno, così sto con Guido”.
Ah, ma allora sa che esisto, pensai con sollievo.
“Non è necessario, ma se ti fa piacere...” disse mio padre distrattamente, continuando a leggere.
“No! Hanno arrestato Ninetto!” esclamò all’improvviso. “Ti rendi conto della situazione di merda che si è creata? Che schifo... prima eravamo gli eroi, i salvatori della patria, ora ci trattano come sovversivi. Dicono che mettiamo in pericolo la democrazia appena nata. E la stampa dà credito a qualsiasi menzogna, è incredibile. Un qualsiasi maresciallo dei carabinieri, uno che non si sogna nemmeno cosa sia lottare per la democrazia... io non sopporto la gente così, di quelli che gli va bene tutto. C’è il fascismo? Bene. Il fascismo viene sconfitto? Bene lo stesso. C’è la monarchia? Bene. L’Italia diventa una Repubblica? Bene lo stesso. Ma come ***** fa ad andargli sempre bene tutto? Non ce l’hanno un’idea su come dovrebbero andare le cose, un’opinione su cosa è giusto e cosa no?.... Beh, uno di questi si sveglia una mattina e dice che tizio è un sovversivo e la notizia esce sui giornali. E quando esce sui giornali.... stac... hai appiccicata sulla fronte l’etichetta e togliersela diventa quasi impossibile”.
Aveva accompagnato la parola etichetta colpendosi la fronte con il palmo della mano. Continuò: “Ah, e la sai l’ultima. Girano voci che vogliano arrestare anche me, credono che sia il responsabile dell’attentato contro la caserma di Pegli. Piuttosto che farmi dei giorni di galera da innocente mi faccio ammazzare”.
E istintivamente appoggiò la mano sul cappotto, all’altezza della tasca interna.
“Dovresti invece evitare di rispondere alle ingiustizie con la violenza” lo ammonì il fratello. “Non ne vale la pena, e poi se sei innocente.....”.
“Se sei innocente sei tranquillo” lo interruppe mio padre con sarcasmo, e aggiunse, nel caso non fosse stata colta l’ironia delle sue parole: “Non gliene frega niente se sei innocente o colpevole”.
Mi stavo annoiando. Non capivo i discorsi che facevano. E poi nel bar c’era un’aria irrespirabile, una cappa di fumo denso che avrebbero dovuto mettere un cartello - se ti alzi dalla sedia e non vedi il bancone, cammina con prudenza. Fui contento così quando mio padre ripiegò il giornale, lo appoggiò sul tavolo e si alzò. Scattai dalla sedia e lo anticipai all’uscita.
La moglie del sarto ci invitò ad entrare. Offrì a mio padre e allo zio un caffè che rifiutarono educatamente.
“La ringrazio, lo abbiamo appena preso al bar”.
Il laboratorio era stato ricavato in una stanza dell’appartamento. Su un grosso tavolo di legno troneggiava la macchina da cucire. C’erano pezzi di stoffa ovunque, camicie e pantaloni ammucchiati sulle sedie e su un divano. Mi domandai come facesse a trovare le cose in mezzo a quel disordine. Il sarto ero un tipetto basso e magro che non perdeva occasione di ricordare al mondo intero quanto fosse bravo a fare il suo mestiere.
“Venga, ecco, si tolga questo cappotto sdrucito che gliene faccio uno su misura, uno che così bello non l’ha mai visto, talmente bello ed elegante che per strada la gente si volterà ad ammirarlo”.
Aiutò mio padre a togliersi il cappotto vecchio e lo gettò sopra una montagna di vestiti. Da un cassetto estrasse un metro e iniziò a misurare braccia, torace, vita e gambe di mio padre. Ripeteva ad alta voce i numeri e li annotava su un bloc notes.
“Mi creda, sarà il cappotto più bello che abbia mai avuto, le calzerà a pennello. La stoffa la sceglierà poi con mia moglie. Ma il segreto del successo sta tutto qui” e indicò il foglietto su cui aveva scritto le varie misure. “Un centimetro in più o in meno fa la differenza. Certo, poi bisogna saper rifinire le cuciture, ma delle buone misure sono come le fondamenta di una casa, reggono tutto il resto”.
Erano trascorsi almeno dieci minuti quando mio padre guardò l’ora senza dire niente, sperando che il sarto capisse che aveva fretta. Negli anni trascorsi insieme ho sempre avuto l’impressione che mio padre avesse fretta, che non potesse mai fermarsi per rilassarsi un po’. Aveva sempre qualcosa da fare e si lamentava in continuazione che per lui il tempo scorreva troppo velocemente. Quella mattina stranamente anche lo zio era teso e passeggiava avanti e indietro per la stanza, fermandosi di
tanto in tanto per osservare prima il sarto, poi il fratello. Gli aveva detto che lo accompagnava per stare insieme a me, ma fino a quel momento non mi aveva rivolto la parola nemmeno una volta. Indifferente alla sua indifferenza, girovagavo incantato per la stanza toccando con curiosità i vari tessuti. Quel luogo caotico e colorato mi intrigava. Afferrai un paio di forbici che spuntavano da sotto un cumulo di stoffa rossa e chiesi se potevo tagliarne un pezzettino.
“Certo ragazzino, ma fai attenzione a non farti male”.
“Possibile che non puoi stare fermo un attimo?” sospirò mio padre.
Non lo ascoltai e tagliai una lunga striscia rossa che mi allacciai intorno alla fronte. “Ecco, un’ultima misura ancora e.... fatto! Mia moglie le mostrerà il catalogo. Il mio consiglio è un grigio scuro, ma stoffa e colore spettano a lei. In ogni caso sono sicuro che farà un’ottima scelta. Passi verso la fine della prossima settimana, il suo magnifico cappotto la starà aspettando ansioso di essere indossato”.
Dopo un po’ la sua loquacità diventava irritante. Mio padre impiegò meno di cinque minuti per decidere la stoffa e il colore. Ringraziò e salutò la moglie del sarto, dopodiché uscimmo dirigendoci dal barbiere.
Mio padre e mio zio camminavano svelti discutendo animatamente. Li seguivo a un paio di metri, saltellando sulle punte dei piedi attento a non pestare le linee tra una pietra e l’altra del marciapiede. Iniziò a piovigginare e arrivammo dal barbiere un attimo prima che si scatenasse il diluvio. C’erano un paio di persone in attesa del loro turno e altrettante che avevano trovato un improvviso riparo dalla pioggia.
“Una mezz’oretta” rispose il barbiere a mio padre che si era informato su quanto tempo avrebbe dovuto aspettare.
“Vado. Devo comprare il pane e l’insalata prima di tornare a casa per pranzo, se vuoi continuare ad avere un fratello. La conosci tua cognata, sai com’è” disse ridendo lo zio dopo una decina di minuti. Poi, diventando improvvisamente serio, aggiunse: “Ci sentiamo. Mi raccomando, fai attenzione”.
“E a che? Tu piuttosto, occhio che non ti becchi un fulmine” gli fece eco mio padre con ironia, interrotto da un tuono.
“Ciao Guido”.
“Ciao” lo salutai senza voltarmi, intento com’ero nel raccogliere a mucchietti con i piedi le ciocche di capelli sparse sul pavimento.
Finalmente fu il turno di mio padre. Il barbiere lo fece accomodare sulla sedia, gli mise sul petto un asciugamano bianco, glielo annodò intorno al collo e iniziò a spennellargli di schiuma le guance, il mento e il collo. Prese il rasoio e con movimenti rapidi e sicuri incominciò a tagliargli la barba. Una strisciata sul viso, una sull’asciugamano appoggiato sull’avambraccio per pulire la lama. Una sul viso, una sull’asciugamano. Lo scorrere della lama affilata sulla pelle senza che si producessero tagli mi lasciava esterrefatto. Una volta terminata la barba, passò ai capelli. Le forbici nella destra, il pettine nella sinistra, movimenti secchi, repentini. Seguiva uno schema, era evidente, nessuna sforbiciata era casuale, e alla fine mio padre, guardandosi nello specchio, si disse molto soddisfatto.
“Ottimo lavoro, come al solito”.
Pagò e ce ne andammo.
Pioveva forte, il cielo era diventato improvvisamente buio. I bagliori dei lampi squarciavano l’oscurità e illuminavano le nuvole gonfie. Ad ogni rimbombo dei tuoni ero scosso da un tremito lungo tutto il corpo. Mio padre mi prese la mano.
“Vieni, stammi vicino che se no ti bagni. Occhio alle pozzanghere” e mi tirò leggermente a sé in modo che entrambi fossimo al riparo sotto l’ombrello.
Facevo fatica a mantenere il suo passo. A metà di via Cantore svoltammo in via Rosselli. Lo scrosciare incessante della pioggia non accennava a diminuire. Avevo ormai i piedi fradici e rinunciai ad evitare le pozze d’acqua, già facevo fatica a restare dietro a mio padre.
“Guarda sta arrivando il 2, dai che lo prendiamo” e accelerò ancor di più l’andatura in direzione della fermata. Stavamo per salire sul filobus quando qualcuno chiamò mio padre. A meno di due metri da noi, fermo sul marciapiede, un uomo avvolto in un impermeabile nero ci stava osservando. Mio padre lo squadrò con aria interrogativa, senza dire nulla.
“Mi segua, senza fare sciocchezze” disse mostrandogli un distintivo dei carabinieri.
Fu un attimo. Un istante che segnò il resto della mia vita. Così fulmineo che non mi resi conto di cosa stesse accadendo. Ma le tragiche immagini e la colonna sonora si impressero in modo indelebile nella mia memoria. Mio padre che mi allontana con uno spintone. La sua mano che slaccia un bottone del cappotto e ci si infila dentro. Uno sparo sordo. Il braccio teso dell’uomo con l’impermeabile nero. Il fumo denso che fuoriesce dalla canna di una pistola. Mio padre che si accascia sul marciapiede. L’acqua intorno al corpo che lentamente si tinge di rosso. Le urla delle persone presenti. L’ululato continuo e assordante della sirena dell’ambulanza. Immagini e suoni che hanno sempre avuto una duplice funzione: farmi rivivere al rallentatore la morte di mio padre e alimentare negli anni a venire un crescente desiderio di vendetta.
Un medico provò invano a rianimarlo. Quando arrivammo all’ospedale era già morto. Lo avevano ammazzato davanti ai miei occhi. A coloro che si avvicinavano per cercare di confortarmi domandavo in lacrime sempre la stessa cosa: “Perché?”. Per la prima volta nella mia vita mi sentii completamente solo. Solo a combattere contro un destino crudele. Avevo la sensazione di non meritarmi ciò che mi era accaduto. Perché mia madre mi aveva abbandonato? Perché avevano sparato a mio padre? Perché gli altri bambini avevano genitori e nonni che si prendevano cura di loro e io invece non avevo nessuno? Perché?

continua qui di seguito......
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 3-seconda parte)

Venni affidato nuovamente alla mia vecchia tutrice. Ma questa volta, per fortuna, la convivenza durò appena un paio di settimane. La vecchia infatti decise di mandarmi in un istituto ai Piani d’Invrea, vicino a Varazze. Fondato da un ex tenente degli alpini con lo scopo di accogliere ragazzi con una situazione famigliare difficile e permettere loro di proseguire gli studi, era passato poi sotto il controllo di una fondazione svizzera che aveva nominato un nuovo direttore, proveniente da Roma, il Dr. Tatarella. Gattasso, il fondatore, aveva il vizio di scommettere sulle corse dei cavalli e con il trascorrere degli anni si era indebitato fino al collo. Le minacce sempre più frequenti dei creditori lo avevano costretto, a malincuore, a cedere sia la proprietà che la gestione di quella che sarebbe diventata la Casa Svizzera. In realtà, l’edificio e il luogo in cui sorgeva non avevano niente a che vedere con il piccolo stato alpino. Era stato costruito in perfetto stile coloniale a due passi dal mare. Era una palazzina a tre piani dello stesso giallo di cui si tingono gli occhi in un bosco di castani al principio dell’autunno. Il piano terra, dove erano situate una grande sala da pranzo e la cucina, era circondato esternamente da un porticato formato da esili colonne di marmo. Sopra al porticato era stato ricavato un ampio terrazzo al quale si poteva accedere da tutte le camere da letto che occupavano, insieme ai bagni, l’intero secondo piano. La mansarda era utilizzata come ripostiglio. Nessuno, a parte il direttore dell’istituto, aveva il permesso di entrarvi e il fatto che l’accesso fosse sempre chiuso a chiave aveva fatto nascere leggende e miti su ciò che accadeva dietro quella pesante porta di legno. La sola minaccia di essere rinchiusi per punizione in quel luogo circondato dal mistero era più che sufficiente per evitare qualsiasi comportamento che non rispet¬tasse le regole vigenti all’interno della casa. L’arredamento della casa era semplice ma curato. Era evidente che non ci fosse spazio per il superfluo. In ciascuna stanza erano alloggiati due ragazzi. I servizi e le docce erano in comune per tutti gli inquilini, con l’esclusione del direttore che aveva una stanza con il bagno privato.
Il primo novembre la tutrice mi accompagnò all’istituto. Il mio unico bagaglio era costituito da una vecchia valigia di cuoio scuro con dentro pochi vestiti, un quadretto con una foto di mio padre, il sussidiario, lo spazzolino da denti, un camioncino di legno. Arrivati al cancello si fermò e appoggiandomi una mano sulla spalla mi ruotò verso di lei.
“Su, ora vai, il direttore ti sta aspettando. Comportati bene. Ti verrò a trovare ogni tanto”.
Attraversai il cancello e giunto di fronte al portone mi voltai un’ultima volta verso la vecchia e accennai un saluto con la mano. Poi suonai il campanello e rimasi in attesa. Ero emozionato e un brivido mi attraversò la schiena. L’uomo che mi aprì mi sorrise e l’ansia che mi aveva colto all’improvviso svanì in un istante.
“Tu devi essere Guido, vero? Vieni, entra, sei il benvenuto”.
Non ero abituato a tanta cordialità. Ma abituarsi alle cose belle è un attimo e mi sentii subito a mio agio, come se quel posto, invece che essermi ignoto, lo conoscessi da sempre.
A volte la prima impressione è quella giusta. L’istituto accoglieva ragazzi di età compresa tra gli undici e quindici anni. Data la mia situazione particolare, mi era stato concesso l’ingresso qualche mese prima che compissi l’età minima per l’ammissione. Diventai presto la mascotte dell’istituto e tutti, direttore e personale compresi, mi trattavano con un occhio di riguardo. In meno di anno recuperai il sorriso e dai miei occhi svanì il velo di malinconia che era apparso dopo la morte di mio padre. Vengo colto da un pizzico di amarezza se penso che, nonostante fosse un istituto per ragazzi cosiddetti “difficili”, mai più in futuro nel mondo “normale” mi sarebbe risultato così facile tessere buone relazioni e sincere amicizie come quelle che nacquero nella Casa Svizzera.
Trascorsi i primi tre anni sentendomi a casa.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo3-seconda parte)

Continua capitolo3....

Venni affidato nuovamente alla mia vecchia tutrice. Ma questa volta, per fortuna, la convivenza durò appena un paio di settimane. La vecchia infatti decise di mandarmi in un istituto ai Piani d’Invrea, vicino a Varazze. Fondato da un ex tenente degli alpini con lo scopo di accogliere ragazzi con una situazione famigliare difficile e permettere loro di proseguire gli studi, era passato poi sotto il controllo di una fondazione svizzera che aveva nominato un nuovo direttore, proveniente da Roma, il Dr. Tatarella. Gattasso, il fondatore, aveva il vizio di scommettere sulle corse dei cavalli e con il trascorrere degli anni si era indebitato fino al collo. Le minacce sempre più frequenti dei creditori lo avevano costretto, a malincuore, a cedere sia la proprietà che la gestione di quella che sarebbe diventata la Casa Svizzera. In realtà, l’edificio e il luogo in cui sorgeva non avevano niente a che vedere con il piccolo stato alpino. Era stato costruito in perfetto stile coloniale a due passi dal mare. Era una palazzina a tre piani dello stesso giallo di cui si tingono gli occhi in un bosco di castani al principio dell’autunno. Il piano terra, dove erano situate una grande sala da pranzo e la cucina, era circondato esternamente da un porticato formato da esili colonne di marmo. Sopra al porticato era stato ricavato un ampio terrazzo al quale si poteva accedere da tutte le camere da letto che occupavano, insieme ai bagni, l’intero secondo piano. La mansarda era utilizzata come ripostiglio. Nessuno, a parte il direttore dell’istituto, aveva il permesso di entrarvi e il fatto che l’accesso fosse sempre chiuso a chiave aveva fatto nascere leggende e miti su ciò che accadeva dietro quella pesante porta di legno. La sola minaccia di essere rinchiusi per punizione in quel luogo circondato dal mistero era più che sufficiente per evitare qualsiasi comportamento che non rispet¬tasse le regole vigenti all’interno della casa. L’arredamento della casa era semplice ma curato. Era evidente che non ci fosse spazio per il superfluo. In ciascuna stanza erano alloggiati due ragazzi. I servizi e le docce erano in comune per tutti gli inquilini, con l’esclusione del direttore che aveva una stanza con il bagno privato.
Il primo novembre la tutrice mi accompagnò all’istituto. Il mio unico bagaglio era costituito da una vecchia valigia di cuoio scuro con dentro pochi vestiti, un quadretto con una foto di mio padre, il sussidiario, lo spazzolino da denti, un camioncino di legno. Arrivati al cancello si fermò e appoggiandomi una mano sulla spalla mi ruotò verso di lei.
“Su, ora vai, il direttore ti sta aspettando. Comportati bene. Ti verrò a trovare ogni tanto”.
Attraversai il cancello e giunto di fronte al portone mi voltai un’ultima volta verso la vecchia e accennai un saluto con la mano. Poi suonai il campanello e rimasi in attesa. Ero emozionato e un brivido mi attraversò la schiena. L’uomo che mi aprì mi sorrise e l’ansia che mi aveva colto all’improvviso svanì in un istante.
“Tu devi essere Guido, vero? Vieni, entra, sei il benvenuto”.
Non ero abituato a tanta cordialità. Ma abituarsi alle cose belle è un attimo e mi sentii subito a mio agio, come se quel posto, invece che essermi ignoto, lo conoscessi da sempre.
A volte la prima impressione è quella giusta. L’istituto accoglieva ragazzi di età compresa tra gli undici e quindici anni. Data la mia situazione particolare, mi era stato concesso l’ingresso qualche mese prima che compissi l’età minima per l’ammissione. Diventai presto la mascotte dell’istituto e tutti, direttore e personale compresi, mi trattavano con un occhio di riguardo. In meno di anno recuperai il sorriso e dai miei occhi svanì il velo di malinconia che era apparso dopo la morte di mio padre. Vengo colto da un pizzico di amarezza se penso che, nonostante fosse un istituto per ragazzi cosiddetti “difficili”, mai più in futuro nel mondo “normale” mi sarebbe risultato così facile tessere buone relazioni e sincere amicizie come quelle che nacquero nella Casa Svizzera.
Trascorsi i primi tre anni sentendomi a casa.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 4)

Dicembre 1951

Mi ero appena sdraiato sul letto di ritorno dalla chiesa, che non frequentavo per fede ma per poter incrociare di sfuggita gli sguardi delle ragazze, quando udii bussare. Dietro alla porta della camera apparve una signora grassa sulla cinquantina, eccessivamente truccata, addobbata come un albero di natale. Abbagliato dal luccichio di orecchini, collane, anelli e bracciali, mi sforzai di sorriderle, cercando invano di mascherare la seccatura per aver dovuto rimandare l’inizio della siesta.
“Scusa dolcezza, ti ho disturbato?”.
Il suo tono melenso mi irritò ancor di più e mi indusse a risponderle sinceramente.
“Mi ero appena sdraiato per riposarmi”.
“Scusa” ripeté con la stessa voce mielosa. “Mi dispiace. È che avrei bisogno di una tua foto, sto preparando una sorpresa per Natale per voi ragazzi”.
“Non ne ho” risposi laconico.
“Tesoro, forse potresti chiederlo alla tua mamma”.
“Non ce l’ho una madre”.
“Come non hai una madre? È morta? Poverino... Forse allora a tuo padre”.
Di male in peggio.
“È morto anche lui” ribattei lapidario.
Sopraffatta da tanta ostilità, abbandonò la stanza richiudendo la porta alle sue spalle.

I rapporti con la signora Milton, così si chiamava quella signora americana, iniziarono a cambiare il giorno dopo quando, durante le pulizie nella sala da pranzo, ritrovai un favoloso anello di diamanti di sua appartenenza.
Quando glielo restituii mi ringraziò con una carezza e mi sussurrò in un orecchio:
“Per sdebitarsi bene non bisogna avere fretta. Verrà un giorno in cui si presenterà l’occasione per dimostrarti la mia riconoscenza”.
Non si sbagliava.
Mi rivelò inoltre che quell’anello le era stato regalato dal suo quinto marito, un ex console svizzero conosciuto a New York per amore del quale aveva vinto la paura del mare e attraversato l’oceano, trasferendosi a vivere in Svizzera. L’attuale marito faceva parte del consiglio d’amministrazione della fondazione che gestiva l’istituto. Poi, tutto d’un fiato, mi raccontò la storia della sua vita. Prima di trasferirsi nel vecchio continente non si era affatto annoiata. A vent’anni si era sposata con un drammaturgo inglese di fama internazionale. L’idillio era durato alcuni anni, durante i quali aveva studiato letteratura e storia, fino a quando a una mostra di artisti emergenti aveva incontrato un allora sconosciuto pittore canadese e se ne era innamorata. Dopo nemmeno un anno era ritornata a una vita più agiata sposando il proprietario di un rinomato ristorante italiano che frequentava abitualmente per soddisfare i propri piaceri culinari. La relazione era durata una decina d’anni nei quali si era dedicata interamente alla sua grande passione, la scrittura. Il suo primo romanzo aveva ottenuto una buona risposta da parte della critica e del pubblico e ogni libro successivo aveva superato in vendite il precedente. Quella che sembrava una tranquilla relazione coniugale era stata interrotta inaspettatamente da una notte di follia consumata, tra alcol e droga, in compagnia di un famoso attore nell’attico di un hotel di Los Angeles. Una squallida storia di sesso che fortunatamente per lei era durata meno di un anno, un tempo comunque sufficiente per sposarsi per la quarta volta. Un magnate svizzero aveva finanziato l’ultimo lavoro del marito e in occasione dell’uscita del film nelle sale cinematografiche aveva organizzato una festa al consolato. Durante la serata era rimasta affascinata dai modi affabili del console, il quale, dopo qualche settimana di indecisione, aveva messo la parola fine a una relazione, all’apparenza felice, durata oltre vent’anni. Quella donna, amante dell’arte, della cultura e della buona cucina, e capace di ammaliare i suoi interlocutori con una parlantina travolgente e mai banale lo aveva letteralmente stregato.

Si vantava spesso di essere stata lei ad aver scelto i propri mariti. E, una volta stufa, di averli anche lasciati.
Gli uomini sono come i frutti di stagione, sentenziava, li devi saper cogliere quando sono maturi, dolci e succosi. Ne godi l’essenza nel loro momento migliore. Poi cambia la stagione e si cambia frutto.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla - 2° clas. al Premio Naz. di Poesia e Narrativa Il Golfo 2013

Condivido con i lettori del forum la gioia e la soddisfazione per il premio come 2° classificato assegnato a "Il baco e la farfalla" al Premio Nazionale di Poesia e Letteratura Il Golfo 2013.

E ricordo, per chi fosse interessato, che sto pubblicando sul forum i capitoli del libro.

Un saluto,
Diego
 

GermanoDalcielo

Scrittore & Vulca-Mod
Membro dello Staff
Diego, ti chiedo per gentilezza di non aprire nuove discussioni, il regolamento indica chiaramente che ogni autore può aprire un solo thread promozionale.
Incollali qui come ho "aggiustato" io
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 5)

Aprile 1952

La signora Milton mi stava aspettando in cortile. Ero in ritardo. Mi guardai allo specchio. Mi sfiorai con l’indice il mento sul quale erano spuntati tre peli sottili. Il vestito che mi aveva regalato mi calzava a pennello. Un vestito così non me lo sarei mai potuto permettere.
Dovevo molto a quella donna, ne ero consapevole. Non tanto per il vestito. Le ero riconoscente per l’affetto che provava per me. Nonostante ci conoscessimo solamente da quattro mesi, mi trattava come un figlio. Forse vedeva in me quello che non aveva mai potuto avere per una malformazione congenita alle ovaie. E in quel momento non potevo immaginare nemmeno lontanamente l’importanza che avrebbe avuto parecchi anni dopo quando, con un foglietto su cui erano annotati un nome e un indirizzo, mi avrebbe offerto una possibilità di riscatto senza volere nulla in cambio.

Scesi le scale di corsa. Era una splendida giornata.
“Arriveremo tardi” mi rimproverò bonariamente.
“Sicuro che Dio non se ne va” scherzai strizzando un occhio.
Era stata lei a convincermi a fare la cresima. L’anno precedente, quando avrei dovuto farla insieme ai miei coetanei, avevo rinunciato. Non credevo in Dio, tanto meno in uno buono e giusto. La sventura che senza tregua si era abbattuta su di me fino allora mi sembrava tutto fuorché provvida. Ma quell’eccentrica scrittrice americana era riuscita a farmi credere possibile un futuro diverso e quando si era offerta di farmi da madrina non avevo saputo dirle di no.
La chiesa non era lontana, meno di dieci minuti a piedi. Ci avviammo di buon passo, ma ogni decina di metri ero costretto a rallentare per aspettare la signora Milton che zampettava goffa sui tacchi facendo del suo meglio per non rimanere indietro.
“Dopo essere stata con così tanti uomini, ha mai pensato di come sarebbe vivere da sola? In fondo i soldi non le mancano”.
“Non è solo una questione di soldi, tesoro mio. La società impone come modello la coppia. Una persona sola non sarebbe né capita né accettata e verrebbe in breve tempo marginalizzata. E per di più donna! Ma lo sai che nel paese di Charles, mio marito, le donne non possono nemmeno votare? E poi con lui sto bene, sono felice. La condivisione esalta le emozioni belle e attenua quelle brutte. L’uomo non è fatto per vivere da solo, è un animale che vive in branco. Gli indios delle Ande raccontano che se a un condor strappi gli artigli e il becco, il condor non è più un condor. All’uomo puoi strappare le mani, i piedi, puoi strappare perfino gli occhi, la lingua, e l’uomo rimane sempre un uomo. L’uomo non è più uomo quando è solo”.
La fissai senza smettere di camminare. Pensai che forse, quando era morto mio padre, avevo smesso di essere uomo, ma ora per fortuna quella sensazione soffocante di isolamento mi aveva abbandonato. Il ricordo di mio padre era comunque vivo e la solitudine, attraverso un processo lento ma inesorabile, si stava trasformando col trascorrere del tempo in rabbia. Una rabbia che non riuscivo ancora ad indirizzare verso un obiettivo ben definito, ma che sentivo dentro, feconda, pronta a esplodere.
“Da quando la conosco sono meno solo” commentai “e anche gli altri ragazzi dell’istituto. Qualche giorno fa, durante il pranzo, ho ascoltato per caso una sua conversazione con il direttore. Il suo aiuto economico è importante, ma non lo sapevamo e non potevamo manifestarle la nostra gratitudine. Sa una cosa, signora Milton? Ci conosciamo solamente da quatto mesi e sento che lei è la persona più importante della mia vita, se si esclude mio padre”.
Mi sorrise lusingata.
“Ciò che conta non è il tempo, ma l’intensità con cui lo si vive”. Rimasi in silenzio cercando di cogliere il senso più profondo delle sue parole.

Di fronte all’entrata della chiesa erano radunate decine di persone. Ogni genitore era intento a mostrare con orgoglio il proprio figlio a parenti e amici. Tutti si prodigavano in ossequiosi complimenti, troppo lusinghieri per poter essere sinceri.
Non mi andava di intrattenermi in mezzo a quel capannello di gente e feci segno alla signora Milton di seguirmi all’interno della chiesa. Percorremmo quasi interamente la navata laterale e ci sedemmo su una delle prime panche, sul lato più esterno. Mi piaceva il silenzio della chiesa, stimolava la meditazione. Durò poco, qualche minuto appena, quando un vociare caotico riempì l’interno dell’edificio e figli, genitori, nonni e zii si sistemarono ognuno al proprio posto. Quando tornò il silenzio, la cerimonia ebbe inizio. Dopo un tempo indefinito mi accorsi che non stavo prestando alcuna attenzione alle parole del parroco e che la mia testa era occupata interamente dalla partita a pallone che avrei giocato quel pomeriggio con i ragazzi dell’istituto. Provai a concentrarmi nuovamente sulla funzione religiosa. Durò un attimo. Osservai i genitori presenti, tutti intenti a coccolarsi con lo sguardo i propri figli. Mi estraniai nuovamente, la mia mente iniziò a vagare nel passato. Alcune lacrime sgorgarono dalla nostalgia di mio padre e mi rigarono il viso. Tirai su col naso. La signora Milton si accorse del mio pianto e mi porse un fazzoletto. Mi vergognavo a piangere in quel posto, dove tutti invece erano felici. Non avrei dovuto accettare l’offerta della signora Milton di farmi da madrina. Quel mattino avrei fatto meglio a fare dell’altro. Pensai a cosa avrebbe potuto dire il parroco per consolarmi per l’assenza di mio padre quel giorno, e per tutti quelli che sarebbero seguiti. Nulla. Non avrebbe potuto dire nulla che alleviasse il mio dolore. Giurai a me stesso che quella era l’ultima volta che avrei assistito a una funzione religiosa. Per fortuna la predica fu breve e la cerimonia durò meno del previsto. All’uscita informai la signora Milton che non sarei tornato all’istituto per l’ora di pranzo e mi diressi verso la spiaggia. Iniziai a passeggiare in riva al mare, scrutando l’orizzonte, respirando l’aria salata e ascoltando le onde accarezzare la battigia. Volsi lo sguardo a oriente. Il promontorio di Portofino emergeva incastrato tra mare e cielo. Ero troppo lontano per vederlo, ma sapevo che in fondo alle sue pendici trovava riparo Camogli. Mio padre un giorno, mostrandomi una foto di mia madre, mi aveva detto che era vissuta laggiù. Chissà dov’era ora. Chissà se ancora era o non era più. Per caso, quasi senza accorgermene, mi ritrovai per la prima volta a desiderare di avere sue notizie.

Ritornai all’istituto nel primo pomeriggio, appena in tempo per la partita con gli altri ragazzi. Giocavo in porta. Un po’ perché mi piaceva, un po’ perché nessuno voleva ricoprire il ruolo di portiere e colui che si sacrificava era almeno sicuro di giocare l’intera partita, essendo escluso dall’odiato sistema dei cambi: ogni gol, fatto o subito, a rotazione un giocatore usciva per lasciare spazio a un compagno della propria squadra. La speranza che segretamente covavo era che la partita terminasse in parità e venisse decisa dalla lotteria dei calci di rigore. In quel momento, quando le sorti dell’intera squadra dipendevano esclusivamente da me, i miei compagni iniziavano ad incitarmi, diventavo improvvisamente protagonista, un effetto elettrizzante, sentivo scorrere l’adrenalina per tutto il corpo. La gloria era a portata di mano. Un rigore parato avrebbe spalancato le porte del paradiso. Alcune partite, come quella che stavamo giocando quel pomeriggio, erano terribilmente noiose. La disparità dei valori in campo faceva sì che il gioco si sviluppasse prevalentemente nella metà campo avversaria e toccavo la palla non più di quattro o cinque volte in tutto l’incontro. Relegato ai margini del gioco, venni assalito nuovamente dai pensieri del mattino. La curiosità per la sorte di mia madre stava aprendo una breccia nel muro d’odio che avevo innalzato fino allora. Sarebbe stato meglio se durante quegli anni fossi riuscito ad essere indifferente a mia madre invece di provare rancore nei suoi confronti. L’indifferenza è l’anticamera dell’oblio, l’odio invece alimenta il ricordo. Quando ero bambino si trattava di immagini sfocate che si basavano sulle poche cose che mi aveva raccontato mio padre. Visioni che provocavano smarrimento. Col tempo, la fantasia era riuscita a renderle nitide. Situazioni inventate così ben definite e particolareggiate da apparire reali. Ora la cortina che mi separava da mia madre non sembrava più insuperabile. Era forse giunto il momento di fare i conti col mio passato. Raccogliere i pezzi, riempire gli spazi vuoti, ricostruirlo, per poter avere delle fondamenta un po’ più solide su cui provare a costruire il mio futuro.
Un urlo improvviso interruppe i miei pensieri.
“Gooooool”.
“Cazzo Guido! Era un tiro che avrebbe parato anche mia nonna su una sedia a rotelle!”.
Mi chinai a raccogliere la palla in fondo alla rete.
“Gigi, posso dirti una cosa?”.
Sollevò leggermente il mento, aspettando che proseguissi.
Calciai con forza la sfera indirizzandola verso il centro del campo, feci due passi verso il mio amico e piantai i miei occhi nei suoi.
“Fanculo te e tua nonna”.

Nei mesi successivi il desiderio di conoscere mia madre si fece sempre più forte.

Un bosco di castani , mi incammino lungo il sentiero che si perde tra gli alberi, sono solo, i raggi del sole spezzano l’oscurità, odo il cinguettio di uccelli che invano cerco di scorgere tra i rami ricoperti di foglie. Ora non sono più solo, una bambina cammina al mio fianco, mi porge la mano, mi invita a seguirla. La seguo. Non si sentono più gli uccelli. Regna il silenzio. Usciamo dal bosco. Il silenzio è infranto. C’è una festa. Intorno a un grande tavolo di legno, imbandito, persone che ridono, bevono, mangiano e cantano. È un matrimonio. Guardo la bambina con aria interrogativa. Sta indicando gli sposi. Li osservo più attentamente. Li riconosco. Sono mio padre e mia madre.

Mi svegliai sudato. Fuori era chiaro. Guardai l’ora. Anche quella mattina avrei fatto tardi a scuola. Non mi affannai più di tanto. Erano gli ultimi giorni e gli insegnanti erano più comprensivi. Si respirava già un’aria di vacanza. Per me non sarebbe stata un’estate come le altre. Ne avevo parlato con la signora Milton, ricevendo appoggio e comprensione. Avevo deciso. Finita la scuola sarei partito alla ricerca di mia madre.
 

Diego Repetto

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Il baco e la farfalla (capitolo 6) - parte prima

Luglio 1952

Un nome, un cognome, un paese. Non era molto, ne ero consapevole, ma era tutto ciò che possedevo. Erano trascorsi molti anni, inoltre. Forse non viveva nemmeno più a Camogli. Nonostante tutto ero fiducioso. Salii sul treno diretto a Genova convinto che presto avrei conosciuto colei che mi aveva messo al mondo.
Feci scorrere la porta dello scompartimento e domandai a un signore in giacca e cravatta se c’era un posto libero. Mi accomodai di fronte a una bella donna sulla quarantina che sollevò appena lo sguardo per immergersi poi nuovamente nelle pagine di un libro. Una volta seduto iniziai a osservarli, facendo attenzione che non se ne accorgessero. Lui sfogliava il giornale, distrattamente. Ebbi l’impressione che stesse leggendo solamente i titoli. Lei alternava lo sguardo tra il libro e il finestrino. Gli occhi velati di malinconia. Entrambi sembravano non curarsi della mia presenza. Chissà se osservandomi avrebbero potuto rendersi conto delle mie emozioni. Tensione, attesa, eccitazione, angustia. Altre domande si fecero spazio nella mia mente. Cosa avrei fatto una volta arrivato a Camogli? Sarei riuscito a trovare mia madre? E se la mia ricerca avesse avuto successo, cosa ci saremmo detti quando ci saremmo ritrovati uno di fronte all’altro? Sarei riuscito a farle le domande a cui per tutti quegli anni avevo risposto solamente con astio e risentimento?
Alla stazione di Genova Principe scesi dal treno e aspettai che giungesse il diretto per Roma. Restai in piedi, le panchine erano tutte occupate. Il marciapiede era affollato. Come mi spiegò una signora particolarmente loquace, tra quelle persone c’era chi partiva per le vacanze e chi invece rientrava per qualche tempo al Sud, così diverso e così caro, abbandonato a malincuore per inseguire il sogno di un lavoro. Una terra ricca di calore umano, mai dimenticata e spesso rimpianta, soprattutto dopo essersi accorti che non era affatto facile sbarcare il lunario in un Nord che faticava ad uscire dalla crisi economica del dopoguerra.
Erano i pionieri di un esodo interno che solamente una decina di anni dopo avrebbe assunto proporzioni straordinarie.
La giornata era afosa, senza una bava di vento, il caldo era soffocante. Uomini e donne trascinavano a fatica valigie enormi. L’odore rancido di sudore appestava l’aria. Dalla quantità e dalle dimensioni dei bagagli sembrava un trasloco definitivo più che un ritorno di qualche settimana alle proprie origini.
Un fischio acuto annunciò l’arrivo del convoglio ferroviario e i componenti dei vari gruppi iniziarono a posizionarsi a qualche metro l’uno dall’altro, sul bordo del marciapiede, per poter essere i primi ad avventarsi sulla porta, salire sul vagone e occupare i posti per i propri amici e famigliari. Non ero pronto per spintoni e gomitate. Salii per ultimo. Rinunciai a cercare un posto a sedere e mi fermai in piedi nel corridoio, vicino al finestrino. Anche le cose più belle, per poter essere ammirate e apprezzate, hanno bisogno del giusto stato d’animo e il mio, in quel momento, non era adatto alla contemplazione. Indifferente all’accecante bellezza dei raggi solari riflessi da un mare leggermente increspato, desiderai che quella mezz’ora che mi separava da Camogli passasse il più rapidamente possibile.
Scesi dal treno scortato da un chiassoso nugolo di bagnanti. Uscii dalla stazione e mi guardai intorno. Non ero mai stato a Camogli. Non avevo idea di dove fosse il centro del paese. Partivo da zero, non sapevo nemmeno se svoltare a destra o a sinistra. Vidi un bar dall’altro lato della strada. In fondo un posto valeva l’altro, pensai, e decisi di iniziare da lì la mia ricerca.
Il barista scosse la testa.
“Mi spiace ragazzo, non la conosco”.
“Grazie lo stesso, arrivederci”. Mi avviai all’uscita con la stessa sensazione con cui ero entrato. Non sarebbe stato facile, tutt’altro. Dovevo avere pazienza e non lasciarmi scoraggiare dai primi inevitabili insuccessi. Nemmeno il fabbro e il calzolaio mi furono di aiuto.
Scesi le ripide scale che portavano al mare. Una lunga fila ininterrotta di case colorate bordeggiava la passeggiata lungo il litorale. Si ergevano alte e strette, con le facciate dai toni sfumati, una di fianco all’altra, alcune appena un po’ più basse delle altre, come pastelli leggermente consumati in una scatola. Un mosaico variopinto di asciugamani ricopriva quasi interamente i ciottoli della spiaggia. La distesa di sassi terminava sotto la basilica, protetta dal mare da un castello medioevale e separata dal borgo abitato da uno stretto passaggio attraverso il quale si accedeva al porticciolo. Quel pittoresco paesino di pescatori mi piacque immediatamente. Pensai che se non avessi trovato mia madre avrei potuto in ogni caso trasferirmi lì e cercare un lavoro.
Per il momento, comunque, non avevo affatto abbandonato la speranza di riuscire nella mia missione. Entrai in una focacceria.
“Buongiorno, mi scusi, sto cercando Costanza Bertoli. Purtroppo non so dove abita, né, a dir la verità, se vive ancora qui a Camogli. Non so nemmeno che cosa faccia. Ma è estremamente importante per me incontrarla e le sarei infinitamente grato se potesse darmi qualsiasi informazione che pensa possa essermi utile”.
“Costanza Bertoli?” ripeté l’uomo dietro al bancone aggrottando le sopracciglia. “Il cognome mi suona. C’è una famiglia Bertoli che vive nella via qui sopra. In cima alle scale gira a sinistra, dopo un centinaio di metri, sulla destra, c’è un cancello verde, proprio di fronte alla latteria”.
Aveva accompagnato le parole con ampi gesti delle braccia e delle mani. Terminate le indicazioni, mi osservò come per chiedermi se avevo capito e restò in attesa di una mia reazione.
Dopo qualche istante di silenzio, lo ringraziai un paio di volte e uscii in strada. Avevo l’informazione di cui avevo bisogno. Sapevo dove avrei potuto incontrare mia madre o almeno qualcuno che forse mi avrebbe detto dove trovarla. Fissai la linea dell’orizzonte, dove mare e cielo si fondevano l’uno nell’altro. E improvvisamente mi assalì il panico. Proprio ora che il mio obiettivo era lì, così vicino, ero come paralizzato, non riuscivo a salire quella maledetta scalinata. Troppo ripida. I gradini troppo alti. Mia madre se n’era andata dopo la mia nascita e non si era mai preoccupata negli anni successivi di farsi viva. Provai a visualizzare la scena, la sua reazione al vedermi. Dovevo provare a cambiare il mio destino o era meglio accettarlo così com’era?
Non saprei dire quanto tempo rimasi seduto sul muretto, lo sguardo perso in mezzo al mare, a gambe incrociate, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia, le mani con le dita raccolte contro le guance e i palmi a sorreggere il mento. Un’ora, forse due, lottando contro la tentazione di lasciare perdere tutto, ritornare alla stazione e salire sul primo treno per Genova. Sentivo il bisogno di rifugiarmi in un presente conosciuto. I ragazzi dell’istituto, la signora Milton.
Scossi la testa.
“Dovrai attendere ancora” pensai a voce alta rivolgendomi al mio passato.
“Chi ti aspetterà invano?”.
Mi volsi di scatto. Al mio fianco, con le mani appoggiate sul muretto, un vecchio mi stava scrutando. Aveva il viso solcato da profonde rughe, la pelle bruciata dal sole, due strette fessure al posto degli occhi e l’alito impregnato di alcol. Mi aveva spaventato, non mi ero accorto del suo arrivo. Chissà da quanto tempo era in piedi al mio fianco senza che avessi notato la sua presenza, aggrovigliato com’ero nei miei pensieri.
Indossava una maglietta bianca a maniche corte di almeno un paio di taglie più piccole della sua e dei pantaloni rossi di lino che a malapena coprivano i polpacci e lasciavano scoperte le caviglie, magre, ricoperte da una fitta rete di vene violacee. Sull’avambraccio sinistro si intravvedevano, deformati dalla pelle raggrinzita, tre tatuaggi. Un pesce, un’àncora e un veliero.
“Il mio passato” risposi sorridendo dopo qualche istante, più divertito che seccato dalla sua curiosità.
“Tu hai le idee confuse, ragazzo. È il futuro che ti sta aspettando, non il passato” biascicò indicandomi, faticando a schiudere le labbra di una bocca che, nonostante non fosse ancora mezzogiorno, era già stata innaffiata abbondantemente con “bianchetti” e “ammazzacaffè”. Ispirava simpatia.
“Devo chiarire prima alcune cose del mio passato. Non vorrei arrivare all’appuntamento col mio futuro con le idee... confuse ”.
“Sbrigati allora, non perdere tempo. A volte il futuro non aspetta, arriva e basta, senza nemmeno che te ne accorgi” ribatté spalancando gli occhi. Mi diede una pacca sulla spalla e, senza aggiungere altro, si volse e si incamminò barcollante lungo il marciapiede.
“Senza nemmeno che te ne accorgi” ripetei tra me mentre lo guardavo allontanarsi.
Rimasi seduto qualche minuto, con le gambe a penzoloni, fissandomi le punte dei piedi. Poi saltai sul marciapiede e mi avviai verso le scalinata. Iniziai a salire, i primi gradini lentamente, poi sempre più velocemente, gli ultimi di due in due. Arrivai in cima con il fiatone.
“In fondo non era poi così ripida” pensai.
Camminavo sospinto dai pensieri. Il dubbio e la certezza che fosse giusta la decisione che avevo preso si alternavano regolarmente, come le mosse di un’estenuante partita a scacchi. La strada era affollata, ma era come se non ci fosse nessuno. Procedevo lungo il marciapiede senza preoccuparmi di schivare i passanti, erano loro a evitare me. Arrivato davanti alla latteria, attraversai la strada e iniziai a scorrere i nomi sul citofono. L’uomo della focacceria non si era sbagliato. Le gambe faticavano a sorreggermi. Inspirai profondamente dal naso e svuotai i polmoni espirando rumorosamente con la bocca. Appoggiai l’indice sul campanello, chiusi gli occhi e premetti il pulsante per un tempo che mi parve troppo lungo. Dopo alcuni secondi travestiti da minuti, risuonò una voce metallica di donna:
“Chi è?”.
“Buongiorno, sto cercando Costanza Bertoli. Sono Guido”.
Mi tremava la voce.
“Non abita qui”.
Tre semplici parole che ebbero l’effetto di una pompa. Risucchiarono in un baleno le dense emozioni che avvolgevano ogni atomo del mio corpo e mi lasciarono in balìa di un’angosciante sensazione di vuoto.
“Però le posso dire dove trovarla. È mia sorella. Posso sapere perché la sta cercando?”.
Fortunatamente il cuore di un ragazzo di quattordici anni riesce a resistere al raddoppio istantaneo del battito cardiaco. Incapace di controllare l’eccitazione, avvicinai la bocca a pochi centimetri dal citofono e risposi con voce incerta:
“È mia madre”.
Il cancello verde si aprì con uno scatto improvviso. Non si entrava direttamente nel palazzo. Una scalinata ricoperta da una fitta bougainville portava a un secondo cancello che trovai aperto, superato il quale mi ritrovai in mezzo a un rigoglioso cortile interno su cui si affacciavano tre porte di legno scuro. Quella centrale si aprì e una donna con i capelli neri a caschetto mi venne incontro sorridendo.
“Vieni, entra”.
Fu mia nonna a riconoscermi. Seduta su una poltrona del salotto, dopo avermi osservato scrupolosamente, esclamò incredula:
“Questo ragazzo non mente. Gli occhi, il naso, la bocca, perfino il neo sotto lo zigomo. È la copia di Costanza”.

- continua -
 
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