Caparco, Enrichetta - Tracce Invisibili di Universi Paralleli

Enriquez

Member
Tutto inizia con poche righe di una lettera scritta da uno sconosciuto: Marek Creen. Non è lui che Carlotta Campo sta cercando, ma Paolo Cardinale il suo amante desaparecido da oltre un anno. Le ricerche di Carlotta terminano sempre in qualcos’altro: dei fratelli di Paolo risponde soltanto Enrico, fotografo, che accetta di darle informazioni purché si incontrino di persona. Carlotta, che in realtà cerca se stessa, per trovare Paolo deve compiere un percorso attraverso le vite degli altri. Ed è proprio a partire da quella lettera che le azioni danno vita ad un codice: la chiave per aprire la fase successiva sino all'epilogo, dove il gioco si compie.
In uno spazio dove le date sono soltanto cifre, la storia di tre famiglie si apre a ventaglio nell'arco di cent'anni. Legate tra loro come le tessere di un mosaico le immagini si avvicendano: rifugi antiaerei smantellati dalla ricostruzione, primi passi sulla luna, Vietnam, piazza Fontana, picchetti, cortei, navi in rotta verso i Caraibi.
In realtà, a caratterizzare il romanzo è ciò che si trova dietro la storia: un concetto a metà tra la scienza e la metafisica. Il romanzo, costruito con riferimenti espliciti alle scatole cinesi, rivela l’imponderabilità del percorso e l’imprevedibilità di ogni epilogo, quando un percorso si conclude.

Incipit dal romanzo: "Tracce Invisibili di Universi Paralleli":[/B

Nel “grande quadro”, dove il tempo non esiste, “la realtà si concretizza in una moltitudine di configurazioni reali legate tra loro in statica perfezione”, dice la nuova fisica. E le persone, gli oggetti, i sentimenti rappresentano gli artefici dei cambiamenti che riempiono le tessere di un mosaico. Cambiamenti che, seguendo percorsi precisi, ruotano intorno al filo conduttore di ciascuna vicenda per restringersi via via e raggiungere infine quell’obiettivo che nessuno può immaginare prima che accada. Secondo il linguaggio che intende i mutamenti come causa effetto, si tratta dei coni temporali “principe”, “remoto” e “intermedio”.
Al centro, a comporre gli innumerevoli fotogrammi della tessera, sta ciascuno degli elementi in grado di produrre sentieri che portino ai differenti punti dell’intorno.
La prima tessera del “grande quadro” appartiene al cono temporale “principe”, chiamato così poiché le vicende si susseguono dal prologo all’epilogo. E’ l’ottobre del 1993 e il secondo millennio sta per concludersi; il pianeta vive un momento difficile. Fatti inspiegabili si compiono ogni giorno e solo a posteriori, attraverso la ragnatela delle relazioni umane, è possibile comprenderne le ragioni. Carlotta Campo una ex studentessa sessantottina, divenuta suo malgrado “La donna della domenica” con un matrimonio ormai concluso, è l’amante di Paolo Cardinale. Paolo è desaparecidos da un anno e i Cardinale, secondo la Campo, continuano ad escluderla dal gioco.


Intervista con l'autore

Riporto in questa pagina le mie risposte al thread: "Intervista con l'autore":

Salve, lieta di colloquiare con voi.
Ecco le mie risposte:

1.Hai scritto il libro con carta e penna oppure al computer? Prima con carta e penna e poi al computer.
2.Ritieni indifferente scriverlo con carta e penna o usando un computer? La prima stesura è veloce e molto spontanea, pertanto si presta a carta e penna. Successivamente subentra un po' di tecnica e arriva il computer.
3.Hai mai riletto completamente e senza saltare nessuna pagina una copia stampata e rilegata (come sarà nelle mani dei lettori) del tuo libro? Sì, ho impiegato più tempo del dovuto, cercando un'identità con un lettore che per motivi contingenti è costretto a leggere utilizzando piccoli spazi temporali.
4.Un giudizio negativo e pesante sul tuo libro lo vedi come una martellata che ti ferisce o come una spinta che ti stimola? Entrambe le cose.
5.Quali sono gli autori e i romanzi che pensi ti abbiano dato ispirazione? Sono molti e compariranno nel sito che sto costruendo alla voce bibliografia. Comincio dal più importante: Julian Barbour " La fine del tempo". Poi: Fritjof Capra
Il Tao della fisica, Erasmo da Rotterdam: "Elogio della follia" e molti altri.
6.A chi fai leggere le bozze del tuo romanzo, man mano che lo scrivi? In prima lettura a mia figlia Elena e successivamente a persone differenti, sino ad arrivare all'editor ufficiale. Il motivo di questa variegata scelta sta nel fatto che intendo comprendere come avviene la "comunicazione" con il lettore e quali immagini e sensazioni suscita il libro, ma questa è semlpicemente una verifica in quanto ciò che intendo trasferire al lettore è l'immaginario e i modelli che ho creato.
7.Qual è stata la molla che ti ha spinto a scrivere questo libro? Rispondere in qualche modo alla seguente domanda sul tempo: "E' il futuro a costruire il passato e non viceversa?"
8.Leggi ad alta voce quello che scrivi per sentire se suona bene quando viene letto? Tavolta è successo.
9.Prendi ispirazione da fatti della vita quotidiana? Dai modelli che la realtà mi offre, a tal punto che il personaggio completamente inventato, altro non è che una costruzione di modelli reali.
10.L'ispirazione si basa su fatti successi a te o magari su qualcosa vista per caso camminando per strada? Direi entrambe le cose.
11.Quando inizi a scrivere, immagini mai il tuo libro già con copertina, foto di copertina..insomma, già bell'e pronto da comprare? Francamente no.
12.Pensi mai alle reazioni dei lettori vedendo il tuo libro sullo scaffale? Francamente sì.
13.Quando hai iniziato a scrivere le pagine del tuo libro, avevi già un'idea di dove volevi arrivare o la storia si è costruita con il tempo? Dentro di me certamente c'era il romanzo così come potete leggerlo, ma per costruirlo ho dovuto a lungo scavare così come fa uno scultore sul marmo.
14.Il tuo libro parla di un argomento ben definito. Perchè scegli questo piuttosto che un altro? Esiste sì un argomento principe, ma dal momento che il mio è un romanzo corale differenti e variegati sono gli spunti.
15.Qual è la la molla che spinge una persona a passare da fruitore delle opere altrui (presumo che ogni scrittore prima di diventare tale e anche dopo sia un grande lettore) a creatore di opere? Devo dire che questa molla esiste o non esiste, se esiste viene fuori spontaneamente come la voce di un cantante, comunque sia. Chi scrive ha bisogno di scrivere.
16.Perchè hai scritto il tuo primo libro? Perchè scrivo da sempre ed è un piacere.

Ecco i personaggi salienti del mio romanzo attorno ai quali la fabula si dipana.
Essi sono presenti nei differenti coni temporali.

Carlotta Campo ex "donna della domenica" :


10 Settembre 1993: Torino Palazzo nuovo, “turista per caso”

A dirla chiara e senza tanti fronzoli, Carlotta Campo per Paolo Cardinale era un peccato, una debolezza della quale forse non riusciva a liberarsi; ma neppure questo era vero, aveva finito per concludere lei. In fondo, perché liberarsi di un piacere, sia pure poco edificante, se nessuno ne è a conoscenza? Qualcosa che costa così poco mantenere: giusto la benzina, il biglietto dell’autostrada e qualche telefonata; perché c’era sempre casa sua come albergo. Era sufficiente non parlarne con nessuno, farla diventare un gioco senza importanza, trasformarla in qualcosa che veniva negato in continuazione.
L’ufficio dell’architetto Carlotta Campo era in Via Po, davanti alla chiesa dell’Annunziata, a due passi da “Palazzo Nuovo”; il prestigioso progetto di Levi Montalcini che, a dispetto del nome, da trent’anni accoglieva le facoltà letterarie della città. Quel giorno di settembre, Giovanna Passanti aveva un appuntamento proprio là con la figlia Luciana, iscritta alla facoltà di Scienze Politiche. Prima, però, era passata in studio dall’amica, che si era concessa una pausa.
Le due donne avevano preso un caffè davanti al cinema Faro e poi si erano avviate alla facoltà, per sedersi al sole sulla scalinata e tenere d’occhio l’ingresso principale. Presto, i loro discorsi era andati a Paolo.
<<il mio turista per caso>> aveva detto Carlotta.
<<perché lo chiami così? Per quale motivo hai preso in prestito il titolo da Simenon?>>.
<<perché ormai sono vent’anni che mi visita per caso …>>.


Paolo Cardinale (dai ricordi di Carlotta):


Vidi Paolo per la prima volta nel settembre del '74 ― il giorno francamente non lo ricordo ― al caffè delle Guide di Courmayeur.
Lui era un bel ragazzo, bruno d’occhi e di capelli. Nel suo volto le tracce dell’infanzia contrastavano con l’ampiezza delle spalle e del busto, già adulte. Dal modo in cui sedeva, curvo su se stesso, doveva essere alto. Stava in un gruppo di giovani come fosse solo. Proprio accanto a lui una ragazza ogni tanto gli parlava, o gli domandava qualcosa, e così anche gli altri. Rispondeva distratto, volgendo appena il capo, senza mai entrare per primo nel discorso.
Nemmeno io ero sola; con me c’erano mia sorella e la piccola Francesca, mia figlia.
Paolo era molto impegnato a non perdermi d’ occhio, con lo sguardo sempre incollato su di me. Non potevo alzarmi, sedermi, bere, o fare qualsiasi altra cosa senza sentirmi sempre al centro della sua attenzione. Se ridevo lo faceva anche lui, se parlavo cercava di capire cosa stessi dicendo. Non credo comprendesse le mie parole come io le sue: la distanza tra di noi non lo permetteva.
Avevo ventinove anni e nessun uomo eterosessuale mi guardava con indifferenza; abituata all’attenzione maschile, la ignoravo senza nemmeno rendermene conto.
Con Paolo no, non era possibile.
A rompere il muro della mia indifferenza fu proprio quell’accanimento manifesto. Con tutta l’ammirazione possibile, pur senza indulgere a sottintesi sessuali, non nascondeva il suo interesse, anzi ne cercava l’assenso in modo palese


Foudre,


Carlotta Campo è l’io narrante che scrive, per uno
sconosciuto, l’ouverture del suo amore
con Paolo Cardinale.



A pensarci adesso ― dopo tanto tempo ― ora che la prospettiva dei sentimenti mi ha dato modo di separare il reale dall’immaginario, dopo aver tolto, come per un restauro, tutte le sovrapposizioni e le vernici fittizie, quello che ho rinvenuto ha i precisi connotati dell’amore a prima vista nella sua accezione più normale.
Ma, a volte, le cose prendono una forma stupefacente. Con questo non intendo dire che sia eccezionale che un ragazzo “ci provi” con un paio di turiste in cerca di compagnia. Si dà persino il caso che lui possa averle entrambe.
In genere è il termine “avventura” a definire questo rapporto introducendolo tra le azioni occasionali.
L’avventura” ― prima della “scopata senza cerniera” di Erica Yong, avanti che le femministe la stigmatizzassero come un affare di sesso ― è sempre stata un ibrido, perché la sua natura è composta. In effetti, insieme al mero piacere fisico, si uniscono comunque i sentimenti, poco o tanto a seconda dei casi.
Ebbene, l’avventura, il rapporto occasionale, la storia ― le definizioni, anche nel remoto, sono innumerevoli ― é sempre un oggetto del tipo usa e getta.
Per noi invece ― Paolo e me intendo ― fu differente poiché niente di ciò che ci siamo dati è andato perduto.
Non sto parlando di amore eterno, perché ammesso che esista, non lo conosco. Sto parlando di amore, questo si.
L’Amore condiviso lo conosco bene, perché è ciò che ho provato con lui. E’ la dimensione dove tutti i desideri sono forze congiunte dove il prima e il dopo sono una matassa di coincidenze.
Momenti inafferrabili, quelli dell’amore, ma reali; veri tanto da portare gli amanti a trasformare il medesimo sogno in un’esperienza perfetta; come solo un sogno può essere.

Vi domando: “Possono tracce invisibili trasformare la nostra esistenza? Possono metterci in contatto con altri universi?
Secondo me è possibile, e voi che cosa ne pensate?

Da “Tracce Invisibili di Universi Paralleli”: Febbraio - Maggio 1969: Torino, come Pinocchio


Non poteva crederci ma stava succedendo proprio a lei, Carlotta Campo. Adesso c’era chi la portava avanti e indietro; a scuola e in vacanza e avrebbe voluto tenerla con se giorno e notte come la sua giacca, la sua borsa, il suo fiore. Si perché non sarebbe passato molto e lei si sarebbe sentita il fiore all’occhiello di Antonio; di più, il suo colpo di fortuna.“Sono geloso anche dei fiori che stai raccogliendo”, le disse un giorno a Pino d’Asti. Erano sulla collina appena fuori dal parco, dove le margherite invadevano copiose il prato. La ragazza l’aveva guardato muta, con i fiori ancora tra le mani; aveva scosso il capo felicemente incredula - era convinta di non piacere a nessuno e che nessuno potesse innamorarsi di lei - e invece. “Sono pazzo di te Carlotta, non te ne accorgi? Dipendo dai tuoi begli occhi come un tossico dalla droga; se mi lasci - anche solo per un po’ - al ritorno mi trovi morto stecchito”. Carlotta aveva preso un vezzo da bambina e si era resa conto che stava facendo la civetta: “Proprio come la fatina dai capelli turchini trovò Pinocchio?”. “Certo e avrò anch’io un biglietto al collo e sopra ci sarà scritto: morto per essere stato troppo tempo lontano da Carlotta Campo”. Anche a lei pareva di non aver un braccio o una gamba quando non stavano insieme anzi, era come se fosse lei medesima il braccio o la gamba di Antonio. Lo amo? si chiedeva, certo era la risposta. Ma aveva deciso di amarlo perché aveva bisogno di lui, o lo amava e per questo motivo aveva bisogno di lui? Dio che confusione! Lei - comunque - doveva essere di qualcuno; desiderava appartenere ad un ragazzo come un bambino anela appartenere ai genitori. E invece si era sempre sentita una barca abbandonata che va alla deriva. Solo sapendosi di un’altro trovava se stessa. Carlotta Campo la ragazza di…; era questa l’espressione del desiderio. Ma dopo la preposizione c’erano sempre solo dei puntini, tutt’al più un nome provvisorio. Lei non era mai la titolare, al massimo una supplente, una tappa buchi. La giovane donna soffriva un male che la prostrava, gli aveva anche dato un nome: anemia della mente; questo è il tuo dolore diceva a se stessa sentendosi un clone, una copia, un involucro vuoto. Poi era arrivato Antonio. Adesso c’è - esiste - chi mi vuole davvero aveva pensato. Eppure la questione non finiva lì e non era nemmeno tanto semplice da sistemare. Perché lo fosse, lei avrebbe dovuto trovare la chiave della scatola cinese che era in lei e le combinazioni dei comparti da matriosca del pensiero che continuava a tormentarla.
 
Ultima modifica:

Enriquez

Member
Ciao a tutti. Esiste il diritto di investigare? L’investigazione trova i sui limiti nel paranormale? E quando andiamo “oltre” che cosa ci aspetta? Ecco le risposte tra le pagine di Tracce invisibili di Universi paralleli

Novembre 1993: Torino, piazza Castello grattacielo ex torre littoria

Ma per quale motivo era finita lì? Che sperava di ottenere? E soprattutto, che cosa avrebbe detto al suo interlocutore, chiunque egli fosse? Tutte domande alle quali Carlotta non sapeva dare una risposta.
Vagamente infastidita dal silenzio intorno a lei, stava seduta sul bordo di un divano rivestito di sky color panna.
Nessun trillo di telefono, nessun ticchettio di tasti, né il respiro asmatico di una stampante ad aghi. A quel piano non giungeva nemmeno l’eco del traffico cittadino.
Una retrospettiva dei fatti le faceva collocare la stanza dove stava, tra le sale d’aspetto. Ma nel suo casellario mentale, le sale d’aspetto non avevano questa connotazione: non c’erano riviste da sfogliare, né tanto meno i classici comfort destinati al cliente in attesa; nessuna musica soffusa, nessun tavolo, nessun quadro alle pareti e nemmeno un porta mantelli; solo un rigoglioso ficus beniamina spadroneggiava sulla luce naturale dell’unica finestra.
L’ambiente era asettico come quello di un ospedale, ma non così bianco. Non si poteva nemmeno definire desolato, perché le finiture degli infissi, comunque standard come tutto l’arredo, erano di tipo nuovo e trasferivano un messaggio di efficienza.
Era come se qualcuno avesse fatto in modo che nulla potesse attirare l’attenzione del visitatore, come se, parlando per metafora, non dovesse esistere il chiodo al quale appendere un ricordo, uno qualsiasi; perché tutto era sistemato in modo che l’occhio, correndo intorno, non dovesse cogliere nessun dettaglio da ricordare.
In fondo era quello che volevo. Si, perché la signora Campo si augurava che ― all’uscita dal labirinto fatto d’ azioni, non sempre agevoli, per raggiungere il suo obiettivo senza dichiarare o dichiararsi ― nessuno sapesse della sua ricerca.
Con il suo prossimo interlocutore, invece, non voleva affatto apparire anonima.
Come sempre, desiderava rimanere nella memoria visiva di chi incontrava per la prima volta. Sapeva bene che è la prima volta a offrire l’impressione che rimane, quella che non si cancella: figlia del suo tempo, si affidava all’immagine e confidava molto in essa. Aveva già sperimentato l’importanza di quanto gli occhi vedevano di lei, soprattutto la prima volta. Per questo aveva indossato quell’abito di lana rosso piuttosto corto. Perché, come a tutte le brune, il rosso le donava e si accompagnava piacevolmente allo spolverino bleu marine. Aprì la borsa per prendere lo specchio, piccolo accessorio sempre così rassicurante.
Nessuno era esattamente il titolo dell’episodio che stava vivendo.
Il caso o il destino l’aveva messa in contatto con “Occhio discreto agenzia di investigazione privata”. Finalmente aveva trovato il suo recapito e, con il recapito, il numero telefonico corrispondente, ma nessuno le aveva risposto al telefono. Dall’altra parte del filo aveva sentito solo:


“Lasciate nome e numero telefonico e sarete richiamati. Vi preghiamo inoltre di seguire le istruzioni per la registrazione interattiva del vostro messaggio. “


Non c’era nessuno nemmeno al citofono, solo un vago ronzio seguito dallo scatto metallico del portone che si apriva. Forse era l’ansia a suggerire lo sconfinamento nel paranormale, ma le parve che ad azionare l’apertura fosse qualcosa di immateriale, un fantasma non una persona.
Sopra, nessuno l’aspettava per confermarle che l’ora convenuta era esatta, che non si era sbagliata, che c’era chi, tra poco, l’avrebbe ricevuta.
Erano le dieci e trenta diceva il quadrante del suo Bome Mercier: l’ora fissata. Tra un attimo la porta di fronte avrebbe dovuto aprirsi e qualcuno ― non riusciva assolutamente a dargli un volto ― sarebbe comparso sulla soglia.
Purché non avesse sbagliato.
La solita paranoia da insicura, Carlotta scacciò quel pensiero molesto.
Eppure il suo timore aveva un senso: all’ingresso, poco prima del grande ascensore che portava ai piani, al medesimo interno corrispondevano due targhe differenti; l’una con il logo di “ Occhio discreto”, ma l’altra riguardava… Non ricordava affatto che cosa. In effetti avrebbe dovuto rileggere la targa. Quel grattacielo ospitava di tutto: società assicurative, studi professionali, istituti di credito, uffici brevetto. Carlotta aveva perfino trovato il logo di una scuola per fotomodelle.
Un pensiero martellante la tormentava, il solito. Come si sarebbe presentata?
D’accordo cercava una persona, ma Paolo era davvero scomparso o se ne era andato esclusivamente dalla sua vita? In fondo tutti gli altri ― quelli che per lui contavano veramente ― sapevano perfettamente dov’era, forse potevano perfino comunicare con lui.
Se aveva desiderato scomparire, non farsi trovare mai più, chi era lei per permettersi di cercarlo con quell’accanimento? Se n’era andato senza avvisarla, sicuro! Ma non si poteva certo dire che nel farlo le avesse sottratto qualcosa. Avanzava forse dei soldi da lui? Le aveva rubato diamanti? Svaligiato la casa? Rapito un figlio? Lei non era nemmeno la sua amante, nel senso classico del termine, perché, soprattutto negli ultimi anni, lo vedeva solo di tanto in tanto. Si era vantata di rappresentare un’isola, un porto, insomma qualcosa da raggiungere in piena libertà e ora invece accampava il diritto di cercarlo.
 

Enriquez

Member
Invito alla presentazione di Tracce Invisibili di Universi Paralleli

Cari amici,
volevo segnalarvi che a Milano Mercoledì 10 Settembre alle ore 18,30 presso la Milano Libri in Via Verdi 2 (di fianco alla Scala) Simone Rossetti con la partecipazione di Nuccia Decio presenterà il mio romanzo. Naturalmente siete tutti invitati e sarò felice di conscervi di persona e di rispondere alla vostre domande.
 

Enriquez

Member
cono temporale intermedio e remoto: anni del boom economico e anni di guerra

Cono temporale intermedio, anni Sessanta in Italia.
In un Carnevale metropolitano, la favola del principe e del povero è rappresentata di continuo con cambio di maschere tra la borghesia ricca e il proletariato: servi e padroni, signori e nullatenenti, commesse e nobildonne si scambiano i ruoli.
Venuto da lontano, il piacere che gli stracci danno – quando
non sono l’unica risorsa – raggiunge anche l’alta borghesia
torinese. Le mogli dei capitani d’impresa, dei manager del profitto e degli azionisti di maggioranza acquistano a peso d’oro jeans sfilacciati e stinti da Maria Cristina o al San Carlo e l’autista di ciascuna le aspetta di ritorno dai mercatini di piazza Carlina o della Crocetta. I mariti, intanto, lasciano in garage la Porsche per andare al consiglio di amministrazione in Cinquecento.
Mentre la stampa d’evasione fa proprio il concetto di “Very Important Person”, l’élite è trasmessa alla gente comune come un falso d’immagine. Le mogli degli operai della Fiat danno ai propri bambini i nomi dei calciatori, delle dive del cinema e delle principesse pubblicati dalle riviste.
Nel grande quadro la “Casa di Armando” e la “ditta Gianpaolo”
lampeggiano fra migliaia di configurazioni per comparare momenti differenti che riguardano le stesse persone. Si tratta di adesso assai distanti tra di loro.
Una finestra si apre nel remoto.
La seconda guerra mondiale è in pieno corso. Vige l’autarchia
e la borsa nera, ma i giovani si ritagliano ugualmente qualche spazio per lo svago. Alessandro e Caterina sono in piscina. Lui non sa nuotare, eppure si getta ugualmente dal trampolino perché ha bisogno di cimentarsi con se stesso ma, soprattutto, di emergere in qualche modo.
Di nuovo cono temporale intermedio.
La guerra è finita da un paio di decenni, Alessandro non è più un ragazzo e la Gianpaolo& figli, che si è rivelata una galli192
na dalle uova d’oro, ha cambiato la sua vita. Ricco abbastanza da concedersi case di proprietà, il padre di Carlotta acquista barche impegnative: cabinati a vela, da regata: oggetti costosi e difficili da condurre. Lui, che ha visto per la prima volta il mare a vent’anni, lui che non sapeva nuotare e ha rischiato di annegare nell’acqua di una piscina, avverte adesso un grande desiderio di mare; è un sentimento quest’ultimo che assomiglia
alla nostalgia per un bene perduto o abbandonato contro la propria volontà.
Il quadro rimane nell’intermedio. Alessandro, in compagnia di un amico e dei suoi figli, raggiunge per la prima volta la “Casa di Armando” una domenica di settembre. Quella sembra una giornata qualunque, e invece...
Dal 1961
 

Enriquez

Member
Cellule

Salve amici, vorrei prospettarvi una nuova questione, attraverso la citazione di Ervin Laszlo:

"Il nostro corpo consiste di qualcosa come un milione di miliardi di cellule molte più delle stelle della via Lattea. Di questa popolazione di cellule 600 miliardi stanno morendo e lo stesso numero si sta rigenerando ogni giorno: qualcosa come più di dieci milioni di cellule al secondo".

Ed ecco che cosa ho scritto a proposito nel mio romanzo: “Tracce invisibili di universi paralleli”

“Stupita di me”.
Adesso Carlotta si cercava dentro.
Non era la signora Campo quella che tentava di raggiungere e neppure l’architetto Campo, nemmeno un’italiana, infine neppure una donna... Semplicemente l’essere vivente, la creatura di quell’universo col quale faceva i conti giorno dopo giorno.
Carlotta sprofondava. E al di là delle conoscenze, dei sentimenti, della buona educazione, dell’apparenza, non trovava niente, soltanto buio. Eppure qualcosa c’era, doveva pur esserci se da quel nulla fertile lei rinasceva attimo dopo attimo. Nello stesso momento bruciavano e si rigeneravano miliardi di cellule. L’aveva letto o sentito? Non ricordava esattamente.
Una misteriosa essenza aveva costruito la prima traccia e a questa altre se ne erano aggiunte; ciascuna era la matrice della seguente. Un insieme incommensurabile, scintille fatte di lei che andavano sommandosi le une alle altre, per formare i suoi giorni, mesi, anni. Lei passava in continuazione la soglia, l’attimo fuggente. Lei che non era una, ma tante. E dove erano, adesso tutte quelle bambine, adolescenti, giovani donne? Erano ancora in lei?
No, certo che no, si disse. Erano in lei solo come memoria. Perché lei era altro adesso, e tra un attimo sarebbe stata altro ancora dentro e fuori.
Prima non era madre, Francesca non c’era.
Davvero non c’era? Nella grande mappa del destino, quali e quanti fili intricati l’avevano condotta sino a sua figlia?
“In definitiva il percorso è già segnato, è unico”; e qui stava il paradosso, eravamo noi a volerlo così.
Forse Francesca c’era già ancor prima di nascere, si disse. C’era sempre stata. A cominciare da quell’essere minuscolo che nuotava nel liquido amniotico, per continuare nella piccina che l’aveva guardata, quando gliel’avevano messa tra le braccia la prima volta. Carlotta ne ricordava l’aria di rimprovero: “La vedi la mia testa come si è allungata, per quale motivo ho dovuto passare di lì? Era così stretto, perché tanta fatica?”.
Segni, ciascuno di noi è fatto di segni. Tracce, si disse, ma nessuno le poteva vedere tutte insieme. Così come non si poteva vedere il futuro; solo ricordare ciò che la memoria manteneva intatto.
 

Enriquez

Member
futuro e passato

Ciao a tutti, Eccomi con un nuovo quesito, amici miei: può il futuro costruire il passato?


Durante la presentazione del mio romanzo vedere il link, viene dibattuta la seguente teoria: Il futuro costruisce il passato e ancora: alla base dell’esistenza sta l’eccezione non la regola Ho portato l’esempio di Alessandro Campo per spiegare la mia tesi: A richiamare la sua fortuna – diverrà ricco e colto, oltre che un grande campione di equitazione - è la grande disperazione della sua prima giovinezza.

Dal Capitolo XX



All’inizio del terzo millennio, la scienza cerca il Bosone di Higgs, ancora non osservato, carica elettrica zero. Si ritiene che esso conferisca le proprietà della massa ai quark, ai leptoni e ai bosoni w e z. Con questa scoperta i fisici tentano di appurare l’eccezione, ovvero quel che accadde nell’infinitesima frazione di secondo che diede inizio all’universo.
Alla base dell’esistenza sta l’eccezione, non la regola; perché è la prima a determinare la sostanza delle cose, tanto che la vita pone i suoi percorsi nell’improbabile. È questa l’ipotesi che Carlotta avalla, perché anche la storia della sua famiglia si regge sull’eccezione.
Nel grande quadro la storia dei Campo è variegata: i Campo sono medici, navigatori, combattenti e artisti, oltre che ricchi proprietari di terre fertili. Hanno colline olivate e frutteti che si stendono a perdita d’occhio; tra Caserta e Napoli ci sono terreni che portano ancora il loro nome. Nel giro di un paio di secoli – tra guerre, carestie e altre calamità – la famiglia perde tutto; poiché le testimonianze lasciano posto ai racconti e anche quelli, ad un certo punto, possono andare perduti.
Eppure Alessandro…


Novembre 1942: Torino, piazza Vittorio Veneto

C’era la guerra e questo aggravava tutto, ma la miseria e il senso di desolazione guastavano le nozze di Alessandro.
Trasportati in cortile dai nipoti, due tavolini da notte e un cassettone stavano per diventare legna da ardere. Era stata la vecchia a deciderlo.
«Per favore, no! Non li faccia a pezzi. Potrei prenderli io quei mobili», disse a Madama Fagone.
«Guardi, signor Campo, che sono pieni di tarli, possono servire giusto per la stufa. Che cosa ne vuol fare?».
Come poteva rispondergli: “Il mobilio della mia camera da letto?”.
Stava per sposarsi; era innamorato di Caterina, felice che gli avesse detto di sì, ma non sopportava l’idea di non avere i soldi per acquistare le fedi nuziali. Nemmeno i fiori poteva comperare alla sua sposa. Sarebbe andato all’altare con i calzoni che Natalia, la futura suocera, aveva trovato tra le macerie di un palazzo.
La notte prima delle nozze l’avrebbe passata a piangere. Avrebbe montato il letto matrimoniale, un rottame rimediato da un rigattiere, e per due volte la rete si sarebbe appiattita rovinosamente sul pavimento. Non che per quel ragazzo del Sud la miseria fosse nuova. La vita, l’infanzia in particolare, era stata dura con lui.


Dal 1927 nel Casertano

Carlotta era una ragazzina, quando suo padre commissionò all’Istituto d’Araldica una ricerca sui Campo.
Tornò a casa eccitato.
Dopo aver raccolto i familiari in sala da pranzo, non senza affettazione, cominciò ad allargare sul tavolo manoscritti, albero genealogico, una copia su carta filigranata dello stemma gentilizio e qualcos’altro. Nel suo orgoglio malcelato c’era ritrosia; era come se Alessandro provasse vergogna a mostrarsi tanto sensibile alle lusinghe di quei documenti.
«Papà», gli chiese Ludovico, «posso dirlo a scuola che sono figlio di un nobile? Cosa sei, un conte o un principe come Totò?».
Il bambino senza saperlo aveva centrato la questione. Fu per vanità, e anche per contrapporre qualcosa al suo passato da indigente, che Alessandro Campo volle quelle carte; ma quanto gli era costato in denaro quell’alone da patrizio? La figlia maggiore se lo sarebbe chiesto tante volte.
«Non che papà nascondesse di essere stato povero, anzi lo diceva a tutti. Mia madre gridava: “Mettetevi a nu pizzitielliu e state cheti».
«Perché non dovevate muovervi?», gli chiedevano.
Lui sorrideva: «“Si currite alleggerite subito”, questo diceva mammà. Giocavamo», spiegava, «era naturale correre; naturale anche che ci venisse fame – diceva proprio fame, non appetito – e così ogni tanto andavamo alla madia per tagliare una fetta di pane e la forma diventava sempre più piccola. E non era nemmeno tutto», aggiungeva, «con Mussolini la scuola dell’obbligo c’era già. Non che ti venissero a prendere a casa se non frequentavi; mia sorella, che non aveva voglia di studiare, è andata solo fino alla terza elementare. Ma io no; a me piaceva. Avevo i libri dal patronato, ma non i quaderni. Quando le pagine finivano, scrivevo sulla copertina finché potevo. Sapevo che avrei dovuto piangere un giorno intero per farmene comperare un altro».

Nel “grande quadro” la “Casa di Armando” e la “ditta Gianpaolo” lampeggiano fra migliaia di configurazioni per comparare momenti differenti che riguardano le stesse persone. Si tratta di adesso assai distanti tra di loro.
Una finestra si apre nel remoto.
La seconda guerra mondiale è in pieno corso. Vige l’autarchia e la borsa nera, ma i giovani si ritagliano ugualmente qualche spazio per lo svago. Alessandro e Caterina sono in piscina. Lui non sa nuotare eppure si getta ugualmente dal trampolino perché ha bisogno di cimentarsi con se stesso ma, soprattutto, di emergere in qualche modo.
Di nuovo cono temporale intermedio.
La guerra è finita da un paio di decenni, Alessandro non è più un ragazzo e la“Gianpaolo& figli”, che si è rivelata una gallina dalle uova d’oro, ha cambiato la sua vita. Ricco abbastanza da concedersi case di proprietà, il padre di Carlotta acquista barche impegnative: cabinati a vela, da regata: oggetti costosi e difficili da condurre. Lui, che ha visto per la prima volta il mare a vent’anni, lui che non sapeva nuotare e ha rischiato di annegare nell’acqua di una piscina, avverte adesso un grande desiderio di mare; è un sentimento quest’ultimo che assomiglia alla nostalgia per un bene perduto o abbandonato contro la propria volontà.
Il quadro rimane nell’ intermedio. Alessandro, in compagnia di un amico e dei suoi figli, raggiunge per la prima volta la “Casa di Armando” una domenica di settembre. Quella, sembra una giornata qualunque, e invece…


Alla “Casa di Armando” Alessandro Campo avrebbe tenuto i suoi cavalli per nove mesi l’anno.
Sbeffeggiato, non senza una punta di orgoglio dalla moglie, il principe Sbrodoloff ― così aveva cominciato a chiamarlo Caterina da quando montava a cavallo ― partecipò a tutti i concorsi nazionali che la federazione per gli sport equestri organizzava. In un turnover tra acquisti e vendite, Campo sarebbe arrivato a possedere più di quattro cavalli da percorso a ostacoli, animali che trattava come figli, anzi con più indulgenza.
Nel piacere autentico che quello sport gli procurava c’era ― oltre all’amore per gli animali ― una buona dose di esibizionismo. Innegabile, infatti, era la vanità che muoveva il suo trotto di scuola e il suo elegante saluto alla giuria ― con quella punta malcelata di protagonismo ― che fece sorridere molti tra concorrenti e pubblico.
Eppure nascosto, invisibile, c’era ben altro.
 

Enriquez

Member
La vita è sogno? Che differenza c'è tra la realtà e il mondo virtuale?

Ciao a tutti, Eccomi con un nuovo quesito, amici miei: può il futuro costruire il passato?


Durante la presentazione del mio romanzo vedere il link, viene dibattuta la seguente teoria: Il futuro costruisce il passato e ancora: alla base dell’esistenza sta l’eccezione non la regola Ho portato l’esempio di Alessandro Campo per spiegare la mia tesi: A richiamare la sua fortuna – diverrà ricco e colto, oltre che un grande campione di equitazione - è la grande disperazione della sua prima giovinezza.

Dal Capitolo XX



All’inizio del terzo millennio, la scienza cerca il Bosone di Higgs, ancora non osservato, carica elettrica zero. Si ritiene che esso conferisca le proprietà della massa ai quark, ai leptoni e ai bosoni w e z. Con questa scoperta i fisici tentano di appurare l’eccezione, ovvero quel che accadde nell’infinitesima frazione di secondo che diede inizio all’universo.
Alla base dell’esistenza sta l’eccezione, non la regola; perché è la prima a determinare la sostanza delle cose, tanto che la vita pone i suoi percorsi nell’improbabile. È questa l’ipotesi che Carlotta avalla, perché anche la storia della sua famiglia si regge sull’eccezione.
Nel grande quadro la storia dei Campo è variegata: i Campo sono medici, navigatori, combattenti e artisti, oltre che ricchi proprietari di terre fertili. Hanno colline olivate e frutteti che si stendono a perdita d’occhio; tra Caserta e Napoli ci sono terreni che portano ancora il loro nome. Nel giro di un paio di secoli – tra guerre, carestie e altre calamità – la famiglia perde tutto; poiché le testimonianze lasciano posto ai racconti e anche quelli, ad un certo punto, possono andare perduti.
Eppure Alessandro…


Novembre 1942: Torino, piazza Vittorio Veneto

C’era la guerra e questo aggravava tutto, ma la miseria e il senso di desolazione guastavano le nozze di Alessandro.
Trasportati in cortile dai nipoti, due tavolini da notte e un cassettone stavano per diventare legna da ardere. Era stata la vecchia a deciderlo.
«Per favore, no! Non li faccia a pezzi. Potrei prenderli io quei mobili», disse a Madama Fagone.
«Guardi, signor Campo, che sono pieni di tarli, possono servire giusto per la stufa. Che cosa ne vuol fare?».
Come poteva rispondergli: “Il mobilio della mia camera da letto?”.
Stava per sposarsi; era innamorato di Caterina, felice che gli avesse detto di sì, ma non sopportava l’idea di non avere i soldi per acquistare le fedi nuziali. Nemmeno i fiori poteva comperare alla sua sposa. Sarebbe andato all’altare con i calzoni che Natalia, la futura suocera, aveva trovato tra le macerie di un palazzo.
La notte prima delle nozze l’avrebbe passata a piangere. Avrebbe montato il letto matrimoniale, un rottame rimediato da un rigattiere, e per due volte la rete si sarebbe appiattita rovinosamente sul pavimento. Non che per quel ragazzo del Sud la miseria fosse nuova. La vita, l’infanzia in particolare, era stata dura con lui.


Dal 1927 nel Casertano

Carlotta era una ragazzina, quando suo padre commissionò all’Istituto d’Araldica una ricerca sui Campo.
Tornò a casa eccitato.
Dopo aver raccolto i familiari in sala da pranzo, non senza affettazione, cominciò ad allargare sul tavolo manoscritti, albero genealogico, una copia su carta filigranata dello stemma gentilizio e qualcos’altro. Nel suo orgoglio malcelato c’era ritrosia; era come se Alessandro provasse vergogna a mostrarsi tanto sensibile alle lusinghe di quei documenti.
«Papà», gli chiese Ludovico, «posso dirlo a scuola che sono figlio di un nobile? Cosa sei, un conte o un principe come Totò?».
Il bambino senza saperlo aveva centrato la questione. Fu per vanità, e anche per contrapporre qualcosa al suo passato da indigente, che Alessandro Campo volle quelle carte; ma quanto gli era costato in denaro quell’alone da patrizio? La figlia maggiore se lo sarebbe chiesto tante volte.
«Non che papà nascondesse di essere stato povero, anzi lo diceva a tutti. Mia madre gridava: “Mettetevi a nu pizzitielliu e state cheti».
«Perché non dovevate muovervi?», gli chiedevano.
Lui sorrideva: «“Si currite alleggerite subito”, questo diceva mammà. Giocavamo», spiegava, «era naturale correre; naturale anche che ci venisse fame – diceva proprio fame, non appetito – e così ogni tanto andavamo alla madia per tagliare una fetta di pane e la forma diventava sempre più piccola. E non era nemmeno tutto», aggiungeva, «con Mussolini la scuola dell’obbligo c’era già. Non che ti venissero a prendere a casa se non frequentavi; mia sorella, che non aveva voglia di studiare, è andata solo fino alla terza elementare. Ma io no; a me piaceva. Avevo i libri dal patronato, ma non i quaderni. Quando le pagine finivano, scrivevo sulla copertina finché potevo. Sapevo che avrei dovuto piangere un giorno intero per farmene comperare un altro».

Nel “grande quadro” la “Casa di Armando” e la “ditta Gianpaolo” lampeggiano fra migliaia di configurazioni per comparare momenti differenti che riguardano le stesse persone. Si tratta di adesso assai distanti tra di loro.
Una finestra si apre nel remoto.
La seconda guerra mondiale è in pieno corso. Vige l’autarchia e la borsa nera, ma i giovani si ritagliano ugualmente qualche spazio per lo svago. Alessandro e Caterina sono in piscina. Lui non sa nuotare eppure si getta ugualmente dal trampolino perché ha bisogno di cimentarsi con se stesso ma, soprattutto, di emergere in qualche modo.
Di nuovo cono temporale intermedio.
La guerra è finita da un paio di decenni, Alessandro non è più un ragazzo e la“Gianpaolo& figli”, che si è rivelata una gallina dalle uova d’oro, ha cambiato la sua vita. Ricco abbastanza da concedersi case di proprietà, il padre di Carlotta acquista barche impegnative: cabinati a vela, da regata: oggetti costosi e difficili da condurre. Lui, che ha visto per la prima volta il mare a vent’anni, lui che non sapeva nuotare e ha rischiato di annegare nell’acqua di una piscina, avverte adesso un grande desiderio di mare; è un sentimento quest’ultimo che assomiglia alla nostalgia per un bene perduto o abbandonato contro la propria volontà.
Il quadro rimane nell’ intermedio. Alessandro, in compagnia di un amico e dei suoi figli, raggiunge per la prima volta la “Casa di Armando” una domenica di settembre. Quella, sembra una giornata qualunque, e invece…


Alla “Casa di Armando” Alessandro Campo avrebbe tenuto i suoi cavalli per nove mesi l’anno.
Sbeffeggiato, non senza una punta di orgoglio dalla moglie, il principe Sbrodoloff ― così aveva cominciato a chiamarlo Caterina da quando montava a cavallo ― partecipò a tutti i concorsi nazionali che la federazione per gli sport equestri organizzava. In un turnover tra acquisti e vendite, Campo sarebbe arrivato a possedere più di quattro cavalli da percorso a ostacoli, animali che trattava come figli, anzi con più indulgenza.
Nel piacere autentico che quello sport gli procurava c’era ― oltre all’amore per gli animali ― una buona dose di esibizionismo. Innegabile, infatti, era la vanità che muoveva il suo trotto di scuola e il suo elegante saluto alla giuria ― con quella punta malcelata di protagonismo ― che fece sorridere molti tra concorrenti e pubblico.
Eppure nascosto, invisibile, c’era ben altro.

Eccomi amici con una nuova domanda: La vita è sogno? Che differenza c'è tra la realtà e il mondo virtuale?
Da "Tracce invisibili di universi paralleli". Solo dopo aver gettato alle ortiche il suo matrimonio, Carlotta, sarebbe tornata nello studio di Selva. Solo quando, non ancora trentenne, avrebbe preso la decisione di separarsi dal marito e il destino le avrebbe presentato il conto da pagare.
Proprio allora, infatti, avrebbe visto in chiaro, il risvolto amaro, ma assolutamente reale, della sua storia col bel genovese.
Fu quel cambiamento, a farle prendere coscienza della situazione. Fu quando passò dallo stato di coniugata a quello di single, che comprese. Non era più una ragazza da marito ma, ormai, nemmeno la signora che può prendersi una distrazione. Insomma era accaduto il peggio del peggio, perché se un lato vedeva i resti del suo matrimonio , dall’altro non c’era che il vuoto. Ora che la stupenda bolla di sapone, le era scoppiata tra le mani, non rimaneva che un rigagnolo d’acqua sporca. In pratica lei, che non era più in lista d’attesa, aveva posto un rifiuto e spavaldamente era andata oltre. Ebbene, non soltanto non aveva più un marito ma, nemmeno un amante.
Con il senno di poi, Carlotta avrebbe compreso che, a togliere il coperchio dalla scatola era stata proprio la spietata logica degli eventi.
Eppure anche prima, quando continuava a credere ai dolcissimi inganni di quell’a more fuori dalle righe, un presentimento amaro, già, la tormentava. La ragazza sentiva che sarebbe arrivato presto il momento della resa dei conti, quando non avrebbe potuto fare a meno di guardare dietro la quinta incantevole che l’aveva protetta, salvandola. Era stata , proprio la sua voglia di vivere a costruirla. E allora si sarebbe chiesta: ma ho recitato, oppure ho sognato?
 

Enriquez

Member
Fisica e letteratura: quali sono i limiti e quali i punti di contatto.

Scrive Fritjof Capra: Erwin Schrodinger, Paul Dirac. Werner Heisemberg (…) questi uomini unirono le loro forze al di là di tutte le frontiere dando vita a uno dei peridi più eccitanti della scienza moderna che portò l’uomo per la prima volta, a contatto con una strana e inaspettata realtà. La natura rispondeva con un paradosso. Per quanto ci addentriamo nella materia essa ci appare come una complessa rete di relazioni…dove l’osservatore costituisce sempre l’anello finale. Tullio Regge, grande fisico torinese parla di “ mirabile paradosso” punto di partenza e di arrivo del romanzo : Dalle pagine di “Tracce invisibili di Universi Paralleli ecco una rappresentazione del Gatto di Schrodinger.

Maggio 1980: Firenze il gatto di Schrödinger

Paolo giaceva supino, costretto da differenti apparecchiature mediche. Alcune gli impedivano di farsi del male ― aveva cercato più volte di suicidarsi ― altre lo tenevano in vita ― erano giorni che rifiutava di assumere cibo.
Quando Raffaella Leonardi varcò la soglia della camera era cosciente.
La loro frequentazione durava già da un paio di mesi. Alla “Casa di Dante”, esattamente al Chiostro di S. Marco, c’era stata una manifestazione, non le solite in programma, ma l’anniversario della Fondazione.
Erano venuti in tanti e da tutte le parti per assistere alle conferenze e alle proiezioni. Naturalmente c’era la televisione e alcuni tra i maggiori rappresentanti delle reti locali.
I due si erano conosciuti proprio quel giorno poiché lei, milanese, prossima alla laurea in legge, era già attiva nella società del padre, un’emittente privata che vantava un calendario aggiornato di programmi nel campo dell’arte. Le matrici mediatiche aprono collegamenti incredibili e così c’era anche Paolo quel giorno, un giovane ufficiale genovese appena laureato in economia e, al momento, impiegato nella sezione finanza. Era stato un collega a trascinarlo, uno che conosceva Raffaella.
Dopo le presentazioni, i ragazzi si erano rivisti una mezza dozzina di volte, sempre a Firenze; a volte in compagnia, spesso da soli.
Forse era stato lo sfondo dell’Ospedale degli Innocenti ― al loro secondo incontro ― forse l’atmosfera del giardino di Boboli, dove lui l’aveva baciata la prima volta, ma quel volto bruno, che ricordava certe madonne del Lippi lo aveva, come dire, incantato. Paolo non poteva dire d’essere innamorato di lei, o forse sì, anche. In realtà gli era sembrata quella giusta, l’unica in grado di rompere quella terribile lastra che lo stava isolando dal resto del mondo.
All’ospedale militare le cose funzionarono come per il gatto di Schrödinger: sino a quando lui non la vide entrare – nell’ esperimento del gatto fino a quando non si compie un'osservazione― il destino di Paolo fu duale.
Se quel giorno lui non fosse stato lì, se non si fossero verificate certe emergenze, se non fosse iniziato quel maledetto discorso con l’altra parte di se stesso ― quella che cercava di annientarlo ― forse Raffaella l’avrebbe persa di vista; forse avrebbe conosciuto un’altra ragazza e la cosa sarebbe finita lì.
Ma quel meccanismo che aveva funzionato sino a quel momento, quella specie di bomba a orologeria che non si era inceppata mai, da qualche parte lo doveva pur portare. E la risposta non poteva essere che duale: sposarla o lasciarla andare e non vederla mai più, proprio come per il il gatto di Schrödinger che non poteva essere che vivo o morto.
In pratica sino al momento fatidico, sino a quando i suoi occhi di degente non misero a fuoco l’immagine della giovane visitatrice, si era alla presenza di due stati sovrapposti.
Fu quando Paolo la vide che il suo destino prese forma: “Sarà lei a salvarmi”.
Nel settembre del medesimo anno a Milano Paolo Cardinale, ventotto anni, un rampollo della nota famiglia Cardinale, sposerà in Sant’Ambrogio Raffella Leonardi, ventiquattro anni, figlia unica di un noto imprenditore milanese. La cerimonia avverrà in forma privata, con partecipazioni e annunci successivi alle nozze.
 

Enriquez

Member
Ai bambini non si può mentire

Cono temporale intermedio, anni Sessanta in Italia.
In un Carnevale metropolitano, la favola del principe e del povero è rappresentata di continuo con cambio di maschere tra la borghesia ricca e il proletariato: servi e padroni, signori e nullatenenti, commesse e nobildonne si scambiano i ruoli.
Venuto da lontano, il piacere che gli stracci danno – quando
non sono l’unica risorsa – raggiunge anche l’alta borghesia
torinese. Le mogli dei capitani d’impresa, dei manager del profitto e degli azionisti di maggioranza acquistano a peso d’oro jeans sfilacciati e stinti da Maria Cristina o al San Carlo e l’autista di ciascuna le aspetta di ritorno dai mercatini di piazza Carlina o della Crocetta. I mariti, intanto, lasciano in garage la Porsche per andare al consiglio di amministrazione in Cinquecento.
Mentre la stampa d’evasione fa proprio il concetto di “Very Important Person”, l’élite è trasmessa alla gente comune come un falso d’immagine. Le mogli degli operai della Fiat danno ai propri bambini i nomi dei calciatori, delle dive del cinema e delle principesse pubblicati dalle riviste.
Nel grande quadro la “Casa di Armando” e la “ditta Gianpaolo”
lampeggiano fra migliaia di configurazioni per comparare momenti differenti che riguardano le stesse persone. Si tratta di adesso assai distanti tra di loro.
Una finestra si apre nel remoto.
La seconda guerra mondiale è in pieno corso. Vige l’autarchia
e la borsa nera, ma i giovani si ritagliano ugualmente qualche spazio per lo svago. Alessandro e Caterina sono in piscina. Lui non sa nuotare, eppure si getta ugualmente dal trampolino perché ha bisogno di cimentarsi con se stesso ma, soprattutto, di emergere in qualche modo.
Di nuovo cono temporale intermedio.
La guerra è finita da un paio di decenni, Alessandro non è più un ragazzo e la Gianpaolo& figli, che si è rivelata una galli192
na dalle uova d’oro, ha cambiato la sua vita. Ricco abbastanza da concedersi case di proprietà, il padre di Carlotta acquista barche impegnative: cabinati a vela, da regata: oggetti costosi e difficili da condurre. Lui, che ha visto per la prima volta il mare a vent’anni, lui che non sapeva nuotare e ha rischiato di annegare nell’acqua di una piscina, avverte adesso un grande desiderio di mare; è un sentimento quest’ultimo che assomiglia
alla nostalgia per un bene perduto o abbandonato contro la propria volontà.
Il quadro rimane nell’intermedio. Alessandro, in compagnia di un amico e dei suoi figli, raggiunge per la prima volta la “Casa di Armando” una domenica di settembre. Quella sembra una giornata qualunque, e invece...
Dal 1961

In Europa gli “Anni di piombo” nascono prima della rivoluzione giovanile scoppiata oltre oceano e ben presto si sovrappongono ad essa. Il termine adottato dagli organi di stampa, proviene dal titolo del noto film del l1981.Il fenomeno crea strati sociali portatori di novità, non sempre visti con favore. l'insoddisfazione per la situazione politico-istituzionale caotica si traduce in violenza di piazza e, successivamente, in stragi e lotta armata perpetrata da gruppi organizzati. Il terrorismo viene usato al fine di creare le condizioni pe sovvertire gli assetti istituzionali e politici del Paese. Sono molti ad associare questo periodo ad organizzazioni extraparlamentari di sinistra, Le Stragi sono apparentemente insensate e talvolta senza colpevoli e in nessun caso risultano noti i nomi di eventuali mandanti.
Dalle pagine del romanzo:
Complotti, giochi di potere, incidenti probatori ma anche storie ordinarie sono tracce che i fotogrammi attualizzano nel cono temporale intermedio. E’ l’anno 1969. Tutti soffrono la strategia della tensione e il sussultorio movimento dei media scuote l’Italia e con essa le università. Carlotta Campo e Antonio Rota si sono fidanzati e dalle rispettive famiglie emergono differenze di ruolo; i Campo e i Rota si confrontano misurando gli uni le risorse degli altri.
E’ il 13 dicembre del 1969. Sono le 16,37. Al centro di Milano; alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana esplode una bomba.
E’ il 14 dicembre del 1969. Migliaia di giovani universitari si riuniscono Anche Carlotta Campo e Antonio Rota partecipano ai collettivi. (…)
Avevano disdegnato il tavolo del soggiorno e anche le poltrone; si erano seduti tutti per terra. Qualcuno aveva chiesto il posacenere, qualcun altro era uscito sul terrazzo per fumare.
Quando un giovane con ricci da cherubino ed eskilo cominciò a parlare, il tono delle voci annichilì di colpo.
E’ il Leader”.
<<E’ successo qualcosa non soltanto grave, ma irreparabile: E’ cominciato un massacro inutile, un atto terroristico senza precedenti. Alle 16,37 al centro di Milano, alla Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana è esplosa una bomba provocando la morte di diciassette persone e il ferimento di altre ottantotto. Una seconda bomba è stata rinvenuta, fortunatamente inesplosa, nella sede milanese della Banca Commerciale Italiana, in piazza della Scala; ma è stata fatta brillare distruggendo gli elementi probatori in grado di risalire all'origine dell'esplosivo e, soprattutto, a chi ha preparato gli ordigni. E’ questa la prima domanda che noi studenti dei politecnici di Torino, Firenze; Roma, Milano ci poniamo. Chi è stato?>>.
Bella scoperta! Brusio.
Una terza bomba è esplosa a Roma alle 16:55 nel passaggio sotterraneo che collega l'entrata di via Veneto con quella di via di San Basilio della Banca Nazionale del Lavoro, abbiamo i cablogrammi. Altre due sempre a Roma tra le 17:20 e le 17:30, una davanti all'Altare della Patria e l'altra all'ingresso del museo del Risorgimento, in piazza Venezia. Si contano dunque cinque attentati terroristici nel pomeriggio di ieri, concentrati in un lasso di tempo di soli 53 minuti, per colpire contemporaneamente le due maggiori città d'Italia: Roma e Milano>>.
Il Gin e il Michelangelo al lato opposto del salone parlottavano, fu il Gin ad alzare la mano:
<<Immagino che tutti insieme si debba far qualcosa>.
Brusio in crescendo.
<<Si ma come?>> chiese qualcuno.
<<Scioperiamo, facciamo casino, sono quelli di destra e dobbiamo fermarli”, disse un piccoletto, matricola forse? Non era di Milano e Carlotta non l’aveva mai visto>>.
<<Non dire cazzate>>, lo zittì Elisa. E qualcun’altra le diede manforte: “ Si perché si fa presto a parlare, ma anche a scassarci le palle con i bla, bla, bla>>,.
<<Che non hai, stronza !>>. La rimbeccò un maschietto che stava sempre fisso al bar della facoltà.
Rapida espressione di dissenso.
<<Più di te, di sicuro>>.
Risata fragorosa e fischi di sottofondo.
<<Prego, ragazzi, compagni”, il Gin non alzava mai la voce, non sarebbe servito. “Qui non si tratta ancora di entrare in azione, e come poi? E contro chi? Qui occorre prima di tutto prendere coscienza>>.
<<E a cosa serve se poi non si fa niente>>, fu l’obiezione di un altro.
<<Serve, serve eccome se serve: non è quello che abbiamo dovuto imparare con le nostre battaglie? Per quale motivo le cose sono cambiate, anzi stanno ancora cambiando? Perché siamo riusciti a farci ascoltare solo quando ci siamo resi conto della situazione>>.
<<Si ma qui la questione è un’altra, quei fascisti ci stanno distruggendo, occorre agire>>, urlò Marcella.
Fu il leader a risponderle: << Agire significa fare quello che stiamo facendo ora; riunirci nei collettivi per raccogliere le risorse per chiarire o arginare la tremenda emorragia che sta affliggendo la sicurezza nazionale dei democratici>>.
 
Ultima modifica:

Enriquez

Member
Fenomeno dell'entanglement; quantistico

Il termine "entanglement" – letteralmente in inglese groviglio, intreccio - fu introdotto nel 1935 da Erwin Schrödinger nel recensire un famoso articolo. Esso implica la presenza di correlazioni a distanza tra le quantità fisiche osservabili appartenenti ai sistemi coinvolti. Si può quindi definire entanglement quantistico o correlazione quantistica il fenomeno per cui ogni stato quantico di un insieme dipende dallo stato di ciascun altro stato quantico del medesimo sistema, anche se spazialmente viene da essi separato. Esso implica dunque la presenza di correlazioni a distanza tra le quantità fisiche osservabili
Porto ad esempio un esperimento svolto ne 1998 dal dipartimento della difesa statunitense. Vennero prelevate alcune cellule dal palato di un soggetto. Dette cellule, introdotte in una provetta, furono collegate ad un poligrafo (macchina della verità). Anche il soggetto venne collegato ad un poligrafo in un'altra zone del medesimo edificio per farlo assistere a differenti immagini: di pace e tranquillità oppure di violenza e suspence.
Ed ecco il risultato: Le cellule separate registravano la medesima risposta fisiologica del soggetto. Ovvero, se il soggetto assisteva ad immagini calme e rilassanti la sua risposta fisiologica era la medesima delle cellule prelevate e separate da lui. Se il soggetto subiva un azione stimolante anche le cellule, separate da lui, reagivano nel medesimo modo.
Scrive Fritjof Capra: “…ebbi la consapevolezza che tutto intorno a me prendeva parte a una gigantesca danza cosmica.”Anche i miei personaggi prendono parte a questa danza.
da Tracce invisibili di universi paralleli :
Ci sono corde che non vanno nemmeno sfiorate, se si vogliono evitare catastrofi. E ciò che succede per una sola cellula si espande quando il limite tra l’individuale e il collettivo cade. Quando una di queste corde fatalmente comincia a vibrare, quando ― per qualche motivo sconosciuto o difficile da accettare o anche da rilevare ― la vibrazione tocca le moltitudini, la terra si tinge del sangue degli eccidi di massa.
Il grande quadro apre un’altra tessera nel cono temporale principe.
E’ il 1993 e sul pianeta tutto si risolve in azioni aggressive. Una larga parte dell’opinione pubblica interpreta anche gli interventi umanitari nei Balcani proposti dalla Santa Sede come azioni militari. E’ il motivo per il quale viene concessa da Giovanni Paolo II a Jas Gawronski, un’intervista per La Stampa. A Washington Bill Clinton giunge a un accordo: Israele uscirà dalla striscia di Gaza lasciando i territori occupati sotto la guida palestinese, ma i termini del trattato si rivelano ambigui e gli scontri riprendono.
Carlotta Campo deve decidere se scrivere o no a Marek Kreen.
Perché rispondere a una lettera romantica in un fine millennio così violento? Si chiede la signora Campo. A trattenerla, soprattutto, è una chiara obiezione: perché le annotazioni destinate a Paolo Cardinale sono nelle mani di Marek Kreen? Come ci sono finite?
I quesiti, che continuano ad affacciarsi rimangono senza risposta e ciascuna domanda ne alimenta un'altra. Fra tutte, una la riguarda direttamente: perché si è sentita così felice nell’aprire la lettera? Che cosa c’è di esaltante nello scrivere a una persona e ricevere la risposta da un’altra? Forse è la sensazione di aver finalmente qualcosa tra le mani a procurarle gioia; no, non è nemmeno questo. La ragione va cercata su un piano differente e del tutto irrazionale; in lei qualcosa funziona come un segnalatore di presenza, ha tra le mani la busta e il segnalatore comincia ad emettere il suo bip, bip. Carlotta si sente un cercatore d’acqua, un rabdomante quando trattiene tra le mani il suo strumento che vibra forte. (…)
Nonostante l’alchimia irresistibile della giovinezza, la realtà del nostro rapporto non sfuggiva a nessuno dei due. Insomma sapevamo entrambi che la nostra storia, così esaltante, era effimera quanto la fiamma di un cerino e sarebbe bastato un soffio a spegnerla per sempre. Eppure, qualcosa tra noi fece “clic”. Lo seppi dopo, con l’amore ormai annichilito in realtà differenti.
Definii “imprinting” quel momento.
Fu un evento minimo, apparentemente irrilevante come lo scatto di una fotografia, a fissarci profondamente uno nella coscienza dell’altro. Quando avvenne non saprei dirlo. Dove? Certo fu in quella casa di pietra, nella camera presso la legnaia, al pallido chiarore della luna; quando avevamo bisogno l’uno dell’altra e l’amore era l’acqua di un’ oasi dopo il deserto.
<<Ti piaccio, Paolo?>> gli chiedevo. <<Immensamente>> mi rispondeva lui.
Avevo capito presto di essere la sua prima amante e una sorta di premurosa reticenza mi impediva di lasciarmi andare. Lo guardavo stupita di trovarlo così bello anche in quei momenti. Accoglievo i suoi gesti ingenui e sensuali e gli restituivo baci, carezze, sospiri, con la sensazione di trattenere la sua anima tra le mani.
Mi pervadeva una sofferenza sottile ― era un regalo per me ―come se avessi sempre saputo che la felicità, oltre una certa soglia, è quel dolore allo stato puro che non tutti possono raggiungere.
<<Ti amo Paolo>>. Ecco, l’avevo detto.
<<Io non so>> mi rispose.
In fondo me l’aspettavo. Non avevano mai parlato d’amore; perché ogni promessa, ogni giuramento aveva la stessa credibilità della parola di un ubriaco.
Parlavo del mio ritorno in città e di quello che avevo lasciato, quando qualcosa mi bagnò il volto. La sensazione fisica fu quella della pioggia e per un tempo infinitesimo una parte di me deve aver persino creduto che piovesse.
Invece erano le sue lacrime.
Grosse lacrime. Un pianto silenzioso e dirompente che gli agitava il petto. Pazza di felicità ― avrei voluto berlo quel pianto ― volevo che quel momento durasse per sempre. Invece gli feci la solita domanda stupida: <<Perché piangi?>>.
Non rispose subito, non poteva. In silenzio gli asciugavo gli occhi, il volto e le mani.
<<Non lo conosco l’amore. Per questo prima ho detto “non so”. Ma quel che provo ora per te, non può essere altro che amore. Ti amo Carlotta e sono così sfortunato! Provo questo sentimento per la prima volta per una donna più grande di me, sposata, che non potrà mai essere mia>>. (…)

Arrivati alla sommità della collina, lasciammo l’auto in un piccolo parcheggio semideserto per proseguire a piedi e ― finalmente ― lui mi baciò le labbra. Non ricordo affatto i nostri discorsi, ne’ quanto tempo ci fermammo a Villa Genero, ma sento ancora il calore della sua pelle sul volto. Oggi posso abbandonare quel momento e poi tornare a riprenderlo e rivedere la luce del parco penetrare frastagliata tra le mie ciglia socchiuse; posso anche richiamarlo in continuazione se voglio, e riprodurre intiera la realtà virtuale di quel pomeriggio d’ottobre, trascorso ormai da quasi vent’anni. Potrei perdere la memoria, essere preda del morbo di Halzimer, andare in coma, ma quel ricordo non si cancellerà, ne sono certa; resterà sospeso da qualche parte come il file di un programma.
Un uccello sconosciuto scandiva netto il suo canto sul concerto degli altri, lasciando una traccia perfetta; era il segno di un codice, un segno infinitamente piccolo nella trama di quel giorno; uno dei tanti che si staccano, chissà da dove, per cambiare il disegno dell’ esistenza di ciascuno.
 

Enriquez

Member
il matrimonio. Che cosa è cambiato?

Il termine "entanglement" – letteralmente in inglese groviglio, intreccio - fu introdotto nel 1935 da Erwin Schrödinger nel recensire un famoso articolo. Esso implica la presenza di correlazioni a distanza tra le quantità fisiche osservabili appartenenti ai sistemi coinvolti. Si può quindi definire entanglement quantistico o correlazione quantistica il fenomeno per cui ogni stato quantico di un insieme dipende dallo stato di ciascun altro stato quantico del medesimo sistema, anche se spazialmente viene da essi separato. Esso implica dunque la presenza di correlazioni a distanza tra le quantità fisiche osservabili
Porto ad esempio un esperimento svolto ne 1998 dal dipartimento della difesa statunitense. Vennero prelevate alcune cellule dal palato di un soggetto. Dette cellule, introdotte in una provetta, furono collegate ad un poligrafo (macchina della verità). Anche il soggetto venne collegato ad un poligrafo in un'altra zone del medesimo edificio per farlo assistere a differenti immagini: di pace e tranquillità oppure di violenza e suspence.
Ed ecco il risultato: Le cellule separate registravano la medesima risposta fisiologica del soggetto. Ovvero, se il soggetto assisteva ad immagini calme e rilassanti la sua risposta fisiologica era la medesima delle cellule prelevate e separate da lui. Se il soggetto subiva un azione stimolante anche le cellule, separate da lui, reagivano nel medesimo modo.
Scrive Fritjof Capra: “…ebbi la consapevolezza che tutto intorno a me prendeva parte a una gigantesca danza cosmica.”Anche i miei personaggi prendono parte a questa danza.
da Tracce invisibili di universi paralleli :
Ci sono corde che non vanno nemmeno sfiorate, se si vogliono evitare catastrofi. E ciò che succede per una sola cellula si espande quando il limite tra l’individuale e il collettivo cade. Quando una di queste corde fatalmente comincia a vibrare, quando ― per qualche motivo sconosciuto o difficile da accettare o anche da rilevare ― la vibrazione tocca le moltitudini, la terra si tinge del sangue degli eccidi di massa.
Il grande quadro apre un’altra tessera nel cono temporale principe.
E’ il 1993 e sul pianeta tutto si risolve in azioni aggressive. Una larga parte dell’opinione pubblica interpreta anche gli interventi umanitari nei Balcani proposti dalla Santa Sede come azioni militari. E’ il motivo per il quale viene concessa da Giovanni Paolo II a Jas Gawronski, un’intervista per La Stampa. A Washington Bill Clinton giunge a un accordo: Israele uscirà dalla striscia di Gaza lasciando i territori occupati sotto la guida palestinese, ma i termini del trattato si rivelano ambigui e gli scontri riprendono.
Carlotta Campo deve decidere se scrivere o no a Marek Kreen.
Perché rispondere a una lettera romantica in un fine millennio così violento? Si chiede la signora Campo. A trattenerla, soprattutto, è una chiara obiezione: perché le annotazioni destinate a Paolo Cardinale sono nelle mani di Marek Kreen? Come ci sono finite?
I quesiti, che continuano ad affacciarsi rimangono senza risposta e ciascuna domanda ne alimenta un'altra. Fra tutte, una la riguarda direttamente: perché si è sentita così felice nell’aprire la lettera? Che cosa c’è di esaltante nello scrivere a una persona e ricevere la risposta da un’altra? Forse è la sensazione di aver finalmente qualcosa tra le mani a procurarle gioia; no, non è nemmeno questo. La ragione va cercata su un piano differente e del tutto irrazionale; in lei qualcosa funziona come un segnalatore di presenza, ha tra le mani la busta e il segnalatore comincia ad emettere il suo bip, bip. Carlotta si sente un cercatore d’acqua, un rabdomante quando trattiene tra le mani il suo strumento che vibra forte. (…)
Nonostante l’alchimia irresistibile della giovinezza, la realtà del nostro rapporto non sfuggiva a nessuno dei due. Insomma sapevamo entrambi che la nostra storia, così esaltante, era effimera quanto la fiamma di un cerino e sarebbe bastato un soffio a spegnerla per sempre. Eppure, qualcosa tra noi fece “clic”. Lo seppi dopo, con l’amore ormai annichilito in realtà differenti.
Definii “imprinting” quel momento.
Fu un evento minimo, apparentemente irrilevante come lo scatto di una fotografia, a fissarci profondamente uno nella coscienza dell’altro. Quando avvenne non saprei dirlo. Dove? Certo fu in quella casa di pietra, nella camera presso la legnaia, al pallido chiarore della luna; quando avevamo bisogno l’uno dell’altra e l’amore era l’acqua di un’ oasi dopo il deserto.
<<Ti piaccio, Paolo?>> gli chiedevo. <<Immensamente>> mi rispondeva lui.
Avevo capito presto di essere la sua prima amante e una sorta di premurosa reticenza mi impediva di lasciarmi andare. Lo guardavo stupita di trovarlo così bello anche in quei momenti. Accoglievo i suoi gesti ingenui e sensuali e gli restituivo baci, carezze, sospiri, con la sensazione di trattenere la sua anima tra le mani.
Mi pervadeva una sofferenza sottile ― era un regalo per me ―come se avessi sempre saputo che la felicità, oltre una certa soglia, è quel dolore allo stato puro che non tutti possono raggiungere.
<<Ti amo Paolo>>. Ecco, l’avevo detto.
<<Io non so>> mi rispose.
In fondo me l’aspettavo. Non avevano mai parlato d’amore; perché ogni promessa, ogni giuramento aveva la stessa credibilità della parola di un ubriaco.
Parlavo del mio ritorno in città e di quello che avevo lasciato, quando qualcosa mi bagnò il volto. La sensazione fisica fu quella della pioggia e per un tempo infinitesimo una parte di me deve aver persino creduto che piovesse.
Invece erano le sue lacrime.
Grosse lacrime. Un pianto silenzioso e dirompente che gli agitava il petto. Pazza di felicità ― avrei voluto berlo quel pianto ― volevo che quel momento durasse per sempre. Invece gli feci la solita domanda stupida: <<Perché piangi?>>.
Non rispose subito, non poteva. In silenzio gli asciugavo gli occhi, il volto e le mani.
<<Non lo conosco l’amore. Per questo prima ho detto “non so”. Ma quel che provo ora per te, non può essere altro che amore. Ti amo Carlotta e sono così sfortunato! Provo questo sentimento per la prima volta per una donna più grande di me, sposata, che non potrà mai essere mia>>. (…)

Arrivati alla sommità della collina, lasciammo l’auto in un piccolo parcheggio semideserto per proseguire a piedi e ― finalmente ― lui mi baciò le labbra. Non ricordo affatto i nostri discorsi, ne’ quanto tempo ci fermammo a Villa Genero, ma sento ancora il calore della sua pelle sul volto. Oggi posso abbandonare quel momento e poi tornare a riprenderlo e rivedere la luce del parco penetrare frastagliata tra le mie ciglia socchiuse; posso anche richiamarlo in continuazione se voglio, e riprodurre intiera la realtà virtuale di quel pomeriggio d’ottobre, trascorso ormai da quasi vent’anni. Potrei perdere la memoria, essere preda del morbo di Halzimer, andare in coma, ma quel ricordo non si cancellerà, ne sono certa; resterà sospeso da qualche parte come il file di un programma.
Un uccello sconosciuto scandiva netto il suo canto sul concerto degli altri, lasciando una traccia perfetta; era il segno di un codice, un segno infinitamente piccolo nella trama di quel giorno; uno dei tanti che si staccano, chissà da dove, per cambiare il disegno dell’ esistenza di ciascuno.

Eccomi di nuovo a voi con un nuovo quesito: Che cosa è cambiato nella famiglia e nel matrimonio? Molto, certamente. E la domanda che ci poniamo tutti è la seguente: abbiamo fatto passi avanti o si tratta di recessione?

Da “Tracce invisibili di universi paralleli”

Dicembre 1969: Torino, l’influenza

Quell’anno in dicembre ci fu un’epidemia di influenza. Le scuole si svuotarono; i medici correvano da una parte all’altra della città e per riuscire a riposare qualche ora dovevano staccare il telefono, all’epoca nemmeno i professionisti usavano ancora la segreteria telefonica. I Campo si erano contagiati l’un l’altro; erano tutti a letto. Tutti tranne Carlotta, che probabilmente, non s’ era l’era presa perché stava sempre dai Rota vaccinati in autunno. Lei allora - con il permesso della madre - era rimasta a casa del fidanzato una settimana. L’avevano messa a dormire nello studio privato del dottor Rota, sulla poltrona di pelle che fronteggiava il televisore. La poltrona si apriva per trasformarsi in un letto comodo; così quella stanza funzionava anche da camera per gli ospiti. Anche la prozia di Antonio (quella di Pont Canavese) dormiva lì quando era in visita. Nelle rispettive famiglie già si parlava di matrimonio; i due giovani infatti si sarebbero sposati nella primavera seguente, alla fine di maggio, presso la cappella di san Vito . “Grazie Dio, che li hai fatti ammalare tutti! Grazie!” declamava Antonio. Il fatto che - per tutta la settimana - non dovesse separarsi dalla sua ragazza nemmeno un’ora, gli procurava una carica emozionale difficile da contenere. Poco importava che non dormissero insieme, non potevano fare all’amore, pazienza; avrebbero recuperato il giorno dopo. La prima volta che lui e Carlotta l’avevano fatto, erano al mare. Tornati a Torino, era successo quasi ogni giorno in via Michelangelo, quando sua madre non c’era, naturalmente. Una volta la signora Rota era tornata a casa prima del previsto e i due si erano dovuti rivestire a rotta di collo. Antonio non era riuscito rimettersi la camicia e Carlotta era spettinata. “Chissà se la mia vecchia si era accorta di qualcosa” aveva buttato là Antonio. Facevano l’amore anche in via Garibaldi, nella stanza che lei divideva con la sorella perché di giorno durante la settimana, Antonella era in ditta. Adesso era a letto anche lei con l’influenza quindi, contagio a parte, non sarebbe stato possibile occupare quella stanza. In fin dei conti - se proprio volevano - con la macchina, bastava cercare il posto giusto e reclinare i sedili. Era già successo e non una volta soltanto. Certo, averla nella stanza accanto, di notte, per una settimana, era una tentazione irresistibile. Chissà, se sarebbe riuscito a dormire. Meglio lasciar perdere, comunque. Stavano per sposarsi, giusto? Quindi avevano la vita intera per recuperare.


. Carlotta prese il suo beauty case per sistemarlo sul piano a giorno della libreria;
la ragazza vide una lente di ingrandimento che fermava alcuni francobolli infilati in piccole buste di plastica. Sicuramente, pensò, fanno parte della collezione del dottor Rota e lispostò con il medesimo ossequio reticente del religioso che si accosta alla Sindone. Forse, pensò i miei futuri suoceri lo sanno che Antonio ed io.... Forse volevano solo salvare le apparenze. C’era qualcosa che le suonava falso nell’ospitalità complimentosa che stava per ricevere; dormire nello studio non le piaceva affatto perché significava mentire. Si rivolse ad Antonio che le stava sistemando la piantana presso la poltrona letto: “dobbiamo proprio recitare la commedia? Perché non posso dormire con te?”. Senza staccare gli occhi dal paralume in pergamena lui le rispose: “Si cara la mia bambolina, devi proprio, se non vuoi che a mio padre prenda un colpo apoplettico anzitempo… anche a mia madre verrebbe un accidente e sono ancora troppo giovani per morire”. Compiaciuto della battuta un tantino macabra fece una risata prima di approfondire: “ Il fatto è che pensano a te come alla vergine Maria e non si aspettano di sicuro che noi….”. “ Loro pensano così, mentre tu invece….”. “ Certo Bambolina. Te lo dico sempre che hai la faccia da porca”. La cosa migliore pensò la ragazza é non ribattere; Era abituata alle volgarità alla moda. Antonio - con quella frase - voleva semplicemente farle un complimento, dirle quanto la trovasse sexi. “Deve già volerti molto bene mio padre se ti fa dormire nel santa santorum”. “E la zia Rosina allora? Anche lei dorme qui.” “Ecco. Hai colto nel segno. Per la vegliarda mio padre ha una venerazione”. Erano le sette di sera, tra poco sarebbero andati a cena tutti insieme e - dopo - lei avrebbe passato la notte sotto lo stesso tetto del fidanzato. Le sembrava una cosa impegnativa, una specie di prova generaleAnzi - a pensarci bene - di più, era come se quella sera lei avesse firmato un contratto. E se cambiava idea? E se qualcosa le avesse fatto dire basta? Non sapeva bene nemmeno lei immaginare che cosa, ma se le fosse venuta voglia di rompere tutto, di scappare, insomma di lasciare Antonio; come avrebbe potuto adesso? Come era possibile che si fosse già a quel punto? Era capitato tutto ad un tratto, come per l’avvolgimento veloce di una pellicola.. Era stato come addormentarsi giovane e svegliarsi vecchia, così, all’improvviso. Ebbe un brivido a quel pensiero.
 

Enriquez

Member
la violenza dei padri; ieri e oggi. Perchè

Un saluto a tutti. Il tema che vorrei sottoporre stasera alla vostra cortese attenzione è quello della violenza. Comincerò da quella dei padri contro i propri figli e lo farò come sempre attraverso le pagine del mio romanzo.

Da "Tracce invisibili di universi paralleli".
Dal 1957: Torino, punizioni corporali

<<Quando stavo nella pubblica sicurezza>>, diceva il signor Campo ai suoi ragazzi, <<mi è capitato di assistere un genitore che rinunciava alla patria potestà.>>. E, dopo aver controllato l’aspettativa dell’uditorio, completava la dichiarazione: <<Basta una firma, per mettere il proprio figlio in riformatorio>>. non scherzava.
Non sorrideva nemmeno mentre se ne usciva con quell’enormità. L’affermazione dell’ex carabiniere era chiaramente assurda. Senza contare che nessuno dei suoi figli meritava la casa di correzione, tanto meno Carlotta, che non rubava, non assumeva droghe, non era alcolizzata, non usava violenza a se stessa o agli altri; non era neppure uno di quei casi disgraziati di gravidanza precoce che, soprattutto negli Anni cinquanta, rappresentavano uno scandalo per la famiglia.
Quello di Alessandro era un abuso di autorità paterna, oltre che una violenza, ma lui non si considerava un violento e nemmeno uno psicolabile che non è in grado di controllarsi. In verità, s’era sempre fatto un vanto del proprio autocontrollo e aveva un attestato indiscutibile da presentare, la sua resistenza alle vessazioni del cognato: <<Se fosse stato per te, Rina>>, diceva alla moglie, <<non avremmo di sicuro la ditta, perché tu volevi mollare tutto; c’è voluto il bello e il buono per convincerti a non farlo>>.
Se con la famiglia Campo si abbandonava all’ira, questa concessione che faceva a se stesso gli sembrava un diritto.
Il giorno della cresima di Antonella, Caterina ebbe dei lividi sul viso, che la tesa larga del cappello e la cipria non furono in grado di nascondere, e sarebbe stato di nuovo un pugno ad incrinare il cristallo del banco di vendita. Carlotta, si sarebbe chiesta come papà avesse fatto a non ferirsi la mano. Il piano in cristallo non venne sostituito e rimase lì, in perenne ricordo di quel gesto esemplare.
<<C’è un proverbio cinese che dice: quando incontri tua moglie, picchiala; tu non sai perché, ma lei sì>>affermava ridendo Alessandro.
Al di là dell’ironia che lo proteggeva dal disprezzo di sé, pensava davvero che la miglior correzione fossero le botte. Se avesse agito in modo più fine, loro ― tutti loro, compresa sua moglie ― non avrebbero capito, perché non erano in grado di comprendere la portata di certi ragionamenti e di conseguenza non sarebbero servite a molto tante spiegazioni. <<Niente perché e percome, obbedisci e basta.>>. Era questa la risposta eloquente che preveniva, negandola, qualsiasi discussione agli ordini. Questo diceva ai suoi figli, e ugualmente lo sottintendeva con la moglie.
Caterina aveva con lui il medesimo rapporto di una orientale per il suo signore e padrone. Il fatto che non camminasse tre passi dietro suo marito, che lo canzonasse di tanto in tanto, rientrava nelle concessioni che il pater familias elargiva ai suoi sottoposti.
<<Se mia moglie mi lascia, mettiamo che se ne va da casa, io appena la trovo le spezzo un braccio e, se lo fa di nuovo, le spezzo l’altro. Non come quel “meneghella” di mio suocero>>.
Alludeva al fatto che Natalia, la madre di Caterina, dopo una lite con suo marito, era scappata di casa e al suo ritorno lui l’aveva perdonata.
In altri momenti, quando il modello non era più Zeus, ma “il re che concede la grazia”, Campo quelle frasi dimenticava d’averle dette; non gli appartenevano più. Allora anche il comportamento precedente era da ritrattare: <<Con gli anni, maturi, ragioni e allora ti dici: perché debbo picchiare mia moglie?>>. Purtroppo, avrebbe desistito da quella pratica, solo molto tardi.
Tornando a Carlotta, la figlia prediletta di Alessandro, fu esattamente dai dodici anni in poi che la ragazza si aggiudicò il primato delle sberle paterne.
Uno psicologo formulò un’ipotesi sul quel rapporto. La giovane stava appunto dicendo al dottore di come, dai dodici ai vent’anni, suo padre la menasse di continuo. <<Mi picchiava tutti i giorni; direi che, se ne saltava uno, quello era da segnare sul calendario>>. Tentava di ridere. <<Per lo più si trattava di manrovesci che arrivavano all’improvviso, per questo o per quell’altro motivo>>.
<<Adesso non più?>> chiese lo psicologo>>.
<<Beh, no>>, rispose la ragazza, <<anche perché, da quando mi sono fidanzata, non sono più a tavola tanto spesso. Ed era all’ora dei pasti che mio padre …>>.
Carlotta si interrompeva cercando di agganciare meglio il ricordo, poi cercava di trasferirlo così come l’aveva vissuto:
<<Siedo alla sua destra, a tavola, è quello il mio posto. Alla destra di dio padre, onnipotente hanno sempre detto i miei fratelli per metterla sul ridere. Anche papà cercava di scherzare sulla questione: “Secondo me” diceva “tu hai un futuro nella scherma; guarda come sei brava a parare i colpi”>>.
<<Suo padre deve amarla molto>> era stata la conclusione dello psicanalista.
<<Perché dice questo professore? Non capisco>>.
<<Vede Signorina, picchiare qualcuno, può sembrarle strano, è tra le manifestazioni d’affetto del maschio; diciamo un’effusione alternativa. Si batte una persona per poterla toccare. Avrà certamente visto gli sportivi spingersi e darsi grandi pacche sulle spalle>>.
<<Sicuro>>. rispondeva Carlotta.
<<Ecco, allarghi la cosa, anzi tolga il lato giocoso e confidenziale del gesto e arriverà a percosse vere e proprie. Picchiare è comunque toccare fisicamente, e ciascuno di noi, se può, tocca solo ciò che ama o che gli piace>>, concludeva il dottore.
Carlotta non poteva crederci; l’aggressività del padre nei suoi confronti era foriera di altri messaggi e andava ben oltre la sfera affettiva. Purtroppo quella violenza era per Alessandro Campo un tentativo di imporsi. Il non riuscirvi lo esasperava, spingendolo a gesti estremi che, in qualche modo, gli confermassero quell’autorità a cui la ragazza sembrava sottrarsi e che per lui invece rappresentava sicurezza e prestigio.
Carlotta subì da suo padre delle vere e proprie aggressioni fisiche.
L’uomo le lanciò contro un martello che colpì il muro, facendo saltare l’intonaco. Non la prese per fortuna perché lei, all’epoca, aveva diciotto anni e fu pronta a schivarlo, abbassando la testa .
E se l’avesse presa, invece ?
Poteva ucciderla o ferirla in modo grave. Che cosa sarebbe successo, allora? Caterina l’avrebbe perdonato per l’ennesima volta, coprendo tutto, come al solito? Oppure lui avrebbe avuto modo di prendere la sospirata laurea in galera?
C’è da chiedersi se si rendesse conto della gravità del gesto, che aveva già un precedente: Carlotta aveva quindici anni, quando Alessandro la portò al pronto soccorso per averla colpita sopra la tempia. Anche quella volta si trattò di un lancio, più ravvicinato però; presa la saliera di cristallo dalla tavola apparecchiata, la scagliò contro la figlia, seduta accanto a lui.
Mentre il medico ricomponeva la lacerazione, lei teneva la mano del padre; gli sorrideva amorevole, non una parola sull’accaduto.
Carlotta avrebbe dimenticato perfino la bugia di Alessandro al dottore che, succede anche oggi purtroppo, finse di mangiare la foglia; chissà quanti ne vedeva di casi del genere.
Non è raro che, la vittima copra l’aggressore e nemmeno che una madre taccia e perdoni suo marito. Si può anche capire la menzogna di chi ha compiuto un atto tanto brutto.Ma quello scatto, quella violenza divennero tra gli argomenti utilizzati dall’uomo per denigrare la figlia e questo era difficile sia da comprendere, sia da perdonare:
<<Le ho perfino spaccato la testa per farla cambiare, ma niente! Non c’è proprio verso!>>, così diceva il signor Campo cercando comprensione.
Nello stesso periodo, il padre di Carlotta morse la figlia alla radice del naso. Benché non affondasse i denti nella sua tenera carne, ugualmente quel gesto fu degradante per entrambi. Di nuovo erano tutti a tavola quando successe, e per l’ennesimo, banale motivo. E qui si evidenzia il lato comico del dramma: il capofamiglia stava consumando il secondo e aveva la bocca piena. Nemmeno l’aveva deglutita la carne, quando si avventò come una tigre su di lei. Carlotta avvertì con disgusto la bocca di suo padre stretta sul setto nasale insieme alla poltiglia della prima masticazione e il sentore dell’aglio.
Alessandro aveva appena mollato la presa e stava ancora dando in escandescenze, che la ragazza era già in bagno. Trovato l’acetone sulla mensola, insieme allo smalto per le unghie, non ci pensò due volte a prenderne un sorso. Lui ― che l’aveva seguita chiaramente spaventato ― adesso stava urlando: <<“Feccia vivente” sputa subito! Mettiti due dita in gola e vomita; perché sennò ti strozzo io con queste mani, visto che vuoi morire>>.
No, Carlotta non voleva morire, non l’ aveva neppure deglutito il solvente; era una reazione la sua. Tutti i torti, in fondo, non li aveva perché essere morsa così dal papà la riempiva di disgusto e di disperazione, oltre che di rabbia.
Per tornare alla minaccia iniziale ― “basta una firma, per mettere il proprio figlio in riformatorio” ― era il padre a rischiare, non i figli; perché un giudice che fosse venuto a conoscenza del suo comportamento da fuori di testa gli avrebbe potuto tranquillamente togliere la patria podestà, senza che lui si prendesse nemmeno il disturbo di porre la firma.
 

Enriquez

Member
la ricerca occupa tutti noi, sempre. Ma che cosa cerchiamo veramente?

Cari amici. Ecco un tema dibattuto nel mio romanzo: La ricerca. Carlotta Campo cerca Paolo Cardinale desaparecidos. Ma in realtà cerca se stessa.

Dalle pagine di “Tracce invisibili di universi paralleli”.
Chi cerca veramente Carlotta?
Perché guarda con gli occhi e l’anima di una adolescente la lettera di uno sconosciuto?
E chi è Marek ?
E’ solo perché, in lui, intuisce una strada per arrivare a Paolo che Carlotta si pone come un’innamorata nei confronti di Marek ?
Dalle pagine di “Tracce invisibili di universi paralleli” di Enrichetta Caparco.

Quello stesso giorno al caffè Fiorio

Fiorio conserva gelosamente, oltre alla ricetta segreta del gelato Gianduia, l’arredo retrò dei suoi saloni.
E anche quel giorno ― ed era là che le due amiche erano dirette― nella sala rossa, il loro tavolino era libero. Giò vi posò le Malboro light e aspetto che l’amica sedesse per chiedere: <<Insomma ti ha scritto Marek . É così che si chiama, è vero?>>.
Carlotta annui, poi alzò le spalle : <<Si. E non solo gli ho risposto, gli ho mandato anche altro>>.
<<Altro?>>.
L’amica si scherni: A dir la verità mi vergogno… Si, una specie di novella: l’incontro tra me e Paolo a Courmayeur. Comunque aspetto la risposta in questi giorni >. Carlotta guardò i vetri a cattedrale dell’ingresso sulla via Bogino. Chissà perché entravano tutti dalla via Po! E fu quel pensiero che non c’entrava per nulla con il suo problema a darle la forza di affermare: <<Il fatto è che sto pensando di andarci a Londra>>.
<<Cosa!?>>.
<<Sì, proprio così . Primo, l’indirizzo ce l’ho. Secondo, ci vado e… buona notte ai suonatori! Così almeno lo vedo in faccia>>.
Il cipiglio di Carlotta ostentava una sicurezza che non possedeva e Giò lo capì subito: <<Hai ragione. Soltanto che…>>. Il cameriere era al tavolo. <<Da dove viene lei ?>> gli chiese.
Il giovane, un bel ragazzo di colore, inalberò il suo miglior sorriso: <<Zaire, signora>>.
Ordinarono caffè lungo in tazza grande per Giovanna: <<Ho preso tre chili questo mese>>. Carlotta invece prese zabaglione con gelato, ma senza panna.
Fiorio, a un tratto, era affollato. Un gruppo di impiegati stava organizzando la settimana bianca in Val di Susa. Gli uomini in giacca e cravatta sorbivano analcolici, e le donne , vestite tutte allo stesso modo, succo di pomodoro. C’erano anche due avvocati sulla quarantina, Carlotta ci avrebbe scommesso. Sorridenti e azzimati; centellinavano le parole in compagnia di una ragazza avvenente che vestiva Prada.
Un chiaro appartenente alla categoria degli evoluti con tanto di auricolare si parlava addosso in fondo alla sala, sotto l’insegna discreta delle toilettes.
Le signore della Torino chic, figure deliziose in via di estinzione, sedevano sparse qua e là, in piccoli gruppi. Ornate con gioielli antichi, li portavano su camicette bianche di picchè o di organza, stirate in modo perfetto. Qualcuna ancora azzardava il cappello.
Un pensionato che ce la metteva tutta per sembrare di mezza età, era già là quando le due amiche erano entrate, non le perdeva d’occhio.
<<Allora hai deciso, vai a Londra>>.
Carlotta la guardò come per chiedere aiuto. <<Si lo so. E’ un colpo di testa. E che faccio poi? Avverto che arrivo… Oppure, niente, gli faccio una bella improvvisata. E il motivo? “Caro Marek, volevo vedere se somigli a tuo padre o… quanto sei bello”. No, non esiste!>>.
Passanti frugò nella borsa: <<Credevo di aver preso…>>.
<<Non c’è problema, tanto tocca a me questa volta>>.
<<E perché? Eccola, l’accettano è vero la carta di credito?>>. Giò prese una sigaretta e senza offrirla all’amica, aveva smesso, l’accese: <<Ammettiamo che Marek non ti risponda e tu decida per l’improvvisata. Hai tutti i diritti di fare un controllo… Perché chi ti dice che l’indirizzo non sia fasullo, un puro frutto della fantasia di qualcuno. Qualcuno che si sta prendendo gioco di te per esempio>>.
L’amica fece un gesto come per fermarla:
<<Alt, alt. Tutto questo se non ricevo posta. Ma se la risposta arriva, significa che la mia lettera è giunta a destinazione no? Di conseguenza, l’indirizzo londinese è reale… E allora anche questo pretesto salta>>. Sentiva la tristezza invaderla come l’acqua in un vaso; era inutile illudersi, doveva smetterla di mentire a se stessa:
<<Certo. E’ probabile che io sia l’oggetto di un gioco da quattro soldi, ma per il divertimento di chi? Non capisco. E non è nemmeno questo il punto>>.
<<E quale è, allora, il punto?>>.
<<Il punto è che, ammesso e non concesso che io abbia il diritto di controllare Paolo, non posso certo farlo con suo figlio>>.
Carlotta si stava mettendo nella borsa il conto, per pagarlo alla cassa, ma Giovanna non ci badò, infervorata com’era: <<E va bene, sia pure. Ma di mettere in chiaro quel che ti vanno raccontando ce l’avrai pure il diritto, no? Guarda che è stato proprio lui, che si è preso la briga di rispondere a una lettera di Paolo. Sei d’accordo?>>.Finì di bere il suo caffè. Si aspettava un assenso o un diniego da Carlotta, ma non arrivò nulla. Allora riprese a parlare: <<Voglio dire che non è poi così fuori luogo una verifica e questo ragazzo potrebbe anche capirti. La questione però è un’altra>>. Carlotta la guardò asciugarsi le labbra con il tovagliolino di carta, prima di chiedere:
<<Quale? Insomma Giò, quale è la dannatissima questione?>>.
<<E’ che qui c’è sotto qualcosa, te ne rendi conto ? Secondo me, corri il rischio di fare il viaggio a vuoto, di non riuscire nemmeno a vederlo in faccia, questo tizietto… Marek, o come diavolo si chiama…>>.
Carlotta cercava di riflettere. Anche lei, in fondo, aveva pensato una cosa del genere. Che fosse vera o falsa quell’ ipotesi, era difficile dirlo. Ma per quale motivo agire d’impulso e rischiare un buco nell’ acqua? E se non riusciva nemmeno a incontrarlo Marek che cosa avrebbe risolto alla fine? Un viaggio a Londra costava tempo e soldi. Mettiamo pure che partisse per un fine settimana, non sarebbe bastato. Francesca sapeva, ma agli altri? A nemmeno un mese dal convegno!
Giovanna adesso la guardava soddisfatta come chi ha finalmente deciso di prendersi una vacanza. Disse: <<Senti, mi è venuta un’idea>>.
<<Quale?>>.
<<Potresti continuare a scrivere a questo polacco. É così che dice di essere, vero?>>.
L’amica si limitò a un cenno d’assenso.
<<Finché dura. Perché ho i miei dubbi che il vostro carteggio vada per le lunghe. E intanto…>>.
<<E intanto cosa?>>. E c’era speranza nella voce di Carlotta.
<<É molto semplice>> rispose <<intanto prendi informazioni>>.
 

Enriquez

Member
Bentrovati amici. Vorrei proporvi, sempre nell'ambito del matrimonio e della famiglia "l'alba" dell'amore che nasce tra madre e figlio o figlia trattato nelle pagine del mio romanzo.
Giunte là, furono affatto sole. Passarono i giorni a conoscersi, guardando l’una il volto dell’altra. Rapita dal mistero di quello sguardo, Carlotta ne subiva il fascino. Riscoprì l’infanzia, tornando bambina. Parlava alla sua creatura in continuazione, inventando discorsi che avevano senso solo per loro due.
A maggio, il tempo, in Liguria è mite. Carlotta allattava il suo bebé presso la scogliera, seduta su una panchina della passeggiata a mare.
Madre e figlia, respiravano per la prima volta insieme quella miscela deliziosa, densa di jodio, di pino marittimo e delle mille essenze della costa. Si godevano quella primavera inedita. Il sole inondava il litorale, si posava sul volto paffuto e sui capelli biondi e leggeri della bambina, le faceva socchiudere gli occhi, nella tranquillità nuova ed antica dell’ infanzia, sempre uguale a se stessa.
Il cuore di Carlotta batteva calmo e lento mentre Francesca succhiava. Il latte le sgorgava copioso da entrambe le mammelle. Si sentiva appagata. Le pareva di avere tutto quel che le occorreva in quel momento e che la sua vita fosse ricca di doni come un albero di natale, anzi si sentiva lei stessa quell’albero.
Sciocca, si diceva. Francesca non è tua, non lo sarà mai e un giorno potresti anche perderla. Certo, lei lo sapeva bene che Francesca avrebbe anche potuto morire o andare lontano per non tornare più e che, comunque, si sarebbe sposata, sarebbe andata ad abitare altrove, in un altro posto e in un’altra casa. Ebbene, non aveva importanza, lei, l’avrebbe sempre protetta, anche se fosse stata lontana. No, non voleva interferire e neppure legarla, ma essere solerte e attenta, vegliare su di lei . Nulla e nessuno avrebbe potuto impedirglielo. Fu allora che Carlotta promise, tacitamente, solennemente, per la vita, come un cavaliere della tavola rotonda, al cospetto del suo re.
 

Enriquez

Member
La famiglia, anzi i personaggi che le animano

Ciao a tutti, Eccomi con un nuovo quesito, amici miei: può il futuro costruire il passato?


Durante la presentazione del mio romanzo vedere il link, viene dibattuta la seguente teoria: Il futuro costruisce il passato e ancora: alla base dell’esistenza sta l’eccezione non la regola Ho portato l’esempio di Alessandro Campo per spiegare la mia tesi: A richiamare la sua fortuna – diverrà ricco e colto, oltre che un grande campione di equitazione - è la grande disperazione della sua prima giovinezza.

Dal Capitolo XX



All’inizio del terzo millennio, la scienza cerca il Bosone di Higgs, ancora non osservato, carica elettrica zero. Si ritiene che esso conferisca le proprietà della massa ai quark, ai leptoni e ai bosoni w e z. Con questa scoperta i fisici tentano di appurare l’eccezione, ovvero quel che accadde nell’infinitesima frazione di secondo che diede inizio all’universo.
Alla base dell’esistenza sta l’eccezione, non la regola; perché è la prima a determinare la sostanza delle cose, tanto che la vita pone i suoi percorsi nell’improbabile. È questa l’ipotesi che Carlotta avalla, perché anche la storia della sua famiglia si regge sull’eccezione.
Nel grande quadro la storia dei Campo è variegata: i Campo sono medici, navigatori, combattenti e artisti, oltre che ricchi proprietari di terre fertili. Hanno colline olivate e frutteti che si stendono a perdita d’occhio; tra Caserta e Napoli ci sono terreni che portano ancora il loro nome. Nel giro di un paio di secoli – tra guerre, carestie e altre calamità – la famiglia perde tutto; poiché le testimonianze lasciano posto ai racconti e anche quelli, ad un certo punto, possono andare perduti.
Eppure Alessandro…


Novembre 1942: Torino, piazza Vittorio Veneto

C’era la guerra e questo aggravava tutto, ma la miseria e il senso di desolazione guastavano le nozze di Alessandro.
Trasportati in cortile dai nipoti, due tavolini da notte e un cassettone stavano per diventare legna da ardere. Era stata la vecchia a deciderlo.
«Per favore, no! Non li faccia a pezzi. Potrei prenderli io quei mobili», disse a Madama Fagone.
«Guardi, signor Campo, che sono pieni di tarli, possono servire giusto per la stufa. Che cosa ne vuol fare?».
Come poteva rispondergli: “Il mobilio della mia camera da letto?”.
Stava per sposarsi; era innamorato di Caterina, felice che gli avesse detto di sì, ma non sopportava l’idea di non avere i soldi per acquistare le fedi nuziali. Nemmeno i fiori poteva comperare alla sua sposa. Sarebbe andato all’altare con i calzoni che Natalia, la futura suocera, aveva trovato tra le macerie di un palazzo.
La notte prima delle nozze l’avrebbe passata a piangere. Avrebbe montato il letto matrimoniale, un rottame rimediato da un rigattiere, e per due volte la rete si sarebbe appiattita rovinosamente sul pavimento. Non che per quel ragazzo del Sud la miseria fosse nuova. La vita, l’infanzia in particolare, era stata dura con lui.


Dal 1927 nel Casertano

Carlotta era una ragazzina, quando suo padre commissionò all’Istituto d’Araldica una ricerca sui Campo.
Tornò a casa eccitato.
Dopo aver raccolto i familiari in sala da pranzo, non senza affettazione, cominciò ad allargare sul tavolo manoscritti, albero genealogico, una copia su carta filigranata dello stemma gentilizio e qualcos’altro. Nel suo orgoglio malcelato c’era ritrosia; era come se Alessandro provasse vergogna a mostrarsi tanto sensibile alle lusinghe di quei documenti.
«Papà», gli chiese Ludovico, «posso dirlo a scuola che sono figlio di un nobile? Cosa sei, un conte o un principe come Totò?».
Il bambino senza saperlo aveva centrato la questione. Fu per vanità, e anche per contrapporre qualcosa al suo passato da indigente, che Alessandro Campo volle quelle carte; ma quanto gli era costato in denaro quell’alone da patrizio? La figlia maggiore se lo sarebbe chiesto tante volte.
«Non che papà nascondesse di essere stato povero, anzi lo diceva a tutti. Mia madre gridava: “Mettetevi a nu pizzitielliu e state cheti».
«Perché non dovevate muovervi?», gli chiedevano.
Lui sorrideva: «“Si currite alleggerite subito”, questo diceva mammà. Giocavamo», spiegava, «era naturale correre; naturale anche che ci venisse fame – diceva proprio fame, non appetito – e così ogni tanto andavamo alla madia per tagliare una fetta di pane e la forma diventava sempre più piccola. E non era nemmeno tutto», aggiungeva, «con Mussolini la scuola dell’obbligo c’era già. Non che ti venissero a prendere a casa se non frequentavi; mia sorella, che non aveva voglia di studiare, è andata solo fino alla terza elementare. Ma io no; a me piaceva. Avevo i libri dal patronato, ma non i quaderni. Quando le pagine finivano, scrivevo sulla copertina finché potevo. Sapevo che avrei dovuto piangere un giorno intero per farmene comperare un altro».

Nel “grande quadro” la “Casa di Armando” e la “ditta Gianpaolo” lampeggiano fra migliaia di configurazioni per comparare momenti differenti che riguardano le stesse persone. Si tratta di adesso assai distanti tra di loro.
Una finestra si apre nel remoto.
La seconda guerra mondiale è in pieno corso. Vige l’autarchia e la borsa nera, ma i giovani si ritagliano ugualmente qualche spazio per lo svago. Alessandro e Caterina sono in piscina. Lui non sa nuotare eppure si getta ugualmente dal trampolino perché ha bisogno di cimentarsi con se stesso ma, soprattutto, di emergere in qualche modo.
Di nuovo cono temporale intermedio.
La guerra è finita da un paio di decenni, Alessandro non è più un ragazzo e la“Gianpaolo& figli”, che si è rivelata una gallina dalle uova d’oro, ha cambiato la sua vita. Ricco abbastanza da concedersi case di proprietà, il padre di Carlotta acquista barche impegnative: cabinati a vela, da regata: oggetti costosi e difficili da condurre. Lui, che ha visto per la prima volta il mare a vent’anni, lui che non sapeva nuotare e ha rischiato di annegare nell’acqua di una piscina, avverte adesso un grande desiderio di mare; è un sentimento quest’ultimo che assomiglia alla nostalgia per un bene perduto o abbandonato contro la propria volontà.
Il quadro rimane nell’ intermedio. Alessandro, in compagnia di un amico e dei suoi figli, raggiunge per la prima volta la “Casa di Armando” una domenica di settembre. Quella, sembra una giornata qualunque, e invece…


Alla “Casa di Armando” Alessandro Campo avrebbe tenuto i suoi cavalli per nove mesi l’anno.
Sbeffeggiato, non senza una punta di orgoglio dalla moglie, il principe Sbrodoloff ― così aveva cominciato a chiamarlo Caterina da quando montava a cavallo ― partecipò a tutti i concorsi nazionali che la federazione per gli sport equestri organizzava. In un turnover tra acquisti e vendite, Campo sarebbe arrivato a possedere più di quattro cavalli da percorso a ostacoli, animali che trattava come figli, anzi con più indulgenza.
Nel piacere autentico che quello sport gli procurava c’era ― oltre all’amore per gli animali ― una buona dose di esibizionismo. Innegabile, infatti, era la vanità che muoveva il suo trotto di scuola e il suo elegante saluto alla giuria ― con quella punta malcelata di protagonismo ― che fece sorridere molti tra concorrenti e pubblico.
Eppure nascosto, invisibile, c’era ben altro.

Cari amici, continua il mio pensiero sulla famiglia e sui suoi cambiamenti e siccome, sono del parere che per scrivere come per dipingere l'artista deve avere un modello vi confesso che la mia nonna materna somigliava tanto a Carlotta a molinara.

Da "Tracce invisibili di univeri paralleli":

Carlotta a Molinara aveva cervello. Ingegno, parlantina e buonumore non erano meno importanti del maiale, delle galline e del campetto da coltivare a qualche chilometro dal paese. Alessandro descriveva bella sua madre: denti perfetti, occhi vivaci, collo lungo. Nella foto di nozze si notava soprattutto la statura; Carlotta era alta quanto il marito, che non era piccolo. Tanta avvenenza – ammesso che ci fosse, dicevano i maligni – fu la sua unica dote; ma non pensò mai di servirsene fuori dalla famiglia.
I suoi erano emigrati negli Stati Uniti, subito dopo le sue nozze, alla fine della Grande Guerra.
«I all’America non ci vogl’i», aveva detto decisa quando volevano portare anche lei oltreoceano; ma aveva diciassette anni, era minorenne.
Con Ludovico già si parlava, anzi lui l’aveva chiesta in sposa al fratello maggiore, perché la ragazza era orfana di padre.
Fu terribile lasciare la mamma; l’avrebbe rivista cinquant’anni
dopo, quando Alessandro le pagò il volo per gli Stati Uniti. La vecchia, aveva novantasei anni, volle farsi portare in aeroporto
a riceverla, ma quando la vide disse: «Ma commme? Quanno t’aggiu lassata eri accussì na bella guagliola!».
Fu nel ’30, quando la povertà sembrava una morsa stretta attorno ai suoi figli – ne aveva già persi due – che si decise: scrisse in America – anzi no, perché comunque scriveva sempre,non aveva mai perso i contatti – chiese aiuto.
Si rivolse al fratello maggiore, Enrico. Arrivarono pacchi di vestiario, oggetti, e anche dollari. E poi di nuovo pacchi e nuovamente denaro, più volte.
Nel frattempo Alessandro, aveva appena undici anni, venne ingaggiato con altri ragazzi per la raccolta delle olive. Cominciava
all’alba e tornava la sera fradicio.
I Campo, ben prima che iniziasse la seconda guerra mondiale,ce l’avevano fatta a crescere i figli; granaio e dispensa erano pieni, come il piccolo salvadanaio che Carlotta teneva sotto il materasso. Ma quando l’Italia si alleò con la Germania, anche Ludovico Campo, che non aveva ancora quarant’anni, fu richiamato alle armi. Sarebbe tornato a fine conflitto per iscriversi nuovamente nelle liste di disoccupazione, avrebbe nascosto con puntiglio il suo disagio, adoperandosi senza riserve.
«Avevamo la miseria sempre dietro la porta di casa», avrebbe raccontato suo figlio, «eppure sembravamo meno poveri di tanti altri».
Forse ad aiutarli fu la dote che li distingueva. La stessa che avrebbe tante volte fatto sentire solo e differente Alessandro, ma che l’avrebbe sempre messo in salvo.
Nel piccolo centro di Calvi, dove tutti prima o poi prendevano
un soprannome, i Campo erano chiamati “i furbacciegli”
proprio in ragione del loro cervello.
208
 

Enriquez

Member
Che cosa è cambiato? stavamo meglio quqndo stavamo peggio'

Cari amici,
alla luce di quanto sta accadendo oggi in Italia, alle proteste che partono dalle borgate di Roma, alle occupazioni clandestine, e alla lotta perenne e troppo poco ascoltata della gente ecco nascere la nostalgia. Stavamo meglio quando stavamo peggio? Dal mio romanzo “Tracce invisibili di universi paralleli”

1955-1956: Torino, il centro storico
Le fabbriche residenziali della Torino barocca sembravano diamanti incastonati dall’orafo in un gioiello. Era la grazia del loro intorno a esaltarle, circondate come erano da opere d’ar¬te.
Quando Carlotta si affacciò la prima volta sulla via Gari¬baldi lo vide: antico eppure nuovo, così bello da toglierle il respiro, Palazzo Madama, l’opera mirabile di Juvarra.
Via Dora Grossa, ribattezzata dopo il Risorgimento via Garibaldi, è una delle strade principali della Torino antica. In prossimità dei giardini reali e di piazza della Repubblica in¬crocia le sue trasversali ad angolo retto. Anche queste hanno cambiato nome; restaurate alla perfezione, oggi rappresen¬tano l’aspetto fricchettone della città vecchia, ma negli anni Cinquanta furono il recapito dei forestieri indigenti.
Gli italiani del Sud, infatti, richiamati dalla Fiat e dal suo indotto, facevano la coda agli uffici di collocamento e affol-lavano le case di via San Tommaso e via dei Mercanti; gli sta¬bili devastati dai bombardamenti di piazza San Giovanni e le soffitte di via Porta Palatina. Le donne sedevano sui ballatoi o davanti ai portoni a chiacchierare, i figli piccoli in grem¬bo. Stavano ore sull’uscio come al loro paese, dove il clima era mite e l’inverno una comparsa. Gli uomini arrivavano la sera affamati e comperavano copiose quantità di pane, giusto quello che un torinese avrebbe consumato in una settimana. I bambini più grandicelli contribuivano a mettere insieme il pranzo con la cena e si vedevano vendere limoni ai crocicchi. Un compagno di Ludovico glieli mostrava in classe, sul fondo della cartella.
Furono gli anni dell’edilizia selvaggia, della nascita delle periferie dormitorio; ma la città – che a fine del millennio avrebbe accolto orde di extracomunitari – rifiutava i conna¬zionali e sbeffeggiandoli li chiamava Napuli. Eppure quelli che venivano dal napoletano erano una minoranza: gli altri erano siciliani, calabresi, pugliesi. Sarebbero stati loro a trasformare la città sabauda, cambiandone non solo la faccia ma l’anima.
Il centro storico, in quegli anni, traboccava di persone, ma

Il centro storico, in quegli anni, traboccava di persone, ma 188
non tutti erano emigrati. In municipio, in pretura, al grande mercato di Porta Palazzo c’era folla sin dal mattino. La gente percorreva i marciapiedi, imboccava i portici, sbucava dagli anfratti ombrosi o scompariva nei vicoli. Notabili e uscieri, gendarmi, ragazze del popolo, educande, piazzisti e bottegai, mezze maniche e operai si mescolavano tra loro come voci nel coro.
La violenza metropolitana era un fenomeno irrilevante. Un parametro ordinatore, una sorta di protocollo convenzionale la preveniva, neutralizzandola sul nascere. Scippi, furti con scasso e altri reati da strada erano espulsi naturalmente dalla maglia stretta della vita quotidiana.
 

Enriquez

Member
Eccomi di nuovo a voi per guardare cosa eravamo e soprattutto: chi erano i nostri insegnanti
Tracce invisibili di universi paralleli
Dal 1939 Maestra Alessi

Alla scuola di Corso Grosseto non c’era insegnante di ruolo che non la conoscesse poiché, maestra Alessi, nel borgo, era più importante del farmacista o della levatrice, un’istituzione, insomma. Giorgina non era mai stata titolare di una cattedra; per la verità, non l’aveva mai, nemmeno cercata, eppure ne aveva tirati su di somari recalcitranti, tanto che avrebbe meritato una medaglia al valore e l’encomio solenne dal ministro della pubblica istruzione, in persona.
A diciassette anni, appena diplomata, aveva cominciato a tirarsi in casa i figli degli operai del borgo; da lei c’erano sempre i più discoli e i ripetenti, in pratica i ragazzi abbandonati a se stessi, quelli che sicuramente non frequentavano l’oratorio e che diversamente avrebbero passato i pomeriggi a schiamazzare e fare danni nei cortili. Si trattava per lo più di bambinelli perchè, gli anziani, al massimo facevano la quinta elementare o la ripetevano. Casa Alessi, un grande appartamento affacciato su via Bibiana, soprattutto dopo la morte del padre di Giorgina, aveva preso l’aspetto di una scuola. Il connubio tra la nobiltà dell’arredo e la modestia dell’utenza: i figli degli emigrati, dei manovali pagati a giornata, dei piazzisti o tutt’al più, dei piccoli bottegai, la rendeva del tutto particolare, con buona pace dello stemma del casato di famiglia che, continuava a fare bella mostra di se, sull’uscio, in anticamera.
In particolare era la sala, due grandi stanze messe insieme per l’abbattimento del divisorio, ad aver preso l’aspetto di un’aula scolastica. Lì, le poltroncine e le stampe d’epoca si dividevano lo spazio con grandi tavole attrezzate come scrittoi e alle quali erano accostati semplici sgabelli. A un estremo della sala, le capeggiava una vecchia scrivania che, funzionava da cattedra. Giorgina era la figlia unigenita di un titolato, il suo cognome da signorina, infatti, faceva: Amico di Meane. Dopo il magistero la ragazza aveva frequentato l’università conseguendo una laurea in matematica e fisica.
La sua famiglia aveva salvato, dal disastro finanziario sopraggiunto alla caduta della monarchia, un casato rustico nel canavese, nel quale Giorgina trascorreva un mese d’estate con la madre vedova, che contava di passare lì, gli ultimi anni della sua vita. Mario Alessi, il marito della maestra, le raggiungeva per il fine settimana e, qualche giorno, a ferragosto.
Gli Amico di Meane ridotti a raschiare il barile come tante altri nobili dopo la prima repubblica, si misero in lista d’attesa per avere alloggio a fitto agevolato e ne ottennero uno, niente male, nel grande comprensorio di case popolari fatto costruire dal duce intorno al 40, tra il santuario di Madonna di Campagna e la chiesa della salute.
In vista delle nozze di Giorgina con Mario Alessi si liberò un’unità attigua a quella già abitata dalla fidanzata e dalla madre di lei, ormai vedova. Alessi ne parlò con le due donne e, in accordo con loro, si attivò per ottenere il permesso atto ad unire i due appartamenti.
“Chi sposa me, sposa anche mia madre”, gli aveva detto, decisa, la ragazza e lui le stava dando retta. Mario era stato a suo tempo il più accanito dei pretendenti di Giorgina. Non che la cosa si fosse risolta in fretta anzi, il fatidico si dall’amata, ci aveva impiegato una decina d’anni ad arrivare. Così, quando lei, finalmente, acconsentì a sposarlo, aveva passato la trentina da un pezzo e possedeva ben precisi connotati di carattere e tanto di professionalità. Mario che, dal canto suo, andava per i cinquanta, s’adeguò in tutto e per tutto.
“Se l’avessi sposato prima, avrei molti altri anni da aggiungere al mio ottimo matrimonio”. Diceva la maestra in confidenza agli intimi e, nel suo tono, la soddisfazione per la riuscita superava di gran lunga il rimpianto per avere atteso tanto. Non che suo marito fosse privo di personalità tutt’altro ma, aveva una alta stima del bel sesso, più unica che rara all’epoca, e la preziosa tranquillità dei saggi. A rendere Giorgina appagata dunque, non era soltanto il lavoro di insegnante al quale si dedicava con passione mistica ma, quel marito cordiale, disponibile, che la lasciava fare.
Per altro, Mario Alessi, era intelligente e colto. Nessuno dei piccoli allievi di Giorgina sapeva esattamente di cosa si occupasse il marito della maestra ma , erano tutti certi, che si trattasse di un impiego fisso poiché, la sera, tornava dal lavoro sempre alla medesima ora. Mario si scappellava di fronte alla vecchia suocera e con la medesima premura cercava la guancia della moglie che, per quanto occupata, non mancava mai di correre ad accoglierlo. Naturalmente, ciascuno dei presenti lo salutava rispettosamente e lui rispondeva cordiale ma, riservato.
Nel ’54, anno in cui la piccola Campo andò, per la prima volta, a sedersi tra i banchi della Alessi , quel doposcuola c’era da un pezzo. Giorgina infatti, al tempo poteva avere una quarantina d’anni, dava lezioni da oltre venti. Intimorita da quelle stanze tappezzate in stoffa, la bambina avrebbe scoperto presto che, molto prima che lei venisse al mondo, tante altre persone avevano tremato sedute su quegli stessi sgabelli. Alcune, Carlotta le conosceva; tra queste, c’era il marito di zia Rebecca, la sorella di suo padre.
L’onorario che la maestra percepiva, naturalmente, era assai modesto, soprattutto se confrontato alla fatica dell’incarico. Senza contare che, lei non l’avrebbe mai ammesso, sicuramente, quel compenso era pari a zero, per più di un ragazzino.
Nonostante le scarse entrate e l’economia autarchica, nemmeno un foglio di carta veniva buttato, la famiglia continuava a vivere secondo un protocollo nobiliare. Così, i pasti si consumavano con le posate d’argento appartenute alla bisnonna e la tavola veniva apparecchiata con tovagliati fini di fiandra. Le ricorrenze erano puntualmente festeggiate. Naturalmente, nessuno si stupiva se al compimento degli anni riceveva in dono una scatoletta di mentine e una penna a sfera, ma il dono veniva incartato accuratamente con la miglior carta riciclata e consegnato secondo dettami da maestro di cerimonie. Carlotta avrebbe passato con la Alessi, tutti i pomeriggi dell’anno scolastico di seconda e terza elementare sino al giorno del suo trasferimento, con la famiglia, in piazza quattro Marzo.
Anche lei, in fin dei conti, era una bambina sola anche se, ora non era più povera anzi, era stato proprio quel benessere economico, giunto all’improvviso che, si era portato appresso la solitudine. In effetti, con l’affidamento dei suoi due fratelli ciascuno a una nonna, Carlotta, se non fosse andata al dopo scuola della Alessi, sarebbe stata per tutto il giorno a parlare coi muri di casa e nessuno le avrebbe corretto i compiti. La mamma passava a prenderla ciascun giorno che, era già buio.
Giorgina Alessi si era molto affezionata alla piccola Campo e la invitava spesso a pranzo. Le mattine che non c’era scuola la teneva con se; Carlotta arrivava da lei di buon ora e, qualche volta, la precedevano le sue stesse grida, perchè la sua famiglia abitava a duecento metri di distanza dagli Alessi, in linea d’aria. Ebbene, sua madre gliele ficcava tanto da farla urlare come se la spellasse poiché, al mattino, era innervosita da mille faccende, che dovevano essere concluse prima che lei prendesse il tram per andare al lavoro. La bambina non diceva nulla pur comprendendo che la maestra sapeva tutto. Furono serene mattinate da ricordare quelle. Carlotta si soffermava spesso a guardare incantata Maestra Alessi prendersi la treccia e fissarla a corona sul capo con le forcine, oppure mentre si rifaceva il letto:
“Guarda”, diceva alla bambina, “ E’ liscio come una tavola, è una bella soddisfazione, non credi?”
Spesso Giorgina la portava con se in centro per la spesa grande. Facevano la coda insieme, in certe bottegucce della via Barbareux: “La migliore marmellata si chiama confettura” diceva la signora, “subisce un trattamento speciale, sai?”.
Giorgina non era certo bella. Le sue guance precocemente flosce la facevano assomigliare a certi cani bouldozer. Snella e piuttosto alta, tutto subito appariva piatta come una tavola ma, se lo sguardo seguiva il percorso del busto in direzione della vita incontrava due piccolissime protuberanze. Eppure, nessuno avrebbe potuto mettere in discussione il suo fascino che, a dispetto della modestia del sembiante, la rendeva attraente e perfino sexi. Inoltre, la signora possedeva modi da nobildonna e il suo cuore, pari all’ intelletto, era grandioso. Ciononostante era eccentrica e, come dicevano allora: malata di nervi e la vecchia gli stava appresso. Quando sentiva la figlia dare in escandescenze, la madre cominciava ad insultare la causa vivente del disappunto della maestra. Oltre alla fissazione delle tabelline e dei verbi irregolari, Giorgina aveva quella dell’educazione e nessuno dei suoi piccoli ospiti poteva permettersi un comportamento scorretto.
Carlotta, nel breve tratto che faceva ciascun giorno per arrivare da lei, si comportava come alla via crucis del venerdì santo anzi, era come se recitasse il rosario con tanto di misteri gloriosi.
“Primo dovere”, ripeteva, “Presentarsi al portone con qualche minuto di anticipo ma badando bene che l’anticipo non superi i cento ottanta secondi .
“Secondo dovere”, continuava, “Pulire le scarpe al piano terra sull’apposito tappetino di metallo”.
“Terzo dovere: “Pulire di nuovo le scarpe sullo zerbino davanti all’uscio.”
Quarto e ultimo dovere, terminava Carlotta, “ Suonare il campanello in modo che si senta ma, non troppo forte.
Nella prima estate o anche dopo durante le vacanze, all’epoca si rimandava persino alle elementari, Alessi faceva ripetizioni tutto il giorno . Allora capitava di vederla colpire le mosche violentemente con la apposita mazzetta: “Muori disgraziata!” Urlava di rimando. Antonella, anche lei sarebbe passata sotto le sue grinfie e, così, Ludovico, aveva imparato a rifargli il verso e, a casa, quando si esibiva nell’imitazione di: Maestra Alessi che ammazza le mosche ridevano tutti.
Per concludere ciascuno dei frequentanti aveva nel suo bagaglio più di un’esperienza drammatica con urla e strepiti insomma, scenate. Inoltre, nessuno sapeva bene perché ma, Giorgina aveva inserito il metodo del rifiuto nel suo sistema didattico. La prova del pavimento era il primo metodo. Fu così che Carlotta imparò a coniugare correttamente i verbi irregolari, scrivendoli e riscrivendoli. Dunque quando la bambina li portava titubante alla cattedra per la supervisione,se era giusto ciò che aveva scritto, veniva vistato con una lode. Se sbagliato invece, con un rapido gesto del braccio, Giorgina faceva cadere con violenza il quaderno sul pavimento e la reproba o il reprobo, nel caso specifico Carlotta, lo riprendeva da terra e tornava a compitare al suo posto. La storia si ripeteva sinchè le coniugazioni erano corrette.
Il secondo metodo del rifiuto imponeva lo strappo. All’epoca si scriveva ancora con penna e calamaio, solo qualche fortunato possedeva la stilografica e le penne a sfera erano veramente poche. Morale, scrivere una intera pagina di quaderno rappresentava un esercizio abbastanza faticoso. Eppure, se Giorgina scopriva un errore di sintassi o di grammatica, a volte anche solo uno sbaffo d’inchiostro, non voleva saperne di cancellare, strappava la pagina o le pagine e si ricominciava tutto da capo. Non c’erano santi, potevano essere le nove di sera.
L’ultimo metodo del rifiuto imponeva la cacciata. Gli scolari che sbagliavano troppe volte perché, secondo la Alessi, non si applicavano a sufficienza, venivano cacciati per ammenda. Così bambinelli di sette, otto anni , girellavano soli per il borgo in cerca di un pallone o di un amico con le figurine da scambiare, senza saper bene dove andare; a casa, ammesso che avessero le chiavi, non avrebbero trovato nessuno; fortuna che c’erano poche auto e che la pedofilia, purtroppo già c’era, ancora non terrorizzava le famiglie. Un giorno che la vecchia, così i ragazzini chiamavano la madre della maestra, svuotava i baccelli in cucina, anche quella stanza era sempre occupata da scolari muti impegnati a fare i compiti, un pisello cadde sul pavimento e inavvertitamente Carlotta lo pestò; apriti cielo!
 

Enriquez

Member
Cari amici, ho pensato di condurvi con me in un percorso che va dal prologo alla prima scatola cinese del mio romanzo. Ascoltate dunque:

Paolo Cardinale, l’ erede di una nota fortuna armatoriale, è desaparecido. Uno sconosciuto, Marek Kreen, scrive da Londra a Carlotta Campo, dichiarandosi figlio di Paolo. Carlotta gli risponde allegando alla lettera il racconto del suo amore con Paolo. Ed ecco che l’ombra di questo sentimento migra da un universo all’altro, attraverso la scrittura. E’ la traccia che crea il primo legame tra lei, signora matura, e il giovane sconosciuto; ma tutto questo introduce il primo dubbio: chi è Mareck Kreen?

Dalle pagine di “Tracce invisibili di universi paralleli”

Londra, 20 ottobre 1993
Marek Kreen
25, New Street Square
London EC4A3 JA
Spett.le Carlotta Campo
via Luisa del Carretto, 9
10123 Torino
Gentile Signora Campo,
ho ricevuto il suo scritto unitamente a una lettera del Signor Enrico Cardinale in cui mi attesta la Sua amicizia con mio padre, pregandomi di risponderLe.
Innanzitutto devo farle i complimenti per il suo stile letterario, che mi ricorda alcuni libri letti da adolescente. Inoltre il suo contenuto apre qual¬che spiraglio sulla vita di mio padre, che conosco poco: lui mi manteneva qui a Londra, ora non più, e io dovevo semplicemente tenere in ordine le sue carte e i suoi documenti di banche, case, eccetera.
Purtroppo ho scoperto ultimamente che non aveva confidato a nessuno la mia esistenza, per cui sto cercando di arrangiarmi come posso.
Conto nei prossimi giorni di tradurre in inglese il suo racconto, perché penso risulti molto bello anche in questa lingua, e di spedirle una copia della traduzione.
Se lo desidera posso informarmi se esiste qui qualche rivista che possa pubblicarglielo.
Le chiederei inoltre se è un racconto singolo o se fa parte di una raccolta più ampia, perché in tal caso mi piacerebbe leggere anche gli altri; mi piacerebbe sapere se lei ha scritto dei libri.
RingraziandoLa del Suo interessamento
La saluto cordialmente.
Marek Kreen
(…)
«Ho ricevuto la lettera che aspettavo da Londra».
Francesca si fece seria, poi le passò un lampo negli occhi: «Mio Dio! Paolo ti ha scritto, finalmente».
«No, non lui».
«Come non lui. E chi, allora?».
«Suo figlio».
«Perché, ha un figlio? E lo sapevi tu? Lo sapevi e non me lo hai mai detto!».
«No che non lo sapevo. Non sapevo niente di lui, neanche adesso so niente. Neppure come ha fatto ad arrivare a suo figlio la mia lettera».
«Oh Dio che casino! E allora?».
«È del tutto inutile che mi metta a fare cinquanta elucubra¬zioni, non arriverei a capo di niente».
«Posso leggerla la lettera?».
«Certo che sì, aspetta, te la vado a prendere».


24 ottobre 1993: Torino, via Luisa del Carretto, prima lette¬ra di Carlotta
Sola nella sua camera, Carlotta cercava di raccogliere le idee, ma non era facile. Davanti a lei, sullo scrittoio, la lettera di Marek.
“Marek, il figlio di Paolo? Da dove sbuca?” si chiedeva.
E come mai le aveva scritto lui e non Paolo? Da quanto si erano detti con Enrico, quel giorno al Museo dell’automobile, Paolo, se avesse voluto essere rintracciato, e solo se avesse voluto, si sarebbe fatto vivo con lei, probabilmente per lettera.
E invece a scriverle era suo figlio.
Carlotta non aveva mai saputo che Paolo avesse un figlio.
Lesse di nuovo. “Nessun ragazzo scrive così oggi” – perché la chiave era romantica? Antiquata? Comunque fuori dal tem¬po – “tantomeno uno straniero”. C’era una certa proprietà di linguaggio. Forse aveva studiato l’italiano, forse l’aveva im¬parato dal padre, forse questo Marek era originale. In effetti, ammesso che veramente fosse il figlio di Paolo, la cosa era semplice: somigliava al padre che certamente era originale.
C’era un’altra domanda che urgeva una risposta: quanti anni aveva Marek? Dato per veritiero il contenuto del messaggio, chi l’aveva emesso era giovane ma non certamente un bambi¬no. Anche il suo modo d’esprimersi lo confermava. Insomma, doveva avere perlomeno diciott’anni.
Carlotta fece due conti.
Nel ’74 a Courmayeur Paolo era un ragazzo; non aveva an¬cora vent’anni. Sul sesso sapeva tutto in teoria, ma poco in pratica. Possibile che avesse già ingravidato una ragazza?
Oppure era successo tutto un paio di anni dopo? E chi era la ragazza? La madre di Marek doveva essere inglese o perlo¬meno straniera, a giudicare dal nome del giovane. Lo scono¬
sciuto si firmava Kreen, non Cardinale. Dunque Paolo non l’aveva mai riconosciuto come figlio.
Forse Paolo non sapeva di essere diventato padre. Forse era una scoperta recente, mai trasmessa ad anima viva. Era anche possibile, anzi probabile, che questo Marek in realtà non fosse affatto il figlio di Paolo. La madre che avanza pretese, mentre il presunto figliolo le tiene il gioco: un classico, a pensarci bene. Oppure era in buona fede, perché sua madre anche con lui recitava la commedia.
Carlotta aprì la finestra quasi a cercare una risposta fuori. Una qualsiasi, ma in grado di convincerla, di metterla tran¬quilla. Rabbrividì e richiuse subito. Faceva freddo.
Ripensò alla lettera che aveva messo tra le mani di Enrico, il fratello di Paolo. “Ma che lettera!” si disse.
In verità era una specie di racconto. Nessuna intestazione, non era nemmeno firmata. Solo Paolo avrebbe potuto affer¬rarne il messaggio e comprendere chi la inviava. Si trattava di un dialogo tra lei e qualcun altro. L’altro poteva essere chiunque, anche non esistere affatto. L’importante era la sua funzione, il contrappunto; infatti il racconto si dipanava tra lei, Carlotta Campo, e questo qualcuno. Tra affermazioni e dinieghi, pro e contro, la donna raccontava la sua storia con Paolo, una strana storia. Il dialogo aveva una doppia funzio¬ne: descrivere quell’amore e farne un bilancio. Nel ritmo del colloquio Carlotta raccoglieva i suoi dubbi in domande dirette soprattutto a se stessa. Il racconto assumeva anche la forma d’una confessione: schietta, immediata, senza orpelli. Tra le righe traspariva la dolcezza e la poesia che ciascun amore por¬ta con sé, ma anche la sofferenza e la rabbia della scrivente riscattata dall’accettazione dell’ineluttabile.
Che c’entrava Marek? Forse aveva trovato fogli e busta tra le cose di Paolo; aveva letto e gli era venuto lo sghiribizzo di risponderle, perché la busta era intestata. La sua era soltanto una bravata, uno scherzo. Ma allora Paolo, suo padre, non gli era così lontano e sconosciuto come asseriva. Mentiva alla grande questo Marek, oppure era stato Paolo a...
Basta. Era tutto inutile. Nulla era certo, al momento almeno.
Non le rimaneva che un’opzione. Doveva scegliere: rispon¬de
dere o non rispondere, prendere o lasciare? E neppure que¬sto era facile. Perché rispondere? A chi? A un ragazzino in vena d’avventure? La signora Campo sorrise. Se avesse avuto vent’anni sarebbe stato divertente, ne sarebbe venuto fuori un romanzo perché certamente questo ragazzo era un creativo, ma lei non aveva vent’anni e si chiedeva che rapporto epi¬stolare potesse esistere tra lei e qualcuno che non conosceva affatto e che poteva tranquillamente essere suo figlio. “No. Niente giochi, per piacere”.
Eppure...
Quel foglio battuto a macchina, quella firma illeggibile era¬no l’ultima traccia di Paolo, la più recente. Se l’avesse lasciata andare lo avrebbe perso per sempre, ne era sicura. No, pro¬prio non se la sentiva di dare un taglio netto a tutta la faccen¬da; perlomeno, non ancora.
Carlotta fece un lungo sospiro, poi scoppiò a ridere. Rideva di sé e della situazione in cui si stava cacciando. Aprì il casset¬to e prese la carta da lettera: «E va bene, caro “giovane Wer¬ther 2000”, ti rispondo e con il tuo stesso tono!».
Si guardò intorno. Il destino o il caso, per lei erano tutt’uno, stava mescolando le carte in modo curioso. Avrebbe risposto a una lettera romantica da una città romantica, Torino, dove gli umori ottocenteschi non se n’erano ancora andati e la gen¬te camminava sulle vestigia del Risorgimento, ma in un tempo sbagliato, perché quel fine millennio era violento e lasciava poco spazio al romanticismo.
“Non importa” pensò, “a contare sono solo i miei pensieri”.
Una stanza con il letto a barca e le tende bianche ricamate a mano. Carlotta sedeva a uno scrittoio dove anche Alfieri avrebbe potuto scrivere. La lettera naturalmente la stendeva a mano, come nell’Ottocento; solo la lettera perché, come avrebbe accennato nella risposta al giovane sconosciuto, ave¬va una mezza idea di mandare qualcos’altro a questo Marek.
 
Alto