Roth, Joseph - Hotel Savoy

ayuthaya

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"In tutte le città del mondo ci sono dei Savoy, più piccoli o più grandi, dove agli ultimi piani stanno i Sancin a soffocare nel fumo della biancheria altrui".

Uomini e donne di carattere, estrazione, destini differenti condividono la permanenza nel “più europeo di tutti gli alberghi dell'Est”: l'Hotel Savoy. La prima guerra mondiale è appena conclusa , ondate di reduci provenienti dalla Russia e dalla Siberia sommergono una città di confine di cui non conosciamo il nome: è la loro miseria − un misto di nostalgia per la patria perduta e di smarrimento per un mondo ritrovato ma estraneo, a tratti ostile − a fare da sfondo a questo breve romanzo di Roth, che io ho letto (insieme a La tela di ragno e Il peso falso) in una raccolta intitolata appunto Romanzi brevi (di cui fa parte anche La ribellione), ma che preferisco recensire singolarmente.

Il vero protagonista di questa storia, come suggerisce lo stesso titolo, è l'Hotel Savoy medesimo: gli ambienti, il personale di servizio che sembra un tutt'uno con lo spirito del luogo, le relazioni fra i suoi abitanti. Dobbiamo pensare che all'epoca un albergo non era, come adesso, solo un alloggio provvisorio per turisti o uomini d'affari più o meno benestanti, bensì una sistemazione prolungata e spesso definitiva, in particolar modo per la gente più povera, che non si poteva permettere una casa in proprietà e che magari era costretta a dare in pegno le proprie valigie in attesa di poter pagare il conto. É per questa ragione che fra gli inquilini nascono amicizie, rapporti professionali, relazioni di vario genere... ci si affeziona, si condivide parte della propria intimità, magari anche in occasioni dolorose come la malattia o la morte.

E ci si mescola, persino: ceti sociali differenti entrano in contatto fra loro. Con una trovata che mi ha ricordato (al rovescio) Sette piani di Buzzati, ogni piano dell'albergo (e sono sette!) corrisponde uno “stato sociale”, per cui i primi piani sono ampi, lussuosi, areati, mentre man mano che si sale lo spazio si fa sempre più angusto (e, dice Roth per bocca di Gabriel Dan − narratore in prima persona della storia− la mancanza di spazio è contrassegno della povertà e genera cattiveria), la luce più fioca, l'aria più opprimente.
Era come il mondo quell’Hotel Savoy, di fuori tutto luce e splendore, tutto magnificenza nei suoi sette piani, ma dentro la povertà abitava vicino a Dio, chi era più in alto abitava in basso, sepolto in tombe ariose, e le tombe erano disposte a strati sopra le comode camere dei sazi, i quali stavano sotto in tutta tranquillità e benessere, e non sentivano il peso dei feretri leggeri. (...) I piani sono soltanto sette? Non otto, non dieci, non venti? Quanto più in alto si può ancora cadere? Fino al cielo, nella beatitudine finale?

Gabriel Dan vorrebbe andar via, si ripromette ogni volta di farlo e ogni volta rimanda: a trattenerlo l'attrazione per Stasia, il mistero che avvolge Kaleguropolos, il direttore dell'albergo, la curiosità di conoscere il tanto atteso Bloomfield, da cui sembrano dipendere le sorti dell'intera città... a trattanerlo in fondo l’Hotel Savoy stesso, regno delle possibilità – “all’H.S. si poteva arrivare con una sola camicia e lasciarlo possedendo venti valigie” – ma anche invisibile prigione – “tutti coloro che vi abitavano erano nelle mani del Savoy. Al Savoy nessuno fuggiva”. (Ok, non resisto alla tentazione: questo passaggio mi ha ricordato una delle mie canzoni preferite in assoluto: Hotel California... chissà che lo spunto...?)
Tutto questo avviene in un contesto ben determinato (la frontiera, tappa obbligata di una folla di reduci disperati) e in un momento cruciale della storia, contraddistinto da scioperi e rivolte che non lasceranno indenne neppure il famigerato Hotel Savoy, simbolo di tante contraddizioni.

A tessere troppe lodi di questo romanzo probabilmente otterrei l'effetto contrario, per cui – semplicemente – lo consiglio. A chi ama già Roth, soprattutto: non resterà deluso.
 
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