I Roccetti
La prima volta che entrarono nel negozio dei miei era un caldo pomeriggio di maggio, luminoso e splendente come lo sanno essere i pomeriggi di primavera appena ventosi. Nel chiarore primaverile che illuminava tutto il negozio dalle ampie vetrine, sembrò entrare un senso di grigiore e polverosità, come se lì dove si erano materializzati avessero spento la luce, o almeno l’avessero coperta con uno straccio per spolverare.
Mia mamma alzò la testa dal suo sferruzzare dietro il banco e rivolgendosi alla donna con il suo solito tono gentile le disse: “Desidera?”.
I miei avevano da generazioni un negozio di filati e biancheria nel centro del paese e conoscevano quasi tutti, ma ultimamente il paese si stava ingrandendo e non era più come una volta in cui le famiglie si conoscevano fino agli avi più remoti.
Fu così che i coniugi Roccetti entrarono nella vita della mia famiglia: Clelia e Massimo, entrambi oltre la settantina, grigi grigi come sanno esserlo gli anziani che sembrano trascinare i loro giorni in attesa di morire.
Lei sempre vestita con gonne a quadretti e maglie di lana marroni, un foulard rosso mattone e una borsettina nera fra le mani; lui con tristi vestiti coordinati, giacca e pantaloni, spiegazzati, colorati di autunno, ruggine, beige, verde smorto.
Erano gentilissimi e educatissimi, sommessi nei modi; quella prima volta la signora Roccetti comprò qualche gomitolo a scampolo, “per fare una copertina”, come disse.
Qualche giorno dopo tornarono per comprare del cotone, “per fare un centrino”.
E piano piano iniziarono a fermarsi anche senza aver niente di particolare da prendere, anche solo per fare un saluto. Lui chiacchierava con mio padre di tutto, di calcio, dei prezzi che erano sempre più alti, dei trasporti pubblici che non funzionavano. Di politica se la intendeva più con mia madre, entrambi convinti sostenitori della destra, segretamente innamorati dei tempi di Mussolini, mia madre solo per sentito dire, perché era nata sul finire della guerra, il signor Roccetti per intima convinzione che nemmeno le nefandezze del fascismo avevano potuto sopire.
La signora Roccetti invece affrontava i soliti argomenti da donna, il ricamo, le ricette, la maglia ai ferri, i malanni di stagione.
I miei erano abituati a simili frequentatori, essere negozianti del loro genere, il genere “da più generazioni, a conduzione familiare” li rendeva una sorta di rifugio per le persone come i Roccetti, abitudinarie, molto sole, che nella loro solita giratina quotidiana facevano volentieri una sosta per interrompere la solitudine e scambiare qualche chiacchiera.
Io li incontravo spesso, quando andavo a recuperare Ilaria, mia figlia maggiore che passava il pomeriggio nel negozio dei nonni. Erano diventati anche per me degli habituè, la Roccetti sempre con una parola gentile per le mie figlie, un complimento, una moina.
Iniziarono gli scambi di doni. Iniziò la signora Roccetti, portando a mia madre improbabili barattoli di marmellate fatte da lei, o di pomodori sottolio preparati dal marito secondo una ricetta tramandata nella sua famiglia. Oppure dolcetti stracarichi di frutta secca, canditi e miele per le mie bimbe.
Tutte cose che finivano immancabilmente nella pattumiera, per la nostra innata sospettosità per le cose cucinate da “estranei”.
I miei ricambiavano con cestini di frutta, presine per le pentole, canovacci di lino.
Fu la zia di mio marito che iniziò a gettare un’ombra lunga e inquietante su questa conoscenza.
Quando nel corso di normali conversazioni in famiglia venne a sapere che i Roccetti avevano iniziato a frequentare la mia famiglia, ci raccontò la loro storia. Si erano trasferiti nel nostro paese una quindicina di anni prima, con una figlia di diciotto anni. Erano benestanti, nessuno di loro due lavorava, vivevano delle rendite dei loro innumerevoli possedimenti, case, terreni, capannoni. Si mormorava che una seconda figlia fosse scappata di casa poco prima, ma nessuno era riuscito a sapere se questa fosse solo una diceria.
Fatto sta che dopo un paio di anni da quando si erano trasferiti, la figlia rimasta in casa, ormai ventenne, si era uccisa impiccandosi nella sua stanza. La cosa era rimasta quasi segreta, non se ne era trovata traccia sui giornali, e loro erano così riservati che nessuno aveva potuto sapere niente di più.
Tutto ciò oltre ad essere lugubre e misterioso, ci lasciò addosso una grande inquietudine.
Uno dei soliti pomeriggi in cui andai a riprendere mia figlia dai nonni, mia mamma mi diede un pacchettino: “Te lo manda la Roccetti, è per Anna”. Anna era la mia figlia minore, che al tempo aveva un paio di anni.
Il pacchettino era fatto con carta spiegazzata, mi immaginavo la Roccetti che aveva recuperato da qualche regalo passato quella carta, che l’aveva custodita in un cassetto per anni e ritirata fuori per quell’occasione. Conteneva qualcosa di soffice. Io e mia mamma ci guardammo e senza nemmeno ci fosse bisogno di dire niente, aprimmo con apprensione il pacchetto.
Conteneva una bambolina fatta all’uncinetto con tanti avanzi di lana, di tanti colori squillanti, giallo, rosso, blu elettrico, con la bocca dritta fatta con un filo rosa fucsia e due bottoni neri come occhi, capelli di lana arancione. Era orribile e spaventosa, gli occhi bottonati sembravano mandare strani bagliori, la bocca sembrava avere una smorfia amara.
“Buttiamola” sussurrò mia mamma.
Ma la cosa mi sembrò così ridicola, la nostra paura, il nostro stare quasi nascoste dietro il banco per non farsi vedere da nessuno, che sorrisi e le dissi: “ma no figurati, la faccio vedere ad Aldo, chissà come ride”. Aldo, mio marito, la sera disse che era proprio un orrore; come la facemmo vedere ad Anna, lei cercò subito di strapparle gli occhi con le manine, la lasciammo in un angolo fra le centinaia di carabattole della sua stanza, senza dar più peso alla faccenda. Ma la notte una febbre altissima iniziò a tormentare Anna. Non riuscivamo a fargliela scendere con niente. Il giorno dopo la portammo all’ospedale, ma non le trovarono niente di che, prescrissero il solito antibiotico generico.
Dopo tre giorni di febbre altissima, mentre mi aggiravo in preda al panico per la casa, senza sapere a che santo votarmi e se non fosse il caso di tornare in ospedale, mi capitò in mano la bambola. Terrorizzata, quasi impazzita dalla paura, accesi il camino e la bruciai.
Così mi ritrovò mio marito quella sera, seduta in poltrona, una strana poltiglia nera fumigante nel camino, lo sguardo perso nel vuoto. Fra le mie braccia Anna dormiva tranquilla senza più una traccia di febbre.
“Hai acceso il camino? Di luglio? Ma che è successo?”.
Quando gli raccontai tutto, mi guardò perplesso e mi disse che non ero normale, ma che andavo a pensare, fole di anziani, “ma guarda te se ancora nel Duemila la gente doveva credere a certe cose”.
Sapevo che aveva ragione, figuriamoci, una bambola stregata, e se sì, perché? Perché volerci far del male?
Ma la paura non mi lasciava, giorno dopo giorno cresceva in me. Non avevo raccontato niente a mia mamma, per non farla preoccupare, ma con una scusa non mandai più Ilaria il pomeriggio al negozio per paura che incontrasse i Roccetti.
Ma aveva ragione Aldo, ero una persona adulta e razionale. Dovevo affrontare la cosa con razionalità e così decisi di farlo, e un pomeriggio, sul finire di quel luglio caldissimo, con una scatola di biscotti in mano, suonai al campanello Roccetti. Il portone si aprì all’istante, e iniziai a salire le scale di un normalissimo condominio, chiedendomi a che piano fosse il loro appartamento.
Il naso adunco della Roccetti faceva capolino da una porta socchiusa al secondo piano. Quando mi vide, spalancò la porta e chiamò il marito con una voce festosa e squillante che non le avevo mai sentito.
“Massimo, guarda, c’è Giovanna la figlia di Silvano e Gisella. Che piacere, che piacere. Venga venga, si accomodi… che piacere”.
Il marito apparve sulla porta e entrambi mi presero per le braccia e cominciarono a tirarmi dentro.
Mi ero preparata tutto il discorso: buonasera, sono venuta per ringraziarvi, permettetemi di darvi questo pensierino, siete stati sempre gentili con le mie bambine.
Ma sembravano un fiume in piena, non riuscivo a spiccicare parola, mi ritrovai seduta su un divano di broccato verde, in una stanza anonima, con le tende tirate come mi ero sempre immaginata potesse essere casa loro, con in mano un caffè.
La signora Roccetti parlava parlava, del tempo, del fatto che non si era sentita tanto bene ultimamente, troppo caldo. In effetti la stanza era soffocante, sembrava che non vi entrasse aria da secoli, c’era odore di disinfettante e di aria chiusa.
Il signor Roccetti invece mi mostrava dei volumi poderosi che estraeva dalla sua libreria e mi illustrava cosa erano, come li aveva avuti.
“Ma la prego, la prego” fece ad un certo punto la signora Roccetti alzandosi dalla poltrona nella quale fino a quel momento era stata come appena appoggiata, seduta in punta, come se dovesse alzarsi da un momento all’altro.
“La prego, ci permetta di mostrarle la stanza che per noi è la più bella della casa”
Il Roccetti mi tolse la tazzina di mano, mi aiutò ad alzarmi dal divano, a dir la verità, quasi mi strattonò per farmi alzare, entrambi cominciarono a spingermi lungo un corridoio. In fondo c’era una porta chiusa, mentre ci avvicinavamo sentivo che mi si chiudeva la gola, tentavo di resistere, ma il corridoio era stretto e lungo, sembrava non finire mai, loro mi erano dietro mi sospingevano, parlando entrambi, di quanto era importante quella stanza, la cosa più importante della loro vita, di come era splendido che finalmente potessero mostrarla a qualcuno: “Vero Massimo? La nostra Silvia ne sarà felicissima.”
La porta si aprì e mi ritrovai nel mezzo di una cameretta da bambina.
Era tutta rosa, le tende bianche con trine rosa, il letto a baldacchino con un copriletto fatto ad uncinetto. C’era una casa di Barbie in un angolo, e bambole ovunque, meravigliose bambole di porcellana con vestiti ricercatissimi, di trina, di seta, bianche, azzurre, rosa, con cappelli di tutte le fogge, gli occhi scuri scintillanti nella penombra.
E nel mezzo del letto, la bambola all’uncinetto, esattamente uguale a quella che avevano regalato a mia figlia, gli stessi occhi a bottoni, la smorfia amara della bocca, i colori sgargianti.
La signora Roccetti la prese, e mi disse: “ha visto? E’ uguale a quella che ho regalato alla piccola Anna, Silvia l’adora, vero Massimo? E’ la sua bambola preferita, ogni sera prima di andare a letto la pettina. Ci dorme insieme”.
Poi la voce si ruppe, prese un foto dalla scrivania, imprigionata in una massiccia ed elaborata cornice d’argento e me la mostrò; c’era del pianto remoto nel suo tono: “vede questa è la nostra Silvia, è sempre uguale, non cambia mai lei.”
Ero atterrita, Silvia ventenne mi guardava corrucciata dalla foto, era tutto spaventoso, quella camera da bambinetta, l’orribile bambola che sembrava un obbrobrio in mezzo alla perfezione delle bambole di porcellana, lo sguardo spaventato e serio della ragazza nella foto, i due anziani che mi cianciavano intorno.
Non ricordo come, riuscii a mormorare: “adesso devo andare”.
La tensione sembrò svanire, i Roccetti mi accompagnarono festosi alla porta come mi avevano accolto: “grazie, grazie, che bello che ci è venuta a trovare, torni la prego, torni, porti le bimbe, Silvia sarà felice di giocare con loro”.
Eravamo al mare quando mi raggiunse la telefonata di mia mamma. Leggevo svogliatamente un libro sotto l’ombrellone, le bimbe in acqua con Aldo, risposi come se mi svegliassi dal sonno.
“Giovanna hai letto il giornale oggi?”
L’avevo scorso senza farci molto caso.
Mi disse di leggere le notizie nella cronaca locale, e il mio sguardo cadde subito sul trafiletto intitolato: “anziani coniugi trovati morti nel loro appartamento”.
Erano loro.
Li avevano trovati distesi sul letto, vestiti di tutto punto come se fossero pronti per uscire, addirittura con le scarpe, lei con la borsetta nera fra le mani, lui con il cappello.
Lui l’aveva strangolata, poi aveva coperto con il suo foulard i segni delle sue mani, si era scolato una bottiglia di sonnifero e le si era sdraiato accanto, aspettando che la morte arrivasse per riunirsi a lei.
Spero solo che abbiano trovato pace.
Mister Pink