"Mi metto in gioco" - I racconti

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alessandra

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Credo che siamo arrivati al momento cruciale di questo concorso TUNZZZ, o meglio di questo gioco: i racconti. Di seguito posterò i 7 racconti pervenuti entro la mezzanotte del 16 ottobre 2016 sul tema "Follia e dintorni".
I partecipanti sono pochi rispetto a quanto si pensava, forse il tema è stato un po' ostico, comunque adesso quel che è fatto è fatto e godiamoci la parte bella, il "succo" del gioco: la lettura dei racconti pervenuti :YY(e il totoautore :mrgreen:)

Vi chiedo cortesemente di non postare nient'altro qui. Più o meno in contemporanea aprirò il 3d dedicato al sondaggio e al totoautore.

Questi i titoli dei racconti partecipanti, con relativi autori :mrgreen::

Cattoman - Cattoman
Dr. Ged - Victor Shelley
Fuori, il mondo dei folli - Menocchio
I Roccetti - Mister Pink
Il demiurgo - Madwriter
Toni, al màt (liberamente ispirato alla figura di Antonio Ligabue) - Lilly
Un nuovo lavoro - Dottor Jekyll


Le persone che hanno partecipato sono:
francesca
Hotwireless
maclaus
malafi
Marzati
Tanny
Zingaro di Macondo
 

alessandra

Lunatic Mod
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Cattoman

- Ma come ti vengono in mente queste idee? Non dormi la notte per pensare a certe cose…la Passione? Qui? In questo paese dimenticato da Dio?
- Avevo pensato che…
- …E dove la fai? Come la fai? E, soprattutto, con chi la fai?
- Coinvolgeremo tutto il paese: faremo recitare un centinaio di persone…le donne cuciranno i costumi…
- Le donne? Quali donne?
- Le mogli, le fidanzate, le nonne, le mamme, le zie, di tutti quelli che reciteranno…tutti ci daranno una mano!
- Povero illuso…
- …e la crocifissione la faremo sulla collina: sarà bellissima…
- …certo, le crocifissioni sono cose belle da vedere…
- E smettila!
- No! Smettila tu! Mi sa che stavolta sei uscito fuori di testa! La Passione, cento persone in costume che recitano…qui? In questo posto che neanche ci sono cento persone che sanno leggere…La crocifissione…ma sentitelo, il megalomane! E ci fermiamo qui, spero… perché credo che ti verrebbe difficile organizzare pure la resurrezione…
- Ma Don Tommaso…
- Don Tommaso un corno!
Quella notte Pietro non riusciva a dormire.
Pensava e ripensava a come lo aveva trattato il suo parroco per il solo fatto di voler fare qualcosa per risvegliare il sentimento cattolico tra la gente del suo paese.
A messa la domenica ormai, a parte lui e qualche vecchietta, non andava più nessuno…e a Don Tommaso, un prete che Don Abbondio in suo confronto era un leone, pareva che andasse bene così.
Doveva fare qualcosa.
Certo che doveva: lui era Cattoman, il supereroe.
Il difensore degli ultimi cristiani cattolici credenti rimasti in vita sul pianeta…
Lui, retaggio dell’era preconciliare, in via di estinzione, sopravvissuto alla modernità e alla secolarizzazione.
Lui, un enigma agli occhi dei miscredenti ma che, in verità, ha una struttura fisica-dottrinale molto semplice: crede in un solo Dio, prega con il rosario, digiuna, si confessa, fa la comunione.
Lui, Cattoman, che mal si adatta a vivere nell’era post-moderna e non si capisce come faccia a sopravvivere visto che egli è monogamo e tutti cercano in mille modi di addestrarlo alla promiscuità...
Lui, primitivo, che si accoppia ancora con un membro della sua specie di sesso differente e si imbizzarrisce non poco se qualcuno del suo stesso sesso gli lancia ammiccamenti lascivi…
Lui, che ancora si sottopone a strani riti che secondo la maggioranza più accreditata sono riti più magici che ragionevoli: cospargere di acqua la testa di un neonato, ungere con dell’olio dei ragazzi, inginocchiarsi davanti a un membro della sua stessa specie con una stola viola sulle spalle per confessare l’inconfessabile, mangiare pezzetti di cialda di frumento credendo che sia Dio…
Lui, così fuori posto, con quelle mani giunte e ginocchia piegate davanti a un crocifisso.
Cattoman aveva cominciato a barcollare la sera del 13 marzo 2013 quando, trepidante, in piazza San Pietro aspettava con ansia che si affacciasse il nuovo Papa…d’improvviso gli arrivò dritto in faccia quel “Buonasera”, pronunciato al mondo da quella finestra alla quale lui rivolgeva le sue preghiere.
“Buonasera”? Come Buonasera?
Buonasera lo può dire chiunque. Da un Papa si aspettava di sentire uno squillante “Sia lodato Gesù Cristo”! non “Buonasera”…
Da quel 13 marzo 2013 è stato per Cattoman l’inizio della fine; un attacco spudorato e tremendo al suo intimo essere cattolico: ogni chiacchierata aerea del Santo Padre, ogni dichiarazione di Monsignor Galantino della Cei, ogni intervista ai cardinali Kasper o Marx o Schonborn, gli lasciavano un livido sulla pelle e dentro l’anima.
Il colpo del KO gli fu inferto dagli imam in chiesa, o meglio dai sacerdoti e dai vescovi che hanno fatto partecipare i religiosi islamici, a capo ingiuriosamente coperto, a messe cristiane…
E lui, lui che voleva fare una Via Crucis come Dio comanda, una rappresentazione della Passione di Gesù in quel paesino una volta popolato da tanti bravi cristiani e invaso ormai di Mohamed, Abdul, Azir e Fatima, lui veniva trattato in quel modo dal suo parroco.
Ma ora basta!
Era arrivato il momento di far vedere a tutto il mondo chi era Cattoman!
E il primo doveva essere Don Tommaso.
Tirò fuori dalla cantina quella grande croce che si era costruito di nascosto nel corso degli anni, lui falegname dilettante a tempo perso, e cominciò a trascinarla su per la collina.
A un certo punto della salita, quando sentì che le gambe erano sempre più pesanti, si fece aiutare dal suo amico di sempre, Simone, un ragazzo “diversamente abile” sordomuto, il quale condivideva il suo modo di pensare senza obiettare mai nulla…
Arrivò faticosamente in cima alla strada, posò la grande croce e scavò una bella buca profonda insieme a Simone. Poi, con enfasi e schiarendosi la voce, disse al suo fedele amico: “Ora prendi i chiodi e il martello che ho messo nella sacca e piantameli nelle mani e nei piedi, dopo che mi sarò steso sulla croce. Quindi, la alzerai e la infilerai nella buca. Dopodichè corri a chiamare Don Tommaso e la gente del paese…”
Simone lo fissava perplesso.
- Amico mio, hai capito cosa devi fare? Disse Cattoman – Hai capito, o no?
- Certo che ho capito – rispose Simone, lasciando esterrefatto Pietro, che per la prima volta sentiva il suono della sua voce – Ho capito che sei un pazzo furioso…E va bene tutta la farina che mi hai fatto sprecare per fare il pane…e tutti i soldi che mi hai fatto spendere con tutti quei pesci, che non abbiamo mai mangiato! E tutti i vestiti inzuppati ogni volta che ho dovuto ripescarti dal lago mentre cercarvi di camminare sulle acque… e non parliamo poi delle botte che mi hai fatto prendere dai papponi quando cercavi di redimere tutte le prostitute che incontravi per strada… Basta! In galera, adesso per te, non ci voglio finire! Se proprio vuoi fare un gesto eclatante, posso andare a prenderti una corda e ti impicchi da solo…
- Simone, tu parli? E’ un miracolo!
- Ma quale miracolo…sei proprio fissato! Io ho sempre parlato. Sei tu che vivi nelle nuvole e ascolti solo quello che ti dice il neurone che vaga solitario per il tuo cervello…Su, forza! Torniamo in clinica che ormai è tardi.

Cattoman
 

alessandra

Lunatic Mod
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Dr. Ged

Now, Sep 08th 2056 - 11:00 a.m.
Si guardò intorno fieramente, soddisfatto di sé, affrontando con aria di sfida il silenzio improvvisamente calato nella sconfinata sala conferenze, gremita per l’occasione dalla crema del mondo che conta. Inutile nasconderselo: senza bisogno di soppesarne le traiettorie, sapeva fin troppo bene dove erano rivolti gli sguardi. Con esperti movimenti delle braccia, ottimizzati dall’abitudine, il dott. Ged manovrò l’ormai obsoleta sedia a rotelle -compagna fedele da quando, giovane rampante chirurgo all’apice del successo, in quel terribile incidente stradale perse entrambe le gambe-, fino a parcheggiarla accanto al podio per gli oratori. Impossibilitato a raggiungere il microfono, fuori portata per l’altezza proibitiva del leggio, da tempo rassegnato all’arte di arrangiarsi se lo fece senza battere ciglio precipitare addosso tirandolo bruscamente dal cavo elettrico, indispettito dalla consueta insensibilità di chi non considera le esigenze degli invalidi.
Tutti erano lì per lui, con l’aspettativa -non palesata per opportunismo politically correct- di assistere a un fiasco epocale: per potersi in seguito vantare col classico “Io lo avevo detto!” e gloriarsi del tipico “Io c’ero!”.

Intro
Anni, decenni di studi approfonditi; enormi capitali investiti: inizialmente da famose fondazioni pubbliche e private, in seguito anche da arrivisti di opinabile onestà in cerca di notorietà, senza interesse alcuno ai risultati, ma speranzosi che le generose elargizioni passassero come testimonianza di personale ricchezza, passaporto universale per il mondo del business.
L’argomento era recentemente considerato molto trendy, assurto prepotentemente alle cronache con inatteso pressante battere di grancassa dei media, che soffiavano sul fuoco avendovi scorto un’insperata opportunità per saziare la loro permanente fame di lucro; alleati con gli immancabili sedicenti esperti, millantatori di professione costantemente in cerca di immeritata notorietà, sempre disponibili a dichiarare tutto e il contrario di tutto.
La questione del resto era da sempre uno dei crucci dell’intero genere umano: guerre, malattie, incidenti di varie origini, avversi eventi meteorologici e catastrofi naturali, ma anche malformazioni congenite, aumentate in maniera abnorme con l’avvento dell’uso indiscriminato dei prodotti chimici e ancor più per le radiazioni nucleari, erano frequenti cause di mutilazioni che rendevano problematica la vita di chi ne rimaneva vittima.

The scientific establishment
La scienza moderna, tecnologia alleata alla chirurgia in sinergia con la chimica, aveva individuato due modi per affrontare la questione.
Il primo mirava a perfezionare i classici supporti artificiali che storicamente surrogavano in modo sommario la funzionalità compromessa, sostituendosi del tutto all’arto mancante o integrandosi con quanto ne restava. La letteratura ha reso celebri personaggi metaforici, che con tali artifizi mostravano vitalità pari se non superiore ai “normodotati”: chi non ricorda i classici Gambadilegno e Capitan Uncino, incontenibili protagonisti di fumetti e pellicole cinematografiche! L’evoluzione della ricerca ha permesso di raffinare le tecniche, sostituendo quei veri e propri mezzi di fortuna con appendici in materiali ultra-tecnologici, perfettamente adattate alla fisiologia, che mettono in grado perfino di praticare attività sportive. Si sono realizzati fantascientifici arti supportati da microchip, che direttamente collegati ai nervi eseguono gli ordini del cervello similmente a quelli naturali...
Il secondo consisteva nel trapianto dei corrispondenti arti umani, asportati a individui appena deceduti. Per decenni parve questo il futuro risolutivo, ma troppi problemi sorgevano dall’esigenza che il donatore fosse compatibile, altrimenti l’organismo ricevente identificava l’innesto come intruso, combattendolo. Nell’immaginario collettivo sopravviveva inoltre un’inestirpabile sindrome di Frankenstein, che popolava gli inconsci di mostri spaventosi.

Dr. Ged
Venne infine il momento del dott. Ged, il quale sostenne energicamente che, alla luce delle note carenze e problematicità, i rimedi forniti dai due approcci classici erano poco più che palliativi, primitivi per quanto evoluti con tecnologie attuali! La sua mente visionaria era ossessionata dalla classica lucertolina cui la coda, tagliata, ricresce in breve tempo; fatto che permette a molti di questi rettili di salvarsi la vita abbandonando quell’appendice tra gli artigli dei predatori.
A questo terzo percorso, che definì “La madre di tutte le soluzioni”, si dedicò anima e corpo dopo il tragico incidente che gli cambiò la vita, con uno zelo caparbio prossimo al fanatismo.

Now, 11:30 a.m.
La tensione aleggiava palpabile; era il giorno della verità: benefattore dell’umanità o genio del male? A quali risultati dovevano dedurre si riferissero, le scarne lettere di invito distribuite nelle ultime settimane a tutte quelle personalità del mondo scientifico, luminari della medicina, filosofi, eminenze religiose e opinionisti di grido del mondo dei mass media? Sul palco li stava fronteggiando un omuncolo non certo abbigliato in maniera consona per uno scienziato, poco curato anche nella persona, l’aria molto sciupata, malaticcia: una nullità, insomma, se non fosse stato per quell’incrollabile luce nello sguardo fermo, e le labbra stirate in una smorfia indecifrabile, incerta sulla linea di confine tra rabbia, dolore e un’incoerente quanto incomprensibile soddisfazione!
Che avrà avuto mai da gioire quell’impostore, ripudiato dal proprio mondo per amoralità e considerato alle soglie della follia, condannato alle pene degli inferi da ogni religione della terra, avanzo umano quasi raccapricciante su quella misera sedia a rotelle, certo recuperata presso un rigattiere?

20 Years ago
Era lapalissiano che una rigenerazione degli arti non potesse originarsi che dall’interno dell’organismo stesso, e questo si poteva perseguire solamente lavorando sulle catene del DNA, operandovi innesti di geni precursori, ottenibili trattando adeguatamente cellule presenti solo nei feti ancora in grembo. Non comprese mai perché ai suoi studi, mirati a migliorare l’esistenza di tutta l’umanità, proprio questa opponeva ogni sorta di blocchi di ordine pseudo-etico: primo fra tutti, il divieto di intervenire nei numerosi aborti volontari, procurandoli con un metodo che grazie a lui li avrebbe almeno resi utili alla scienza; secondo, quello di sperimentare i risultati su volontari. Il generale ostracismo toccò fin dal principio livelli impensabili, ma fu in reazione alle sue indignate rimostranze che presto degenerò in una vera persecuzione: un linciaggio morale artefatto, per opera di organizzazioni visionarie populiste sostenute dalle principali chiese, ma in primis foraggiato sottobanco da governi complici di potenti multinazionali farmaceutiche concorrenti; col risultato di un generale sbattergli di porte in faccia, anche da chi avrebbe potuto fornirgli legalmente quanto necessitava.

Now, 11:40 a.m.
Eccolo portare alle labbra il microfono, ma senza decidersi a proferire alcun suono: serpeggia il nervosismo, sguardi a disagio che si incrociano interrogativi, chi manifestando pena, altri visibilmente indispettiti; è ormai opinione comune che si assisterà a una serie sconclusionata di vaneggiamenti e tutto terminerà, ingloriosamente, con dei robusti infermieri che porteranno il tapino dove da tempo sarebbe dovuto stare: un reparto psichiatrico.
Un indecifrabile tonfo sonoro sorprende a un tratto il pubblico, innescando una cacofonia di brusii e “ssshh…”! Dalle costosissime prime file, privilegiate perché permettono ai vip accomodati su lussuose poltrone in pelle di esporsi alla plebe come in una vetrina, quanto di vedere perfettamente il palco, si sparge la voce che il microfono sarebbe finito sul pavimento. Risvegliatasi così l’attenzione generale, tutti prendono a indicarsi a vicenda, istintiva ricerca di coraggio nella sinergica complicità del branco, il dott. Ged intento ora ad afferrare saldamente, ma con studiata lentezza, la logora coperta posata sulla seduta nel posto di consueto occupato dalle gambe. A molti la scena rievoca per assurdo l’ostentata pantomima di un prestigiatore, in procinto di mostrare la propria magia per stupire il pubblico: non immaginano quanto sia azzeccata tale intuizione!

15 Years ago
Nel deserto sociale in cui venne esiliato, decise che altro non gli rimaneva che ricorrere al mondo animale per il materiale organico, e per la sperimentazione a se stesso come cavia.
Furono anni di sacrifici, studi ed esperimenti ventiquattro ore al giorno senza mai una pausa, una festività; a quanti pasti dovette rinunciare, quante volte crollò nel sonno improvvisamente, in pieno giorno, mentre ricontrollava per l’ennesima volta le formule al computer. Finito ogni rapporto umano, abbandonato anche dagli amici, il suo aspetto era ormai quello di un clochard.
Mille volte rischiò la vita, per un dosaggio sbagliato, per una sostanza incompatibile…
Ma alla fine ottenne i risultati auspicati.
O meglio: quelli che in tali condizioni costituivano il massimo possibile.

Now, 11:45 a.m.
All’improvviso un’ampia volée, come l’elegante veronica di un torero con la muleta, manda con compiaciuta teatralità il plaid a svolazzare lontano, a lato della sedia, enfatizzando il movimento vigoroso con cui al contempo l’infermo si leva miracolosamente in piedi davanti a tutti: ben eretto e perfettamente stabile.
Sollevando alte le braccia come un atleta vittorioso che taglia il traguardo, rimane per un lungo istante misticamente immobile con lo sguardo al cielo. Poi le abbassa aprendole verso il pubblico, al quale si protende squadrandolo tutto da una parte all’altra della sala, annuendo col capo e richiudendo più volte le dita delle mani coi palmi in su, esplicito invito a osannarlo.
Chi resta ammutolito, chi dà di stomaco, qualche svenimento tra le signore.

Now, Sep 08th 2056 - 12:00 p.m.
Cessato l’attimo della rivelazione, si volta lentamente dirigendosi sicuro verso l’uscita sul retro del palco (c’è chi giura di avergli visto mostrare le due dita medie). Camminando!
L’incedere è energico, elastico ed equilibrato; affetto a ben vedere da un dondolio inconsueto, per via di quei tarsi tanto lunghi da sembrare un terzo segmento di ciascuna gamba, intruso aggiunto da madre natura pacchianamente alla rovescia, rivolto in avanti.
Surreale, fortemente amplificato dal silenzio calato nella grande sala, echeggia il rumore del parquet a ogni singolo e cadenzato appoggio dei due solidi zoccoli caprini: clop, clop, clop…


Victor Shelley
 

alessandra

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Fuori, il mondo dei folli

Ehi tu, parlo con te! Guarda lì, a destra. Guarda quella bella ragazza con gli occhi di smeraldo, i capelli arancioni e gli occhiali marroni maculati, tondi e sottili come la moda vuole. Sogna di studiare medicina; è proprio graziosa, ma vedo che te ne sei già accorto. Comunque fa’ attenzione: ogni volta che le amiche le rivolgono la parola, lei guarda in basso. Ecco, sappilo: è pazza.

Guarda ora quel vecchio sulla panchina che legge il giornale, io lo conosco bene e so che odia ogni persona al mondo ed è molto burbero, forse perché sa di non valere niente, è bravo solo a giocare a carte. La sua bravura in questo campo è leggendaria in paese, ieri ha vinto al bar una bottiglia di liquore, se l’è scolata in macchina con la sua puttana preferita. Comunque scusami se divago, pure lui è pazzo.

Un ultimo esempio di follia: osserva, se puoi, quella persona che legge su internet, usando il suo aggeggio tecnologico, un altro pazzo.

Sei brava a scovarli, penserai; beh, sappi che ogni persona del nostro matto mondo è folle, e te lo dice una che ha lavorato per tutta la vita in un manicomio.

Perfetto, ora spostiamoci in estrema periferia, quasi campagna. Quell’enorme struttura che vedi, solitaria e, diciamo la verità, bruttissima è il mio posto di lavoro, il manicomio di cui ti parlavo prima. Sembra che tu non abbia nulla da fare, ti invito ad entrare, supera il grande cancello marrone e le due porte grigie che vedrai, poi chiedi all’infermiera di portarti nella sala comune, ti aspetterò lì.

Eccoti, ti vedo contrariato, non ti piace il luogo? O ti infastidisce il modo in cui ti parlo? Fingerò di non aver notato nulla. Questo è il regno della desolazione, i prigionieri, perché sono prigionieri, vivono distanti da tutto, braccati dai sonniferi e dimenticati dai parenti, sono una ignominia per i loro genitori, che immagino siano tutti buoni cristiani. Ah Dio, dimentichi pure le tue creature più deboli! Comunque, dei matti si prendono cura gli infermieri, molto tetri a dire il vero, tranne che i primi giorni. Arrivano, te lo dico per esperienza personale, contenti di aiutare, ma l’entusiasmo, chiamiamolo così, dei colleghi più vecchi, in un mese, li incupisce. Quello che più spaventa è la solita diceria, tristemente bisbigliata dai veterani: dal manicomio non esci, prima ci lavori, poi ci passi la pensione, come ospite.

Il nostro incontro non sarà lungo, voglio mostrarti solo due persone. La prima è una tale Haydèe Loda, sua madre era straniera, di origini inglesi. Fa quasi impressione guardarla negli occhi plumbei, sono sicura che prima brillassero, il viso è spento e corrotto dalle rughe, sembra essersi chiusa in sé, per i medici ha una percezione erronea del tempo. E’ sempre sola, è da moltissimo che vive qui e non parla mai; talvolta suole ripetere, nei suoi rari deliri, che vuole rimanere qui, perché fuori è il mondo dei folli. Solo una volta fece un discorso sensato, poi il silenzio per anni. Quella volta guardò tutti con una espressione bellissima, tragica, con i suoi lineamenti nordici sembrava una nobile d’altri tempi; parlò della sua vita, lacrimando disse del tragico incidente che la rese orfana, dei sogni infranti, del lavoro indesiderato e del marito che faceva la spola dal bar alla casa, solo per picchiarla ed approfittare di lei.

Che esistenza dolorosa… ti porto della seconda persona. Cosa? Ne hai abbastanza, preferivi la ragazza dagli occhi di smeraldo?

Allora non lo hai ancora capito, io sono quella ragazza, io sono Haydèe.

Non dirmi che sei sorpreso, in fondo tutti sono pazzi, tutti, pure tu.

Ispirato da fatti veri, ogni personaggio o avvenimento è di fantasia; scritto da Menocchio. Spero vi sia piaciuto.
 

alessandra

Lunatic Mod
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I Roccetti

La prima volta che entrarono nel negozio dei miei era un caldo pomeriggio di maggio, luminoso e splendente come lo sanno essere i pomeriggi di primavera appena ventosi. Nel chiarore primaverile che illuminava tutto il negozio dalle ampie vetrine, sembrò entrare un senso di grigiore e polverosità, come se lì dove si erano materializzati avessero spento la luce, o almeno l’avessero coperta con uno straccio per spolverare.
Mia mamma alzò la testa dal suo sferruzzare dietro il banco e rivolgendosi alla donna con il suo solito tono gentile le disse: “Desidera?”.
I miei avevano da generazioni un negozio di filati e biancheria nel centro del paese e conoscevano quasi tutti, ma ultimamente il paese si stava ingrandendo e non era più come una volta in cui le famiglie si conoscevano fino agli avi più remoti.
Fu così che i coniugi Roccetti entrarono nella vita della mia famiglia: Clelia e Massimo, entrambi oltre la settantina, grigi grigi come sanno esserlo gli anziani che sembrano trascinare i loro giorni in attesa di morire.
Lei sempre vestita con gonne a quadretti e maglie di lana marroni, un foulard rosso mattone e una borsettina nera fra le mani; lui con tristi vestiti coordinati, giacca e pantaloni, spiegazzati, colorati di autunno, ruggine, beige, verde smorto.
Erano gentilissimi e educatissimi, sommessi nei modi; quella prima volta la signora Roccetti comprò qualche gomitolo a scampolo, “per fare una copertina”, come disse.
Qualche giorno dopo tornarono per comprare del cotone, “per fare un centrino”.
E piano piano iniziarono a fermarsi anche senza aver niente di particolare da prendere, anche solo per fare un saluto. Lui chiacchierava con mio padre di tutto, di calcio, dei prezzi che erano sempre più alti, dei trasporti pubblici che non funzionavano. Di politica se la intendeva più con mia madre, entrambi convinti sostenitori della destra, segretamente innamorati dei tempi di Mussolini, mia madre solo per sentito dire, perché era nata sul finire della guerra, il signor Roccetti per intima convinzione che nemmeno le nefandezze del fascismo avevano potuto sopire.
La signora Roccetti invece affrontava i soliti argomenti da donna, il ricamo, le ricette, la maglia ai ferri, i malanni di stagione.
I miei erano abituati a simili frequentatori, essere negozianti del loro genere, il genere “da più generazioni, a conduzione familiare” li rendeva una sorta di rifugio per le persone come i Roccetti, abitudinarie, molto sole, che nella loro solita giratina quotidiana facevano volentieri una sosta per interrompere la solitudine e scambiare qualche chiacchiera.
Io li incontravo spesso, quando andavo a recuperare Ilaria, mia figlia maggiore che passava il pomeriggio nel negozio dei nonni. Erano diventati anche per me degli habituè, la Roccetti sempre con una parola gentile per le mie figlie, un complimento, una moina.
Iniziarono gli scambi di doni. Iniziò la signora Roccetti, portando a mia madre improbabili barattoli di marmellate fatte da lei, o di pomodori sottolio preparati dal marito secondo una ricetta tramandata nella sua famiglia. Oppure dolcetti stracarichi di frutta secca, canditi e miele per le mie bimbe.
Tutte cose che finivano immancabilmente nella pattumiera, per la nostra innata sospettosità per le cose cucinate da “estranei”.
I miei ricambiavano con cestini di frutta, presine per le pentole, canovacci di lino.
Fu la zia di mio marito che iniziò a gettare un’ombra lunga e inquietante su questa conoscenza.
Quando nel corso di normali conversazioni in famiglia venne a sapere che i Roccetti avevano iniziato a frequentare la mia famiglia, ci raccontò la loro storia. Si erano trasferiti nel nostro paese una quindicina di anni prima, con una figlia di diciotto anni. Erano benestanti, nessuno di loro due lavorava, vivevano delle rendite dei loro innumerevoli possedimenti, case, terreni, capannoni. Si mormorava che una seconda figlia fosse scappata di casa poco prima, ma nessuno era riuscito a sapere se questa fosse solo una diceria.
Fatto sta che dopo un paio di anni da quando si erano trasferiti, la figlia rimasta in casa, ormai ventenne, si era uccisa impiccandosi nella sua stanza. La cosa era rimasta quasi segreta, non se ne era trovata traccia sui giornali, e loro erano così riservati che nessuno aveva potuto sapere niente di più.
Tutto ciò oltre ad essere lugubre e misterioso, ci lasciò addosso una grande inquietudine.
Uno dei soliti pomeriggi in cui andai a riprendere mia figlia dai nonni, mia mamma mi diede un pacchettino: “Te lo manda la Roccetti, è per Anna”. Anna era la mia figlia minore, che al tempo aveva un paio di anni.
Il pacchettino era fatto con carta spiegazzata, mi immaginavo la Roccetti che aveva recuperato da qualche regalo passato quella carta, che l’aveva custodita in un cassetto per anni e ritirata fuori per quell’occasione. Conteneva qualcosa di soffice. Io e mia mamma ci guardammo e senza nemmeno ci fosse bisogno di dire niente, aprimmo con apprensione il pacchetto.
Conteneva una bambolina fatta all’uncinetto con tanti avanzi di lana, di tanti colori squillanti, giallo, rosso, blu elettrico, con la bocca dritta fatta con un filo rosa fucsia e due bottoni neri come occhi, capelli di lana arancione. Era orribile e spaventosa, gli occhi bottonati sembravano mandare strani bagliori, la bocca sembrava avere una smorfia amara.
“Buttiamola” sussurrò mia mamma.
Ma la cosa mi sembrò così ridicola, la nostra paura, il nostro stare quasi nascoste dietro il banco per non farsi vedere da nessuno, che sorrisi e le dissi: “ma no figurati, la faccio vedere ad Aldo, chissà come ride”. Aldo, mio marito, la sera disse che era proprio un orrore; come la facemmo vedere ad Anna, lei cercò subito di strapparle gli occhi con le manine, la lasciammo in un angolo fra le centinaia di carabattole della sua stanza, senza dar più peso alla faccenda. Ma la notte una febbre altissima iniziò a tormentare Anna. Non riuscivamo a fargliela scendere con niente. Il giorno dopo la portammo all’ospedale, ma non le trovarono niente di che, prescrissero il solito antibiotico generico.
Dopo tre giorni di febbre altissima, mentre mi aggiravo in preda al panico per la casa, senza sapere a che santo votarmi e se non fosse il caso di tornare in ospedale, mi capitò in mano la bambola. Terrorizzata, quasi impazzita dalla paura, accesi il camino e la bruciai.
Così mi ritrovò mio marito quella sera, seduta in poltrona, una strana poltiglia nera fumigante nel camino, lo sguardo perso nel vuoto. Fra le mie braccia Anna dormiva tranquilla senza più una traccia di febbre.
“Hai acceso il camino? Di luglio? Ma che è successo?”.
Quando gli raccontai tutto, mi guardò perplesso e mi disse che non ero normale, ma che andavo a pensare, fole di anziani, “ma guarda te se ancora nel Duemila la gente doveva credere a certe cose”.
Sapevo che aveva ragione, figuriamoci, una bambola stregata, e se sì, perché? Perché volerci far del male?
Ma la paura non mi lasciava, giorno dopo giorno cresceva in me. Non avevo raccontato niente a mia mamma, per non farla preoccupare, ma con una scusa non mandai più Ilaria il pomeriggio al negozio per paura che incontrasse i Roccetti.
Ma aveva ragione Aldo, ero una persona adulta e razionale. Dovevo affrontare la cosa con razionalità e così decisi di farlo, e un pomeriggio, sul finire di quel luglio caldissimo, con una scatola di biscotti in mano, suonai al campanello Roccetti. Il portone si aprì all’istante, e iniziai a salire le scale di un normalissimo condominio, chiedendomi a che piano fosse il loro appartamento.
Il naso adunco della Roccetti faceva capolino da una porta socchiusa al secondo piano. Quando mi vide, spalancò la porta e chiamò il marito con una voce festosa e squillante che non le avevo mai sentito.
“Massimo, guarda, c’è Giovanna la figlia di Silvano e Gisella. Che piacere, che piacere. Venga venga, si accomodi… che piacere”.
Il marito apparve sulla porta e entrambi mi presero per le braccia e cominciarono a tirarmi dentro.
Mi ero preparata tutto il discorso: buonasera, sono venuta per ringraziarvi, permettetemi di darvi questo pensierino, siete stati sempre gentili con le mie bambine.
Ma sembravano un fiume in piena, non riuscivo a spiccicare parola, mi ritrovai seduta su un divano di broccato verde, in una stanza anonima, con le tende tirate come mi ero sempre immaginata potesse essere casa loro, con in mano un caffè.
La signora Roccetti parlava parlava, del tempo, del fatto che non si era sentita tanto bene ultimamente, troppo caldo. In effetti la stanza era soffocante, sembrava che non vi entrasse aria da secoli, c’era odore di disinfettante e di aria chiusa.
Il signor Roccetti invece mi mostrava dei volumi poderosi che estraeva dalla sua libreria e mi illustrava cosa erano, come li aveva avuti.
“Ma la prego, la prego” fece ad un certo punto la signora Roccetti alzandosi dalla poltrona nella quale fino a quel momento era stata come appena appoggiata, seduta in punta, come se dovesse alzarsi da un momento all’altro.
“La prego, ci permetta di mostrarle la stanza che per noi è la più bella della casa”
Il Roccetti mi tolse la tazzina di mano, mi aiutò ad alzarmi dal divano, a dir la verità, quasi mi strattonò per farmi alzare, entrambi cominciarono a spingermi lungo un corridoio. In fondo c’era una porta chiusa, mentre ci avvicinavamo sentivo che mi si chiudeva la gola, tentavo di resistere, ma il corridoio era stretto e lungo, sembrava non finire mai, loro mi erano dietro mi sospingevano, parlando entrambi, di quanto era importante quella stanza, la cosa più importante della loro vita, di come era splendido che finalmente potessero mostrarla a qualcuno: “Vero Massimo? La nostra Silvia ne sarà felicissima.”
La porta si aprì e mi ritrovai nel mezzo di una cameretta da bambina.
Era tutta rosa, le tende bianche con trine rosa, il letto a baldacchino con un copriletto fatto ad uncinetto. C’era una casa di Barbie in un angolo, e bambole ovunque, meravigliose bambole di porcellana con vestiti ricercatissimi, di trina, di seta, bianche, azzurre, rosa, con cappelli di tutte le fogge, gli occhi scuri scintillanti nella penombra.
E nel mezzo del letto, la bambola all’uncinetto, esattamente uguale a quella che avevano regalato a mia figlia, gli stessi occhi a bottoni, la smorfia amara della bocca, i colori sgargianti.
La signora Roccetti la prese, e mi disse: “ha visto? E’ uguale a quella che ho regalato alla piccola Anna, Silvia l’adora, vero Massimo? E’ la sua bambola preferita, ogni sera prima di andare a letto la pettina. Ci dorme insieme”.
Poi la voce si ruppe, prese un foto dalla scrivania, imprigionata in una massiccia ed elaborata cornice d’argento e me la mostrò; c’era del pianto remoto nel suo tono: “vede questa è la nostra Silvia, è sempre uguale, non cambia mai lei.”
Ero atterrita, Silvia ventenne mi guardava corrucciata dalla foto, era tutto spaventoso, quella camera da bambinetta, l’orribile bambola che sembrava un obbrobrio in mezzo alla perfezione delle bambole di porcellana, lo sguardo spaventato e serio della ragazza nella foto, i due anziani che mi cianciavano intorno.
Non ricordo come, riuscii a mormorare: “adesso devo andare”.
La tensione sembrò svanire, i Roccetti mi accompagnarono festosi alla porta come mi avevano accolto: “grazie, grazie, che bello che ci è venuta a trovare, torni la prego, torni, porti le bimbe, Silvia sarà felice di giocare con loro”.

Eravamo al mare quando mi raggiunse la telefonata di mia mamma. Leggevo svogliatamente un libro sotto l’ombrellone, le bimbe in acqua con Aldo, risposi come se mi svegliassi dal sonno.
“Giovanna hai letto il giornale oggi?”
L’avevo scorso senza farci molto caso.
Mi disse di leggere le notizie nella cronaca locale, e il mio sguardo cadde subito sul trafiletto intitolato: “anziani coniugi trovati morti nel loro appartamento”.
Erano loro.
Li avevano trovati distesi sul letto, vestiti di tutto punto come se fossero pronti per uscire, addirittura con le scarpe, lei con la borsetta nera fra le mani, lui con il cappello.
Lui l’aveva strangolata, poi aveva coperto con il suo foulard i segni delle sue mani, si era scolato una bottiglia di sonnifero e le si era sdraiato accanto, aspettando che la morte arrivasse per riunirsi a lei.
Spero solo che abbiano trovato pace.


Mister Pink
 

alessandra

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Il demiurgo

Oggi sono inquieto. Attraverso la stanza in lungo ed in largo ed ho i nervi a fior di pelle. Qualcosa mi disturba, ma non capisco che cosa.

Poi le vedo, traslucide in controluce, sudicie ed orribili. Sono ditate: ditate sui miei cristalli, sui cristalli che sono la mia vita, la mia finestra sul mondo, la fonte del mio potere.

Lo sa benissimo, quell’idiota, che non sopporto le ditate: cosa fa allora nel tempo in cui la libero? Dodici volte al giorno me le deve pulire. Ogni due ore esatte si apre la porta della sua cella ed è suo compito, l’unico compito della sua vita, pulirmi i vetri. Giorno e notte.

Che poi il giorno e la notte, quaggiù a venticinque metri sotto terra, non hanno tanto senso: per quello li voglio sempre puliti. Anche di notte. E quell’idiota lo sa. Potrei sopprimerla e sostituirla con un automa molto più efficiente, ma meglio lei, più stupida di un robot. Che poi, se anche capisse? La sua vita è qua sotto, a pulirmi vetri. Non sa cosa c’è fuori.

Oggi la mia stanza dei bottoni mi urta i nervi. Colpa di quelle ditate. Chissà perché le chiamano ancora stanze dei bottoni? Beh certo, c’era un tempo in cui tutto si comandava con manopole e pulsanti. Poi con la tastiera. Con il mouse. Ma chissà perché non le hanno mai chiamate stanze degli schermi, con tutti quegli stupidi monitor che emanavano un’orribile luce azzurrina?

Ma quali schermi? Io non ne ho più bisogno. Ora il mio mondo è su questi vetri, anzi, tutto il mondo è su questi vetri. Da qui vedo, conosco e governo tutto. La mia stanza dei cristalli.

Era cominciato tutto per gioco, credo. O forse per noia. Che fare di quell’immenso patrimonio e di tutta quella tecnologia che non produceva altro che stupidi dispositivi che ci rendevano schiavi e ci spiavano ogni momento?

Le prime volte fu facile, i sistemi di sicurezza erano così deboli. E gli uomini così ingenui e creduloni. E fare soldi, tanti soldi con piccole truffe a danno di analfabeti informatici ormai non mi divertiva più.

E adesso ne ho tante di icone colorate su questi cristalli per spassarmela…… No! Non devo guardare là in basso a destra, sono troppo inquieto ora.

Potrei allargare il buco nell’ozono oggi, questo sì che di solito mi rilassa. Ma no, non è divertente: prima che se ne accorgano passano mesi ed io sono già morto di noia.

Sciogliamo un po’ di ghiacci al Polo? No, ecco. Un bel terremoto è quello che ci vorrebbe. Effetto immediato. Come quella volta. Che poi forse mi era scappata la mano. Effetti collaterali li chiamano. Per gli altri forse: per me gli effetti collaterali sono che con l’acquisto il giorno prima delle azioni dei produttori di cemento avevo portato a casa un bel gruzzoletto. Questione di punti di vista.

Ma perché l’occhio cade ancora laggiù in basso a destra? No. No. No. Devo pensare ad altro. Devo guardare altrove.

E se mi divertissi con le basse maree? E’ sempre buffo vedere navi in secca e pesci boccheggianti.

Con l’alta marea forse quella volta ho esagerato: Venezia non c’è più, le Maldive sono andate sott’acqua e alla fine non fu neanche un gran divertimento.

A ben pensarci l’umanità si allarma con poco: pochi gradi in più e tutti preoccupati a pensare come eliminare, ridurre, sostituire. Mi è bastato disattivare la funzione Global Warming e tutto è tornato come prima. Solo le mie ricchezze sono enormemente aumentate. Avevo scommesso sulle tecnologie giuste.

Basta! Devo togliere gli occhi da lì. Non devo guardare il riquadro luminoso DEL. Non lo devo guardare! Non oggi. Non è giornata.

Vi piace la Luna care coppiette di innamorati? Se volete ve l’avvicino. Poi però non vi lamentate se le maree sono troppo alte, o quel che resta di Venezia e le Maldive vanno di nuovo sott’acqua.

Ma quanto c.azzo manca all’apertura della cella? Non le sopporto quelle ditate. Mi fanno uscire di senno.

DEL come Delete. Delete All. DEL come Delirio. DEL come Divertimento Estremo Letale. Fanculo, la devo smettere di pensarci.

Quanto manca? 10 minuti. Ce la posso fare. Ma mi devo distrarre.

Ma che c.azzo fanno quei rincoglioniti? Perdono anche oggi? Se va avanti così, addio finale. Non ci sono proprio in campo, sembrano tutti delle mammolette. Gli mando un uragano sulla città. Domani è un altro giorno e nella ripetizione dell’incontro le cose andranno meglio.

8 minuti.

Ma perché ho creato il DEL? Non me lo ricordo. Ero minacciato? Ero annoiato? Volevo farla finita? Adesso è lì, lo guardo. O è lui che guarda me? Mi sfida, c.azzo.

7 minuti. 7 minuti alla liberazione. 7 minuti alla purificazione. Quanto c.azzo durano 7 minuti? 420 secondi, ma ormai saranno 410. Bene. Ormai ci siamo.

Potrei provare a dormire un po’. Magari mi rilasso. O magari invece faccio un incubo. Come quella volta che sognai che erano tornate le stagioni. Il tempo unico assoluto è molto meglio, ho risolto tanti problemi in quel modo.

5 minuti? Di già? Non credevo, forse mi sto davvero rilassando.

Le dovrei cancellare io quelle impronte immonde. No, ci penserà lei, a che c.azzo serve altrimenti?

4 minuti. Sto sudando. Sto tremando. La stanza gira. I vetri si avvicinano, mi schiacciano, mi soffocano. Dove c.azzo sono le mie pillole?

3 minuti. Sono troppi, non posso più aspettare. Ci penso io. Sarò pur in grado di cancellare due impronte? Ma come faccio? Non ho niente io per pulire. Ha tutto l’idiota nella sua cella.

120 secondi. Ma che succede? Il tempo aumenta invece che diminuire. E’ un eternità. E’ iniziato il conto alla rovescia? Sono confuso. Dove c.azzo sono le pillole?

Le cancellerò io quelle sudicie impronte. Ma come? Come?

Guardo di nuovo DEL. O è lui che guarda me? Cancellare, le devo cancellare. Devo attivare DEL? Così si cancelleranno definitivamente le immonde, le sudicie. E fanculo a tutto il resto. Chissenefrega degli effetti collaterali.

I secondi non passano, si sono fermati. Ne mancano ancora 100.

DEL, devo farlo. Non posso non farlo. Mi avvicino. Mi fermo. Sudo. Si incrocia la vista. I riquadri si sovrappongono, ma lo devo fare. I secondi sono sempre 100, c.azzo!

E’ bello il mio DEL, quasi sublime. La soluzione finale. L’apoteosi. Delete All.

DEL. Penso di toccarlo. Non succede nulla. Mi avvicino. Non succede nulla. Lo sfioro. Lo premo, lo spingo, lo prendo a pugni.

Mi fermo, prendo un respiro. Mi sudano le mani. Forse per quello non funziona. Mi allontano e guardo quanto tempo manca.

Non trovo più l’orologio, non c’è più. Mi sento svenire. Mi gira la testa. Ci devo riprovare.

Torno verso DEL. Non lo trovo più. E’ scomparso. Dove è finito? Si è cancellato?

Cerco dappertutto, ma è proprio scomparso. Guardo meglio e tutto è scomparso. Global warming, sisma, maree, luna, tempo unico assoluto, uragano, eruzione. Tutto cancellato. Per sempre. Sono rimasti solo i cristalli. Trasparenti ed inutili. Con quelle c.azzo di ditate.

Madwriter
 

alessandra

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Toni, al màt (liberamente ispirato alla figura di Antonio Ligabue)

Nel canile.

Richiuse la porta alle sue spalle. Sembrava il corridoio di un manicomio, tanto era lungo e sporco. O quello di un ospedale dove si va per morire.
Toni ciondolava con le braccia a penzoloni e camminava tutto curvo sulla schiena. Aveva lo sguardo perso e sembrava il gobbo di Notre Dame in libera uscita. A vederlo così, capivi subito che era matto. Antonio, il matto. Toni, al màt, come dicevano in paese.

I cani stavano abbaiando da cinque minuti buoni. Lo avevano sentito arrivare già dal fondo della strada.
Pensa se ce l’avessimo noi questo super potere; quello, cioè, di percepire le persone da lontano. Sta arrivando mia suocera, è qui a otto chilometri, esco a comprare le sigarette. Mia moglie è appena uscita dall’ufficio, via dal mio letto, ci vediamo domani.

I cani erano in tutto settantatre e tra loro c’era Mirtilla, la cagnetta nerissima e timidissima che se ne stava rannicchiata in fondo alla sua gabbia senza dire bau. Tremava come se avesse avuto in corpo 330 volt di elettrica tensione. Due occhi neri neri e una paura fottuta di morire. I cani sanno distinguere i buoni dai cattivi. Riconoscono chi gli porta il cibo e chi invece li ucciderà.
Una serpentina di orina uscì da sotto Mirtilla.

Toni pensava che Mirtilla fosse nata bianca e che fosse stata la timidezza a farla diventare nera. Ma non bisogna dare tanto peso ai pensieri di Toni, un mezzo depresso con la testa che se ne andava per i fatti suoi.



Tanto per fare un esempio: pensava di dover smontare le gomme della bicicletta ogni volta che la poggiava ai muri, perché era convinto che fosse l’unico rimedio contro i furti. Quando vedevi Toni al bar con le ruote sul bancone, pensavi che quel tipo fosse matto. Ma matto davvero, non matto per dire. E, a dirla tutta, non sbagliavi più di tanto a pensarla a quel modo.

Toni, al màt, come dicevano in paese. Girava per i borghi facendo finta di essere un artista. Non era solo a causa del suo portamento se la gente diceva che era matto. Gobbo, basso e con qualche dente in meno. Non solo per quello. I bambini scappavano quando Toni si avvicinava. Aveva gli occhi persi e lo sguardo vuoto di chi può essere parecchio pericoloso. Meglio star lontani da Toni, al màt.

Faceva sculture prendendo pezzi di terra. Dove viveva lui, di quella, ce n’era in abbondanza. Anzi, a dire il vero non è che ci fosse poi tanto altro. Terre e campi duri e lunghi fino all’orizzonte. Non una montagna a spezzare la vista. Non un albero. A volte qualche gatto o qualche cane, quelli sì. Vedevi le loro sagome camminare in lontananza e ti parevano vicini, anche se erano lontani.

Toni prendeva la terra in bocca, ne faceva palle con la saliva e poi la sputava in modo osceno. Con quell’impasto faceva giraffe, serpenti, cani e gatti. Le giraffe e i serpenti non li aveva mai visti, ma li costruiva lo stesso, chissà come faceva a immaginarseli. Forse era una specie di super potere, proprio come quello dei cani che riconoscono le persone senza vederle prima.

E dipingeva anche. Animali, ma non solo. Quando non gli tremavano le mani, riusciva a stare fermo per farsi qualche autoritratto allo specchio. Ne venivano fuori facce da matto con capelli arruffati. La mano era buona, a dire il vero, molto buona, era la testa che non andava bene.

In realtà la gente non poteva sapere se Toni fosse realmente pericoloso. In fondo non aveva mai fatto male a nessuno. Si limitava a girare per il paese urlando, proprio come fanno i matti. Per altro, il giorno e la notte, per lui, non facevano alcuna differenza. E poi lo sguardo. E poi i capelli. Voglio dire; c’era da stargli alla larga a prescindere. Ai bambini veniva vietato di avvicinarsi a Toni al màt, uno che dava quadri agli osti in cambio di un piatto di minestra.

Dunque appena Mirtilla vide Toni, perse il controllo degli sfinteri. Sapeva già tutto, Mirtilla. E poi bastava guardare in faccia la disperazione del matto, la sua rabbia, la sua attenzione particolare per cose che non esistono, il suo perenne digrignare di denti. Piangeva un po’, proprio quel poco che bastava per convincersi che fosse matto duro.

Toni aprì la porta della gabbia di Mirtilla. Dalla tasca interna della giacca tirò fuori la siringa col veleno. Adesso Mirtilla si comportava come una barca in mezzo alla tempesta. Si muoveva senza speranza, come investita da gigantesche onde di paura. C’era una dolcezza, una dolcezza spaventata, negli occhi di Mirtilla che sembrava voler bilanciare, lei sola, l'intera follia del mondo. Due biglie scure contro l'universo tutto.

Toni afferrò Mirtilla per il collo con la mano sinistra. Con la destra teneva invece la siringa, proprio come i medici quando devono fare una puntura. Le disse “ferma, cagnolina, lo sai che ti voglio bene” e le sorrise piangendo. Mirtilla lo guardò guaendo, ma solo leggermente e senza dimenarsi più di tanto. Eccolo un altro super potere degli animali: sanno benissimo quando è finita.

Toni forò una zampa di Mirtilla e fece pressione sullo stantuffo. L'uomo e il cane si guardarono negli occhi. Nelle iridi di Mirtilla non c'era dolore, non c'era odio, non c'era cattiveria. Toni al màt. Quel suo digrignare di denti lo faceva sembrare un famelico e ossessivo e desideroso di follia e dolore e sadismo e chissà cos’altro.

Iniettò tutto il veleno nel corpo di Mirtilla, poi la adagiò sul pavimento. Lei si acciambellò con gli occhi aperti, ancora tremante, ma molto meno rispetto a prima. Si era come calmata. Lui la guardò ancora, con quei denti che digrignavano fin quasi a rompersi l'uno contro l'altro. Mirtilla cominciò a chiudere gli occhi, lentamente, ma guardò Toni fino all'ultimo, e lo guardò con grande amore, credetemi, con grandissimo, infinito amore, un amore che nemmeno potete immaginare, finché le tapparelle del mondo non si chiusero del tutto e Mirtilla morì.




Poco prima.

Dunque Toni andava in giro facendo cose strane. Non c’era un perché o un per come nei suoi modi di agire. Semplicemente, a volte faceva cose che per gli altri erano prive di senso. Come mangiare i fiori del vicino. O pisciarsi nei pantaloni. O fissare le persone con un sorriso inquietante.

A volte, però, sapeva anche comportarsi normalmente. Avresti detto che faceva il postino o l’operaio o il barcaiolo, ma solo quando non era intento a mangiare i gerani di Fiorenzo.

Fiorenzo era il suo vicino di casa. Dirigente di banca, alto, moro, occhi scuri e fascino esagerato. Andava in giro elegante anche quando non lavorava. Le donne se lo mangiavano con gli occhi, pure quelle che dicevano di resistergli. Il suo fascino veniva non solo dal suo aspetto fisico, ma anche dai discorsi che faceva. Sempre molto elaborati, ma mai noiosi né pretenziosi. Voglio dire: Fiorenzo non faceva il figo. Fiorenzo era figo.

Teneva volutamente a distanza il matto che viveva a fianco del suo appartamento. I loro rispettivi giardini erano separati da una siepe alta tre metri. Fiorenzo non la potava mai, voleva ingabbiare la vista del vicino con il verde a foglie larghe della siepe. A volte, tra una foglia e l’altra, vedeva la testa del matto sbucare alla ricerca di fiori da mangiare.

Un giorno vide Toni sullo stradello condominiale di fronte al suo giardino. Era fermo e parlava con una bambina. I suoi modi erano calmi e parevano studiati con il pennello. La bambina vestiva una gonna bianca e rosa e sorrideva con un dito in bocca e aveva lunghe trecce, annodate da mani esperte. La mamma probabilmente.

Improvvisamente Toni la prese per mano addentrandosi nel boschetto oltre il ciglio dello stradello. Fu allora che Fiorenzo decise che era bene seguire il matto e la bambina. Ma non prima di andare in casa a prendere una cosa importante.

Arrivarono al canile del comune. Toni portava cibo ai cani. Li faceva sgambare e li accarezzava. Ci giocava e li rincorreva nei prati della struttura, fino a stancarsi di essere contento. Si sentiva bene con i cani. Erano la sua unica gioia. Con loro diventava normale, normale a tutti gli effetti, normale fuori e normale dentro e normale di lato, sopra e sotto.

Portava dolcezza e ne aveva in cambio dolcezza. Ai cani non interessava se Toni mangiava i fiori di Fiorenzo. Ai cani interessavano altre cose. Tipo giocare o correre o fiutare per terra alla ricerca di niente. E quando pure Toni annusava la terra, allora i matti diventavano loro, con quel saltare e abbaiare senza un obiettivo preciso.

Toni fece entrare la bambina dentro la gabbia di Mirtilla, la sua amica più grande. Entrambi uniti dalla solitudine, pesante e dolorosa, avevano instaurato quel tipo di rapporto che si può creare solo tra cane e uomo.

Mirtilla era molto timida. Toni aveva molta paura. Per questo erano soli. Ma quando erano insieme, timidezza e paura svanivano, perché entravano in un mondo a parte, un mondo che Dio aveva messo lì per loro, a loro unica disposizione. Ci voleva una chiave speciale per entrare in quel mondo.

Mirtilla, che era nera fin sotto le zampe, saltò in braccio a Toni. La coda della cagnetta, che si muoveva come un ventaglio velocissimo, faceva ridere la bambina. Mirtilla leccava la faccia di Toni che cercava di allontanarsi, anche se non ci riusciva più di tanto. Ridevano tutti. Toni, la bambina e anche Mirtilla sembrava ridere.

Dietro di loro apparve Fiorenzo. Che era un gran figo. Pieno di soldi e potere. Donne, sesso. Sesso a palate di ogni tipo. Donne belle e donne bellissime. E una barca ormeggiata sul molo di Portofino.

Fiorenzo, che era un gran figo, si sentiva molto solo e non capiva quella cosa che aveva davanti agli occhi: una bambina che rideva, una cagna che leccava senza motivo e un matto mangiafiori. Ci voleva una chiave speciale per entrare in quel mondo, ma Fiorenzo non l'aveva.

Fiorenzo aveva già ucciso a bastonate un gatto che, di tanto in tanto, veniva a trovare Toni. Poi lo aveva fritto in padella con le patate. Mesi prima aveva sgozzato il pappagallo di una collega con cui andava a letto un lunedì sì e uno no. Quel pappagallo continuava a dire amore ciao, amore ciao, amore ciao. Al settimo amore ciao, Fiorenzo aveva sgozzato il pappagallo con un coltello da cucina.

Fiorenzo, che era un uomo solo, gettò una polpetta di carne a Mirtilla. Sapeva che Toni avrebbe portato la bambina in canile. Sapeva che le avrebbe mostrato il suo animale preferito. Sapeva che Toni, Toni al màt, aveva bisogno degli animali per fare pace col cervello. Sapeva di essere un gran figo. E sapeva di essere molto solo. Malconcio, bellissimo, avaro, solo e triste e disperato fin dentro le ossa.

Li aveva seguiti, non prima di aver preparato una polpetta di macinato con dentro delle puntine da disegno. Mirtilla mangiò tutto, fino all’ultima puntina. Poi guardò Toni leccandosi i baffi voluttuosamente. Come a dire, che brava persona questo tuo amico. Grazie.

Prese a vomitare sangue e puntine. Uscendo su per la gola, le puntine le lacerarono l’esofago strappandolo come un foglio di carta. Grosse bolle di saliva le scoppiavano dal naso. Avrebbe agonizzato per ore a quel modo.

Toni disse alla bambina che non era niente. In fondo cos'è l’uomo? A cosa serve l'universo? A cosa il genere umano? A cosa Mirtilla? A cosa l’amore che lui aveva nascosto sotto la pazzia, come il più grande e dolce dei segreti? La riportò sullo stradello e la salutò. Poi prese siringa e veleno e tornò al canile. Mirtilla morì con dentro gli occhi un bellissimo quadro, finalmente l’amore, quello vero, di Toni al màt, come dicevano in paese.

Fine.

Lilly
 

alessandra

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Un nuovo lavoro

Caro diario…
Si inizia in questo modo vero? Che schifo, una formula di apertura più pietosa non potevo trovarla! A dire il vero non so ancora se posso definire questa cosa un diario, oppure una semplice raccolta di appunti o chissà cosa, quindi tanto vale iniziare come capita, mi sembra di essere come una ragazzina che parla al suo “amico” diario, quanto mi sento ridicolo, ma purtroppo non ho nient’altro da fare, mi chiedo come ho fatto a cadere così in basso e come faccio ogni tanto a rendermi così patetico, va be’, provo a vedere se in questo modo riesco ad ammazzare il tempo, quindi… mio carissimo diario, iniziamo con le presentazioni: mi chiamo Mario, ho trentadue anni e sono uno psichiatra, ebbene sì, sono uno di quelli che nell’immaginario collettivo rincorre i matti con la camicia di forza, la gente ci vede così ma in realtà facciamo tutt’altro.
Da pochi giorni sono trasferito in un nuovo istituto di igiene mentale, il primario per farmi conoscere la struttura ed i pazienti mi ha affidato una collaboratrice: la signorina Colombo,
un’infermiera delle dimensioni di un pachiderma che ho subito scoperto essere affabile come un cobra, mi segue come un’ombra tutto il giorno e non è molto loquace, tutto quello che sono riuscito a scoprire della sua vita è che abita in un paese a circa mezz’ora d’auto da qui in una casa piena di gatti, nonostante l’età avanzata (potrebbe essere mia madre) ci tiene particolarmente ad essere chiamata signorina e continua a precisare questa cosa a tutti, pazienti compresi.
Nell’istituto sono ricoverati soltanto uomini e pian piano sto iniziando a conoscere i miei pazienti, fra i miei preferiti c’è Marco della stanza 3, lui ha sempre un’espressione beata stampata sul viso, il poverino è completamente muto, è così dalla nascita e non ha mai proferito una parola, ha un grave ritardo mentale ed ha passato tutta la sua esistenza entrando ed uscendo da vari istituti, non si rende nemmeno conto della sua disgrazia ma è felice per un nonnulla ed elargisce sorrisi ed abbracci a tutti, è la personificazione della felicità e mi mette sempre di buon umore.
Molto diverso è invece il signor Carlo della stanza 7, è soggetto a continui sbalzi d’umore, brontola ed urla tutto il giorno, non diviene mai violento, conosce un incredibile campionario di insulti che non risparmia a nessuno, mi ha battezzato “il marmocchio” per il fatto che dimostro meno anni di quelli che effettivamente ho, oggi ad esempio mi ha detto di sparire dalla sua vista e di tornare soltanto quando smetterò di bagnare il letto la notte, questa cosa per la prima volta ha strappato un sorriso alla signorina Colombo, che da quando la conosco ha costantemente il broncio; ma l’idillio è durato molto poco, il signor Carlo ha pensato bene di farmi conoscere il nomignolo che ha affibbiato alla mia assistente: giocando sul suo cognome l’ha infatti rinominata la “signorina tacchino”, visto che lei lo ignorava ha quindi insistito: “Non far finta di niente! Sto parlando con te, brutto tacchino grasso!” a tali parole non sono riuscito a contenermi ed ho iniziato a ridere, lei mi ha lanciato un’occhiata talmente truce che il mio sorriso si è immediatamente spento, quanto mi piace lavorare con la gente che ha il senso dell’umorismo.
Nei film, quando fanno vedere un manicomio, è immancabilmente presente qualche paziente che si crede Napoleone, nel mio non c’è l’imperatore di Francia e nemmeno altre figure storiche, l’unico personaggio che si distingue per la sua drammatica originalità è Simone della camera 2, anni fa era in macchina con la sua famiglia ed è stato travolto da un treno in corrispondenza di un passaggio a livello incustodito, nell’incidente si è salvato soltanto lui ed ora è inchiodato su una sedia a rotelle; la drammaticità di quell’evento lo ha reso folle ed ora si crede di essere un capotreno, si è studiato a memoria gli orari dei treni della stazione centrale di Milano e passa tutta la giornata scorrazzando con la sua carrozzella su e giù per il reparto annunciando arrivi e partenze.
Nel reparto ci sono molte persone, ognuno ha i suoi problemi ma la situazione è abbastanza calma, posso dirmi fortunato di essere stato trasferito qui, la struttura è relativamente recente e discretamente funzionale, disponiamo addirittura di un giardino che attualmente non possiamo usare perché è inverno, ma che credo che nella prossima estate rappresenterà
un'ottima alternativa per i pazienti rispetto alle grigie corsie del reparto ed alle sale comuni; è comunque tutt’altra cosa rispetto a quella fogna di istituto dove lavoravo prima, quello era più simile ad un carcere che ad una casa di cura ed era brutto lavorarci, la maggior parte dei pazienti avevano commesso crimini atroci ed erano molto violenti, bisognava stare veramente attenti, qui non è certo un’isola felice ma rispetto al il mio vecchio posto è il paradiso.
Ma purtroppo ogni rosa ha le sue spine, che nel mio caso sono rappresentate dal fatto che l’istituto è stato realizzato nel bel mezzo del nulla, il primo paese è a circa cinque chilometri di distanza e purtroppo io non ho l’auto, coprire quella distanza a piedi la sera alla fine del turno, nel bel mezzo dell’inverno e completamente al buio dato che la strada non è illuminata non è cosa saggia, sta di fatto che è da quando sono arrivato qui che non esco e non ho ancora scoperto nulla della zona che circonda l’istituto; mi hanno detto che il paese è veramente piccolo e non c’è molto da fare, ma la sera si può comunque trovar qualcosa per divertirsi, è già qualche giorno che vorrei andarci, ma purtroppo in questi giorni i colleghi sono sempre stati molto indaffarati e non sono mai riusciti ad accompagnarmi.
La cosa migliore di questo nuovo impiego non è tanto l’ambiente, che potrei definire da un certo punto di vista confortevole, ma è una persona: Alice, una delle dottoresse che lavora nel mio stesso reparto, obiettivamente non è bellissima ma ha su di me un effetto magnetico, è alta circa un metro e settanta, abbronzatissima, capelli neri lisci che gli ricadono fino a metà della schiena, potrei definirla la classica donna mediterranea se non fosse per quei due occhi del colore del cielo tipici delle donne nordiche, tutte le volte che incrocio il suo sguardo mi sento avvampare, quando c’è lei divento improvvisamente goffo e impacciato, credo proprio di essermi beccato una bella cotta e la cosa comica è che lei molto probabilmente si è accorta dell’effetto che mi fa… Ho controllato ed all’anulare della mano sinistra non porta nessun anello, non voglio crearmi false aspettative, ma forse posso avere delle speranze.
Oggi mi è capitata un occasione d’oro ma purtroppo me la sono lasciata scappare: sono stato per circa un’oretta a parlare con lei nel suo studio, ma non sono riuscito a trovare la forza di fare il primo passo, quanto mi sento ridicolo… lavoro con la mente delle persone e poi non riesco a far funzionare la mia quando vedo gli occhi di quella donna; ci siamo quindi limitati a parlare del più e del meno, lei è originaria dello stesso paesino della signorina Colombo e non ha mai lavorato in altri istituti, abbiamo discusso per molto dei nostri trascorsi universitari, delle rispettive famiglie e di un sacco di cose di poco conto, insomma si è parlato di tutto tranne di quello che realmente mi interessava, devo assolutamente scoprire se è disponibile oppure ha il fidanzato.
Lei ha finito il turno ed è andata a casa, mentre io mi sono trovato nuovamente inchiodato qui la sera senza nulla da fare; per quanto riguarda l’intrattenimento serale l’istituto ha ben poco da offrire: stare come uno zombie davanti al televisore, oppure fruire dei mirabolanti svaghi presenti nella zona comune: biliardino, carte, scacchi e dama, mi dicevano che fino a poco tempo fa c’erano dei giochi in scatola, ma che nel giro di poco sono stati persi la maggior parte dei pezzi ed è stato buttato via tutto.
Di fuori ha iniziato a nevicare, ho provato a chiedere alla signorina Colombo se riusciva a darmi uno strappo fino in paese, ma mi ha rifilato la solita scusa: non vuole fare troppo tardi perché deve dare da mangiare ai suoi gatti e che comunque anche se mi portasse al paese avrei comunque il problema di far ritorno all’istituto, il paese è piccolo e non c’è un servizio taxi, rischierei di rimanere a piedi con i soliti problemi: buio, freddo, neve e così via; quindi mi ha lasciato per l’ennesima volta qui.
Dato che la tv è una sola e non posso mai guardare ciò che piace a me senza incorrere in infinite lamentele, a biliardino non gioca mai nessuno e ne ho fin sopra i capelli di giocare a carte, ho pensato bene di mettermi a scrivere qualcosa tanto per far passare il tempo, mi è stata data un’ agenda, una di quelle che regalano gli istituti bancari, a dire il vero è abbastanza squallida, ma per il mio scopo va benissimo… quindi eccomi qui a scrivere a ruota libera quello che mi passa per la testa con il solo scopo di far passare la serata, la cosa ha funzionato perché senza nemmeno accorgermene si è fatto tardi, è meglio che me ne vada a letto perché domani devo lavorare, non so, mio “carissimo diario” se anche domani continuerò a scrivere, mi piacerebbe portar fuori Alice, ma è forse meglio lavorare meno di fantasia, per quello che ne so potrebbe essere fidanzata; mi accontenterei anche solo di riuscire ad andare fino al paese tanto per bere una birretta e vedere finalmente delle facce nuove, cambiare aria insomma; al momento l’unica cosa di cui sono certo è che se vorrò continuare a scrivere questa sorta di racconto assurdo dovrò organizzarmi meglio, stasera mi sono ridotto a scrivere appoggiato al comodino della camera e mi è pure venuto mal di schiena a star chinato in quel modo, devo chiedere al primario di assegnarmi un ufficio come quello di Alice, con una bella e comoda scrivania, devo inoltre farmi dare una penna, stasera ne ho chiesta una all’inserviente e dopo mille scuse mi ha rifilato soltanto un maledettissimo pennarello a punta morbida, che oltre a scrivere malissimo mi macchia le pagine e le mani, avevo solo chiesto una biro ma quello è stato completamente intransigente e molto sgarbato, mi ha infatti risposto: “Vuoi capire che non te la posso dare una biro! Se ti va bene prendi questo e vai fuori dai piedi, altrimenti fanne a meno!”, il mio lavoro è quello di lavorare con i misteri della psiche umana, ma ogni tanto non riesco proprio a comprendere perché la gente si comporta in un modo così bizzarro, in fondo gli avevo soltanto chiesto una biro.

Dottor Jekyll
 
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