Questa raccolta di racconti scritti da Sciascia tra il 59 e il 72 ha come trait d'union l'ambientazione, ossia la Sicilia e le sue varie anime e declinazioni. Mantenendo come denominatore comune l'isola, infatti, sono molti e vari i temi di cui si può parlare e Sciascia, da gran conoscitore della Sicilia, delle sue bellezze e nemesi, nonché dell'animo umano, ce ne offre qui un nutrito assaggio. Ci si ritrova quindi a parlare della morte di un Cardinale per mano di un furbastro considerato lo scemo del villaggio, dell'etimologia della parola Mafia e di una sua applicazione pratica, di qualcosa che mafia non è ma per essa viene spacciato, di una storia di infedeltà pubblicata sul giornale che getta scompiglio fra i notabili d'un paesino, della rimozione di una statua di Stalin paragonata a quella di una santa inesistente, scusa questa, per affrontare il credo religioso e quello politico. E fra queste e altre miserie dell'animo umano svetta la sincera e impenitente voce d'un bambino che, dal finestrino di un treno, osa affermare che il mare, in Sicilia, ha il colore del vino. Ed è proprio così: basta poco per perdonare agli uomini le loro bassezze, in fondo, basta girare lo sguardo e lasciarsi ammaliare da quella distesa cangiante che ubriaca e stordisce.
Una lettura molto gradevole ed interessante in cui immergersi in questi giorni di calura agostana, sia per la verve intrinsecamente ironica della scrittura di Sciascia, sia per la varietà dei temi trattati, sia per la brevità dei racconti che ne favorisce la lettura quando la concentrazione si mantiene per poco. E da ultimo una constatazione personale: sono arrivata a leggere Sciascia molto tardi, ma pian piano sto scoprendo un autore di cui apprezzo molte cose. Non posso che esserne lieta.