Ólafsdóttir, Auður Ava - Hotel silence

Shoshin

Goccia di blu
Ho letto tante vostre recensioni di libri.
Molte mi sono davvero piaciute e mi hanno
fatto venire voglia di cimentarmi anche io
con il racconto di quello che è stato il mio
libro speciale.
So già che non sarò brava quanto voi,
ma proverò a descrivere Hotel Silence
di Audur Ava Olafsdottir.
Hotel silence si incomincia a leggere dalla
copertina,aperta su un orizzonte che potrebbe
essere anche,ed è secondo me,quello del nostro mondo interiore,e su tutto quello che ne entra
a far parte.

"Ör”è il titolo originale del romanzo
che vuol dire cicatrice in islandese.
Ma cosa è una cicatrice e come può essa diventare
madre di una rinascita interiore,di una seconda
e più consolidata origine da noi stessi?
È da questo piccolissimo titolo che si sprigiona la forza di questo romanzo e il suo potere curativo.

"Jónas ha quarantanove anni e un talento speciale per riparare le cose. La sua vita, però, non è facile da sistemare: ha appena divorziato, la sua ex moglie gli ha rivelato che la loro amatissima figlia in realtà non è sua, e sua madre è smarrita nelle nebbie della demenza. Tutti i suoi punti di riferimento sono svaniti e Jónas non sa più chi è. Nemmeno il ritrovamento dei suoi diari di gioventù lo aiuta: quel giovane che era oggi gli appare come un estraneo, tutta la sua esistenza una menzogna. Comincia a pensare al suicidio, studiando attentamente tutti i possibili sistemi. Non vuole però che sia sua figlia a trovare il suo corpo, e decide di andare a morire all'estero. La scelta ricade su un paese appena uscito da una terribile guerra civile e ancora disseminato di edifici distrutti e mine antiuomo. Jónas prende una stanza nel remoto Hotel Silence, dove sbarca con un solo cambio di vestiti e la sua irrinunciabile cassetta degli attrezzi. Ma l'incontro con le persone del posto e le loro ferite, in particolare con i due giovanissimi gestori dell'albergo, un fratello e una sorella sopravvissuti alla distruzione, e con il silenzioso bambino di lei, fa slittare il suo progetto giorno dopo giorno..."

E cambia Jonas ,
il cui nome vuol significare colomba .
Parte verso un destino incerto ,
per approdare in un paese che gli assomiglia,
oramai in frantumi.
Le sue ferite si fondono con quelle del paese senza nome ,
e vanno a ripararsi in un Hotel in mezzo al nulla
che la guerra produce.
Nel caos dei frantumi che lui vede intorno a sé e che sente come propri,inizia a riparare le cose,come ha sempre fatto nella sua vita ,trovando così un modo per poter sopravvivere al disorientamento e al dolore.
Il prendersi cura degli altri e delle cose,anche quelle apparentemente irrilevanti,procura all'uomo
un senso interiore di utilità.
Succede questo anche a Jonas,
che nel silenzio dei pensieri ,con le sue mani
in realtà grida il bisogno di recuperare i luoghi
ed il tempo e la voglia di parlare al suo stesso cuore,
per ascoltare dalle proprie profondità una risposta
capace di restituirgli la forza e la dignità smarrite.

"La luce delle stelle più lontane è quella che arriva agli uomini più tardi",
così scrive l'autrice sul finire di questo romanzo
al quale ho cercato di rendere omaggio con i piccoli pensieri raccolti prima nel cuore e poi qui ,in questo angolo virtuale,non senza commuovermi.
Mentre leggevo,ripercorrevo le mie ferite e senza accorgermene provavo già a ripararle
avendo cura di non dimenticare il dolore,piuttosto
renderlo alla mia portata.
E così ,come Jonas,ho provato a considerare il dolore come un' opportunità ,trasformandomi pian piano in custode di tutte le cicatrici della vita.
 
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Nefertari

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Molto dolce e triste al tempo stesso. Attualissimo il tema del suicidio e mi ha toccato il risvolto dato al libro. Consigliato.
 

qweedy

Well-known member
Il libro è davvero molto bello, tenero, scritto con grazia e soavità, e con stile raffinato ed elegante.
E' una storia di rinascita dalle macerie dell'esistenza.
Jónas ha un dono: sa aggiustare le cose, le sa riparare. Questa volta però qualcosa si è rotto per sempre. Jonas non vuole che sia la figlia a ritrovare il suo corpo, perciò decide che è meglio suicidarsi in un paese straniero martoriato dalla guerra, scelto a caso, dove regna ovunque distruzione e devastazione e dove un corpo in più non fa differenza. Al suo desiderio di morte si contrappone, sullo sfondo, la morte causata dalla guerra.
Sembra che solo le cicatrici, i segni evidenti impressi sulla carne siano lì a testimoniare gli avvenimenti che hanno segnato Jonas: una geografia del dolore, che lui cerca di coprire, simbolicamente, con un tatuaggio: una ninfea bianca, il nome di sua figlia (Vatnalilja significa appunto ninfea) tatuata sul petto, all’altezza del cuore.
È poetico vedere come la riparazione che Jonas fa di porte, finestre e impianti idraulici accompagni, piano piano, la ricostruzione dell’uomo. Ricostruzione materiale, metafora di una ricostruzione dell’anima. Così come è poetico, che sia proprio la cassetta degli attrezzi, portata da Jónas come strumento utile per perseguire le sue finalità suicide, ad aprirgli la strada verso la rinascita.

"Uno sbalorditivo cielo di primavera con tre strisce orizzontali che lo fasciano d’arancio non è abbastanza per far rinascere in me i desideri, ho già visto questo stesso cielo l’anno scorso e l’anno ancora prima. Posso continuare a esistere o posso smettere".

“Da questa parte sono io, dall’altra il mio corpo. Entrambi estranei allo stesso modo”

"Anziché smettere di esistere, non puoi smettere di essere tu, e diventare un altro"?

"Il tempo di formazione delle cicatrici varia a seconda dei casi, così come varia è la loro profondità. Alcune cicatrici sono più profonde di altre".

“Ci sono ancora, sono ancora qui, sto cercando di capire il perché”.
 
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