Terzo romanzo che leggo di Simenon (escludendo volutamente i due Maigret) e devo dire che sono sempre più sorpresa da quanto mi stia piacendo questo autore, da quanto si dimostri ogni volta efficace e trascinante.
Ho iniziato Lettera al mio giudice senza sapere nulla della trama (tanto ho capito la solfa: qualsiasi Simenon mi va bene!) ed è stata un’ottima scelta, perché mi sono affidata direttamente alle parole di Charles Alavoine, narratore e protagonista, per comprendere la sua storia e il motivo per cui egli ha deciso di scrivere al proprio giudice, che - attenzione - non è il giudice del nostro sistema giudiziario, bensì il giudice istruttore, colui cioè che ha istruito la fase preliminare del processo. Insomma, il destinatario di questa lettera è un uomo che in teoria dovrebbe essere già edotto dei “fatti” ed è proprio per questo che il protagonista si rivolge a lui: lo fa perché ciò che deve raccontare presuppone i fatti, ma allo stesso tempo li supera; lo fa perché ha capito perfettamente che ciò che deve dire si colloca su un piano totalmente diverso da quello delle indagini svolte fino a quel momento; lo fa perché, ora che è “dall’altra parte” (un’espressione che usa spesso nel suo scritto), vede e sente le cose da una altro punto di vista e vorrebbe che anche il giudice, con il quale evidentemente sente una certa affinità dovuta anche all’esercizio della libera professione, possa arrivare a comprendere questa nuova prospettiva.
Chi conosce Simenon (Maigret a parte) sa già che la condizione dell’arresto, dell’inchiesta, o per meglio dire gli effetti che essi producono sull’animo di chi li subisce (sia egli colpevole o no), rendendolo improvvisamente “estraneo” a se stesso e agli altri e indifferente al proprio futuro, è un tema ricorrente nei suoi romanzi. E sa anche che un altro tema a lui caro è la passione travolgente e deviante, che mette in crisi la routine della propria pacifica esistenza convenzionalmente riconosciuta.
L’uno e l’altro tema ricorrono anche in questo libro, al quale però si aggiunge un ulteriore tassello, che è l’unico punto su cui voglio soffermarmi, e cioè la “colpevolezza” del soggetto.
Questo è l’unico caso, dei libri letti finora, in cui il protagonista dichiara esplicitamente e direi quasi spudoratamente non solo la propria effettiva colpevolezza, ma anche l’aggravante della premeditazione. Anzi, a pensarci bene ciò che il dottor Charles tenta di far comprendere al suo giudice sono proprio le motivazioni profonde di questa colpevolezza... è come se il personaggio dicesse: “ok , voi mi avete giudicato, ma a me non basta... voi, anzi lei, signor giudice, deve capire perché l’ho fatto e perché era giusto e logico che lo facessi”.
Ecco, dal mio personale punto di vista, non c’è nulla di più affascinante che farsi trascinare così passivamente da una personalità (letteraria) forte, che ci “conduce” dove, come e nei tempi che vuole. Senza rovinarvi il gusto della sorpresa, sottolineo solo che la bellezza di questo romanzo è proprio nel modo in cui il protagonista si svela a poco a poco e quindi, di pari passo, nel modo in cui noi lo percepiamo. All’inizio sappiamo poco o nulla di lui: di cosa è accusato? Ha commesso per davvero il crimine per cui è imputato o lo hanno incastrato? È un debole che si lascerà andare, come hanno fatto alcuni suoi fratelli letterari?
Man mano che la lettura procede, però, il carattere di Alavoine emerge, si definisce in modo sempre più preciso e “solido”; direi quasi che la sua figura diventa sempre più “ingombrante”. Proviamo forse ancora un po’ di pena per lui quando ci racconta la metafora dell’uomo senza ombra (un passaggio molto bello, che non dimenticherete facilmente), ma questa nostra compassione, questa spontanea “simpatia” iniziale vacilla sempre di più: il sospetto di essere stati “ingannati” (da Alavoine? da Simenon stesso?) ci sfiora e le nostra “sicurezza” viene meno...
Preparatevi a intraprendere un viaggio inquietante nella psiche di un uomo che in fin dei conti, per come si presenta all’inizio, non è così diverso da tanti di noi: un uomo che si è lasciato vivere per troppi anni e che, quando ha finalmente deciso di riprendere la propria vita in mano, lo ha fatto senza più porsi alcun limite, fino alle estreme conseguenze.
Ho iniziato Lettera al mio giudice senza sapere nulla della trama (tanto ho capito la solfa: qualsiasi Simenon mi va bene!) ed è stata un’ottima scelta, perché mi sono affidata direttamente alle parole di Charles Alavoine, narratore e protagonista, per comprendere la sua storia e il motivo per cui egli ha deciso di scrivere al proprio giudice, che - attenzione - non è il giudice del nostro sistema giudiziario, bensì il giudice istruttore, colui cioè che ha istruito la fase preliminare del processo. Insomma, il destinatario di questa lettera è un uomo che in teoria dovrebbe essere già edotto dei “fatti” ed è proprio per questo che il protagonista si rivolge a lui: lo fa perché ciò che deve raccontare presuppone i fatti, ma allo stesso tempo li supera; lo fa perché ha capito perfettamente che ciò che deve dire si colloca su un piano totalmente diverso da quello delle indagini svolte fino a quel momento; lo fa perché, ora che è “dall’altra parte” (un’espressione che usa spesso nel suo scritto), vede e sente le cose da una altro punto di vista e vorrebbe che anche il giudice, con il quale evidentemente sente una certa affinità dovuta anche all’esercizio della libera professione, possa arrivare a comprendere questa nuova prospettiva.
Chi conosce Simenon (Maigret a parte) sa già che la condizione dell’arresto, dell’inchiesta, o per meglio dire gli effetti che essi producono sull’animo di chi li subisce (sia egli colpevole o no), rendendolo improvvisamente “estraneo” a se stesso e agli altri e indifferente al proprio futuro, è un tema ricorrente nei suoi romanzi. E sa anche che un altro tema a lui caro è la passione travolgente e deviante, che mette in crisi la routine della propria pacifica esistenza convenzionalmente riconosciuta.
L’uno e l’altro tema ricorrono anche in questo libro, al quale però si aggiunge un ulteriore tassello, che è l’unico punto su cui voglio soffermarmi, e cioè la “colpevolezza” del soggetto.
Questo è l’unico caso, dei libri letti finora, in cui il protagonista dichiara esplicitamente e direi quasi spudoratamente non solo la propria effettiva colpevolezza, ma anche l’aggravante della premeditazione. Anzi, a pensarci bene ciò che il dottor Charles tenta di far comprendere al suo giudice sono proprio le motivazioni profonde di questa colpevolezza... è come se il personaggio dicesse: “ok , voi mi avete giudicato, ma a me non basta... voi, anzi lei, signor giudice, deve capire perché l’ho fatto e perché era giusto e logico che lo facessi”.
Ecco, dal mio personale punto di vista, non c’è nulla di più affascinante che farsi trascinare così passivamente da una personalità (letteraria) forte, che ci “conduce” dove, come e nei tempi che vuole. Senza rovinarvi il gusto della sorpresa, sottolineo solo che la bellezza di questo romanzo è proprio nel modo in cui il protagonista si svela a poco a poco e quindi, di pari passo, nel modo in cui noi lo percepiamo. All’inizio sappiamo poco o nulla di lui: di cosa è accusato? Ha commesso per davvero il crimine per cui è imputato o lo hanno incastrato? È un debole che si lascerà andare, come hanno fatto alcuni suoi fratelli letterari?
Man mano che la lettura procede, però, il carattere di Alavoine emerge, si definisce in modo sempre più preciso e “solido”; direi quasi che la sua figura diventa sempre più “ingombrante”. Proviamo forse ancora un po’ di pena per lui quando ci racconta la metafora dell’uomo senza ombra (un passaggio molto bello, che non dimenticherete facilmente), ma questa nostra compassione, questa spontanea “simpatia” iniziale vacilla sempre di più: il sospetto di essere stati “ingannati” (da Alavoine? da Simenon stesso?) ci sfiora e le nostra “sicurezza” viene meno...
Preparatevi a intraprendere un viaggio inquietante nella psiche di un uomo che in fin dei conti, per come si presenta all’inizio, non è così diverso da tanti di noi: un uomo che si è lasciato vivere per troppi anni e che, quando ha finalmente deciso di riprendere la propria vita in mano, lo ha fatto senza più porsi alcun limite, fino alle estreme conseguenze.
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