Simenon, Georges - Lettera al mio giudice

ayuthaya

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Terzo romanzo che leggo di Simenon (escludendo volutamente i due Maigret) e devo dire che sono sempre più sorpresa da quanto mi stia piacendo questo autore, da quanto si dimostri ogni volta efficace e trascinante.

Ho iniziato Lettera al mio giudice senza sapere nulla della trama (tanto ho capito la solfa: qualsiasi Simenon mi va bene!) ed è stata un’ottima scelta, perché mi sono affidata direttamente alle parole di Charles Alavoine, narratore e protagonista, per comprendere la sua storia e il motivo per cui egli ha deciso di scrivere al proprio giudice, che - attenzione - non è il giudice del nostro sistema giudiziario, bensì il giudice istruttore, colui cioè che ha istruito la fase preliminare del processo. Insomma, il destinatario di questa lettera è un uomo che in teoria dovrebbe essere già edotto dei “fatti” ed è proprio per questo che il protagonista si rivolge a lui: lo fa perché ciò che deve raccontare presuppone i fatti, ma allo stesso tempo li supera; lo fa perché ha capito perfettamente che ciò che deve dire si colloca su un piano totalmente diverso da quello delle indagini svolte fino a quel momento; lo fa perché, ora che è “dall’altra parte” (un’espressione che usa spesso nel suo scritto), vede e sente le cose da una altro punto di vista e vorrebbe che anche il giudice, con il quale evidentemente sente una certa affinità dovuta anche all’esercizio della libera professione, possa arrivare a comprendere questa nuova prospettiva.
Chi conosce Simenon (Maigret a parte) sa già che la condizione dell’arresto, dell’inchiesta, o per meglio dire gli effetti che essi producono sull’animo di chi li subisce (sia egli colpevole o no), rendendolo improvvisamente “estraneo” a se stesso e agli altri e indifferente al proprio futuro, è un tema ricorrente nei suoi romanzi. E sa anche che un altro tema a lui caro è la passione travolgente e deviante, che mette in crisi la routine della propria pacifica esistenza convenzionalmente riconosciuta.
L’uno e l’altro tema ricorrono anche in questo libro, al quale però si aggiunge un ulteriore tassello, che è l’unico punto su cui voglio soffermarmi, e cioè la “colpevolezza” del soggetto.
Questo è l’unico caso, dei libri letti finora, in cui il protagonista dichiara esplicitamente e direi quasi spudoratamente non solo la propria effettiva colpevolezza, ma anche l’aggravante della premeditazione. Anzi, a pensarci bene ciò che il dottor Charles tenta di far comprendere al suo giudice sono proprio le motivazioni profonde di questa colpevolezza... è come se il personaggio dicesse: “ok , voi mi avete giudicato, ma a me non basta... voi, anzi lei, signor giudice, deve capire perché l’ho fatto e perché era giusto e logico che lo facessi”.
Ecco, dal mio personale punto di vista, non c’è nulla di più affascinante che farsi trascinare così passivamente da una personalità (letteraria) forte, che ci “conduce” dove, come e nei tempi che vuole. Senza rovinarvi il gusto della sorpresa, sottolineo solo che la bellezza di questo romanzo è proprio nel modo in cui il protagonista si svela a poco a poco e quindi, di pari passo, nel modo in cui noi lo percepiamo. All’inizio sappiamo poco o nulla di lui: di cosa è accusato? Ha commesso per davvero il crimine per cui è imputato o lo hanno incastrato? È un debole che si lascerà andare, come hanno fatto alcuni suoi fratelli letterari?
Man mano che la lettura procede, però, il carattere di Alavoine emerge, si definisce in modo sempre più preciso e “solido”; direi quasi che la sua figura diventa sempre più “ingombrante”. Proviamo forse ancora un po’ di pena per lui quando ci racconta la metafora dell’uomo senza ombra (un passaggio molto bello, che non dimenticherete facilmente), ma questa nostra compassione, questa spontanea “simpatia” iniziale vacilla sempre di più: il sospetto di essere stati “ingannati” (da Alavoine? da Simenon stesso?) ci sfiora e le nostra “sicurezza” viene meno...
Preparatevi a intraprendere un viaggio inquietante nella psiche di un uomo che in fin dei conti, per come si presenta all’inizio, non è così diverso da tanti di noi: un uomo che si è lasciato vivere per troppi anni e che, quando ha finalmente deciso di riprendere la propria vita in mano, lo ha fatto senza più porsi alcun limite, fino alle estreme conseguenze.
 
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estersable88

dreamer member
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Ho letto Lettera al mio giudice nell'arco di un pomeriggio, ma sono certa che qualcosa di queste pagine mi resterà in mente per sempre: è un libro sconvolgente per lucidità, stile, fluidità, eleganza. Simenon ha saputo dar voce ad un uomo, un medico di provincia, un innamorato, un frustrato, un assassino con una perizia da maestro. La lucidità con cui il dottor Charles Alavoine scrive al suo giudice dal carcere in cui è chiuso dopo la condanna per omicidio è folgorante: egli non gli scrive per discolparsi, no, tanto più che si era già dichiarato colpevole a suo tempo. Egli non scrive per scusarsi, invocare una pena più leggera… tutt'altro: di una sola cosa egli non è soddisfatto, un solo verdetto egli non accetta, quello di essere considerato in uno stato psichico di ridotta lucidità. Non vuole che si pensi che abbia agito in preda ad un raptus, non vuole che si creda che quando ha ucciso Martine, l'unica donna che abbia mai veramente amato, egli fosse in preda alla follia, che non comprendesse ciò che faceva… non vuole che si dica che era pazzo. No, egli vuole che il giudice capisca, che colui in cui ha visto un barlume di interesse durante l'istruttoria, che colui che davvero ha cercato di comprendere le sue ragioni, che colui con cui ha pensato di essere in un certo qual modo in sintonia, che lui comprendesse cosa l'aveva portato ad un amore così grande. Vuole, Charles, che il giudice capisca che lui sì, ha agito con glaciale, assoluta premeditazione e che sì, c'era una ragione più che valida per uccidere… l'amore. Per amore di Martine lui doveva ucciderla. E fidatevi, se prese così, senza contesto, queste parole vi sembrano folli, assurde, senza logica, a fine lettura non potrete non trovarvi d'accordo con lui. Quest'uomo non chiede pietà, ma la suscita; non chiede assoluzione, ma, ascoltate le sue parole, chi non gliela darebbe? Ho trovato questa lettera di un'angoscia, sincerità, lucida follia, prostrazione come di rado ne ho viste o lette altrove. Mi ha commosso. Mi sento, perciò, oltre a consigliare la lettura di questo libro, di definirlo senza remore un capolavoro.
 

Grantenca

Well-known member
Cambiano le ambientazioni, i personaggi, le trame, la psicologia dei personaggi, le considerazioni di fondo, cambia tutto nelle opere di questo eclettico autore. L’unica cosa che non cambia è il profondo interesse che suscita in me la lettura dei suoi libri, tanto da farmi sempre pensare che l’ultimo libro che ho letto sia il migliore, anche se probabilmente non è così.
E’ la lucida, minuziosa e spietata confessione di un assassino al suo giudice. E’ un medico condotto che non cerca giustificazioni al suo delitto, ma descrive, senza falsi pudori, tutta la sua vita e le situazioni che lo hanno condotto sul banco degli imputati.
Si è fatto da solo, forse nei primi tempi con l’aiuto della madre, ma con la grande dedizione al lavoro e molti sacrifici ha raggiunto una solida posizione, lui che era partito da zero, dal momento che il padre aveva speso tutta la sua vita a dissipare il patrimonio di famiglia.
E’ una persona stimata e le convenzioni sociali lo hanno portato a farsi una famiglia anche se il matrimonio con la figlia del medico da cui ha rilevato l’attività non era proprio un matrimonio d’amore ma più dovuto alle convenzioni sociali e ai discreti consigli della madre. La moglie, timidissima e mansueta che ha sempre lasciato il governo della casa alla suocera, non sopravvive alla nascita della seconda figlia e lui si ritrova vedovo con due figlie da crescere.
Si rende conto di non poter star da solo e l’incontro con una affascinante vedova, intelligente e volitiva , da tutti stimata per le assidue cure al marito scomparso, è l’occasione, per convergenza di interessi, per un secondo matrimonio. Non c’è amore però, né attrazione fisica. Ciò nonostante egli è un uomo invidiato per questo matrimonio, pur se solo la moglie raggiunge il fine prefissato e quasi quasi, ad un certo momento anche lui pensa di essere un uomo quasi felice pur rendendosi conto che la sua vita è governata da altri.
Ma è un illusione, perché è un uomo sempre più solo, avarissimo di sentimenti, tanto che, per sottolineare questo suo stato, si descrive come un uomo privo anche della sua ombra!
Poi, improvvisamente, l’amore. Più che l’amore la passione, violentissima, che scoppia senza preavviso quasi come l’eruzione di un vulcano troppo a lungo dormiente e che distrugge tutto quello che le sta intorno. E’ però un sentimento malato, pesantemente condizionato dalla vita precedente dei due protagonisti. Egli è assillato da una gelosia patologica che lo fa soffrire ogni minuto che è lontano da lei , e più che gelosia è volontà di possesso della controparte, come un giocattolo amato per un bambino. Vorrebbe possedere anche la vita precedente di lei, il che, naturalmente, è impossibile. Purtuttavia egli si rende conto che solo questi sono i momenti in cui ha veramente “vissuto”. Cosa dire inoltre? Una cosa sola. E’ un libro da leggere, assolutamente.
 

Ondine

Logopedista nei sogni
Si può definire questa lettera un percorso che porta il protagonista alla consapevolezza dell’amore, della sessualità e dell’infelicità umana. Il protagonista è un medico che è stato appena condannato perché ha ucciso una donna e scrive al suo giudice, vede in questo giudice un suo doppio. Il medico viene da una famiglia contadina, da un’origine umile, con un padre prepotente, una madre sin troppo presente e speranzosa che lo controlla continuamente e arriva a fare il medico non per vocazione ma per compiacere gli altri, come anche quando si sposa prima con una ragazzina insignificante, sottomessa e timida per cui non prova alcunché e poi con una donna perfetta, troppo perfetta, interessata alla forma. Tutto questo lo fa sentire un uomo vuoto, senza ombra (bellissimo il passo del romanzo in cui descrive questa sensazione!) quando una notte improvvisamente in stazione incontra una donna fragile, dissipata, e i due diventano amanti e passano la notte insieme in un’atmosfera di pioggia e ubriachezza. Il medico si innamora di questa donna e riesce a farla entrare nella sua casa come assistente del suo studio e a poco a poco il medico trasformerà il suo amore per questa donna in ossessione perché comincerà ad essere geloso, anche del suo passato. L’uomo in realtà non si innamora della Martine conosciuta in stazione ma si innamora di una donna che non esiste o che forse non esiste più: innocente, purissima, bisognosa di un uomo che la accudisca e la salvi dal mondo malvagio. Quando la moglie scoprirà il tradimento, Charles riuscirà ad andar via di casa e ad essere finalmente felice. Si tratta tuttavia di una felicità sofferente che culmina nel momento in cui egli, sempre più nitidamente, comprende che quella Martine dissoluta ed odiosa, non sua, ma di tutti, continuerà sempre a fare parte della donna che ama, così che i suoi fantasmi riaffiorano prepotentemente.
Charles non vuole attenuanti, né giustificazioni, né tantomeno risultare infermo: anzi giudica terribile tutto questo. Il processo non è per lui che è una commedia, egli desidera solo che il suo gesto sia compreso, giuridicamente e psicologicamente.
Le atmosfere sono importantissime: le stanze d’albergo, i bar, la pioggia rivelano un’anima allo stesso modo dei personaggi.
 
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