Harrer, Heinrich - Sette anni nel Tibet

ayuthaya

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Ho deciso di leggere questo libro, come si può facilmente immaginare, dopo essere stata conquistata dallo splendido film che ne è stato tratto e che, ora che ci penso, avevo guardato prima di vedere, con i miei propri occhi, il Tibet, Lhasa, il Potala...

Eh già... perchè non riesco davvero a separare le sensazioni che mi ha suscitato la lettura di questo libro da quelle che ho provato nel viaggio di soli sette giorni (un giorno per un anno! i cinesi concedono molto difficilmente il visto per il Tibet e lo fanno solo con l’acquisto di un “pacchetto” preconfezionato...) nel lontano 2007. Per questo il mio commento su questo libro sarà ben poco obiettivo e rischierà di confondersi con i miei ricordi, con le emozioni che ancora mi suscita il solo sentir parlare di questo Paese...

La considerazione più ovvia e banale, nonchè il primo pensiero chi mi è balenato in testa mentre scorrevo le pagine tra le dita, è che ben diverso rispetto al mio, e a qualunque altro viaggio si possa organizzare al giorno d’oggi in Tibet, è stato quello che ha affrontato Heinrich Harrer, in fuga da un campo di prigionia indiano nel 1939... Come ricorderà chi ha visto il film, Harrer, alpinista austriaco chiamato a partecipare a una spedizione sul Nanga Parbat, si trova ancora in terra indiana quando viene dichiarato lo scoppio della seconda guerra mondiale: riconosciuto quindi nemico, viene imprigionato nel duro campo di Dehra Dun, ai piedi dell’Himalaya.
Vi assicuro che leggere questo libro sapendo che si tratta di una storia vera è qualcosa di assolutamente sconcertante: i pericoli e le estreme difficoltà che hanno dovuto superare il protagonista e il suo compagno di prigionia e poi di avventura, il connazionale Aufschnaiter, prima di arrivare a Lhasa – la “città santa”, la città nella quale nessun europeo aveva mai messo piede fino a quel momento – rendono il coronamento del loro sogno, nel gennaio del 1946, un evento che ha del miracoloso.

C’è da dire che, rispetto al film (non posso fare a meno di confrontare questo libro al film, così come ai ricordi del mio viaggio), il racconto dei lunghi mesi che precedono l’ingresso in Tibet, e poi a Lhasa, è molto ampio, mentre al contrario la straordinaria amicizia del protagonista con il Dalai Lama occupa uno spazio decisamente più ridotto (solo pochi mesi e di conseguenza poche decine di pagine) e magari la parte che precede l'arrivo a Lhasa per chi non è appassionato dell'argomento può risultare un po’ pesante... Lo stile, sobrio e asciutto, è secondo me il pregio e il difetto di questo libro, che non vuole commuovere il lettore nè celebrare le imprese del suo autore, ma restituire la testimonianza fedele di un viaggio e soprattutto di una realtà che oggi non esiste più, che già pochi anni dopo l’arrivo di Harrer e Aufschnaiter aveva smesso di esistere.
Sì, perchè il Tibet di adesso, anzi, la “Provincia Autonoma del Tibet”, in Cina, è qualcosa non solo di diverso, ma di totalmente estraneo a ciò che era il Tibet fino al 1950. E i due protagonisti di questo romanzo sono stati non solo i primi europei ad aver raggiunto la “città santa” ma anche gli ultimi ad aver visto coi propri occhi un mondo che – da tutti i punti di vista: amministrativo, politico, religioso, sociale – di fatto oggi non esiste più. Quello che ancora esiste sono uomini, donne e bambini che portano, nel proprio volto bruciato dal sole, dal vento e dal gelo, i segni di una civiltà millenaria; quello che ancora esiste sono le grandi lastre di pietra del Barkhor, la strada ad anello che gira intorno allo spettacolare tempio di Jokhang, rese “lucenti come specchi e piene di avvallamenti creati dalla millenaria prostrazione dei fedeli che rendono omaggio agli dei” e “misurano, stendendosi a terra e rialzandosi, il tratto che percorrono”... Quello che ancora esiste sono le lampade al burro di yak che bruciano nelle buie sale del Potala, il quale però, da quando è stato trasformato nel “memorale” di ciò che fu, in un freddo “museo”, è ancora più triste di come ce lo descrive Harrer nel suo libro, quando racconta che il XIV Dalai Lama non vedeva l’ora di raggiungere la sua più ridente residenza estiva.

Insomma, al di là della mia personale esperienza e di quanto le pagine lette mi abbiano commossa, questo libro resta una testimonianza eccezionale (per quanto meno “scenografica” del film) di una civiltà che ha lottato e ancora lotta con tutte le proprie forze per preservare la sua identità.
Le ultime pagine del romanzo sono un resoconto estremamente doloroso di quello che è accaduto in Tibet dal 1950 in poi, una storia che purtroppo, come spesso accade, abbiamo dimenticato troppo presto... E come ricordo il mio viaggio in Tibet un’esperienza meravigliosa e insieme molto triste, anche questo libro è insieme bellissimo e triste perchè, come recita una dedica del Dalai Lama stesso al suo amico Harrer, raccontando "persone e scene nelle diverse situazioni della vita" quando il Tibet era un paese libero, costituisce “il suo più importante contributo alla nostra causa”.
 
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