VIII Concorso letterario --------- I racconti

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Minerva6

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Di seguito posterò i racconti dei 9 partecipanti a questo nuovo concorso letterario.
Vi chiedo gentilmente di non scrivere nulla in questa discussione prima della chiusura, di avere pazienza (qui da ieri c'è temporale, quindi problema di corrente elettrica che salta e collegamento internet lento) e di leggerli tutti per poi passare alla votazione attraverso una doppia modalità a scelta tra
quella del sondaggio pubblico oppure quella segreta che avverrà con messaggio privato da inviare a me ed elisa (va bene anche un unico mp con doppio destinatario).

I racconti sono:

Cronaca di una morte annunciata di Irrequieto

Il vichingo di Guglielmo da Baskerville

La Dissolvenza di Greta Zani

La gola e la tristezza. Racconto di una consapevolezza di Wasp

Marta guarda la mela di Buffalo Bill

Notte al lago di Mariuccia coi baffi

Rinunce di Oscar

Storia di un povero diavolo di Torquemada

Vuoi fare un giochino? di Jonathan Galando

I partecipanti al concorso sono:
Alessandra
Bouvard
Carcarlo
Estersable88
Francesca
GermanoDalcielo
Malafi
Ondine
Tanny

Qui trovate il sondaggio
https://www.forumlibri.com/forum/showthread.php?t=25820&p=478902#post478902
 
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Minerva6

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CRONACA DI UNA MORTE ANNUNCIATA

Non ricordo con precisione quando realizzai che avevo bisogno di cambiare aria, di cambiare quelli con cui mi rapportavo, di uscire da quella specie di tubo in cui mi ero infilato, di uscire da quel micromondo che ormai mi andava stretto.
Ma sentii che lo dovevo fare, dovevo uscire dal mio ambiente, quello dove ero nato, vissuto ed anche già riprodotto. E scappai. All’inizio feci un po’ di fatica per trovare ed adattarmi ad una nuova casa, ne cambiai diverse, provai a convivere con animali poi con uomini e alla fine trovai il mio ambiente, la mia nuova vita.
Mi feci tanti nuovi amici, tutti come me, eravamo in tanti e sempre di più. Stavamo nelle stesse case in una specie di comunità, ma poi cambiavo spesso, anche perché dopo un po’ vi ero costretto: le case che abitavo un po’ per volta andavano in rovina, si sgretolavano attorno a me e venivano a mancare le funzionalità principali. Un fenomeno che non mi spiegavo.
Ma la tranquillità durò poco: cominciarono a darmi la caccia ovunque andassi, sempre più armati, sempre meglio armati. Squadre speciali. Forse davo fastidio? E allora cambiavo casa continuamente, ma ogni volta era più difficile, perché trovavo la porta d’accesso chiusa, dovevo trovare sempre nuovi pertugi per entrare e poi svignarmela quando mi davano la caccia. Finchè arrivai dove le case erano distanti tra di loro, sempre più distanti e nessuno in giro. Ma non potevo essere io il colpevole. Che stava succedendo?
Non era più il mio ambiente, capii che serviva un’altra svolta radicale: salii a bordo di un aereo e questa volta cambiai addirittura continente.
E ripresi la mia vita di prima, ancora migliore: molto meno diffidenza in giro, grande ospitalità e tanta voglia di divertimento e socialità.
Giravo di casa in casa, libero come l’aria, ma anche qui dopo un po’ fummo da capo. Le case che sceglievo di abitare andavano in rovina, dovevo scappare, di nuovo mi davano la caccia. Tutte le case sprangate, come avvolte da una protezione invalicabile. O quasi. Difficile entrarci, difficile uscire una volta entrati.
Ero stanco, sfiduciato, senza un posto dove stare. Anche i miei amici erano sempre meno, tanti morivano. Decisi allora di andarmene in vacanza, scelsi la Spagna, mare e patria del divertimento. Il mio ambiente preferito, dovevo solo stare attento al sole perché sono molto sensibile.
E lì tornai a nuova vita, tornai diverso e più forte di prima. Le onde del mare mi cullavano. Una prima ondata non mi bastava, ed ecco una seconda ondata, più forte e più profonda della prima che mi rigenerò, mi fece volare, felice e pronto verso il mio rientro alla vita di tutti i giorni.
Da allora ho fatto tanti proseliti, siamo un esercito. Tutti mi seguono, ci moltiplichiamo e le case non sono più sbarrate. Si entra ovunque, si esce e si rientra. E’ la nostra vita.
Ma è durato poco.
Che succede ora? Questa casa sembrava vuota. Era vuota, ne sono certo. Ma ora hanno infilato tra le pareti un grosso tubo d’acciaio che sta riversando in casa truppe scelte che addestrano i corpi speciali già nascosti in casa. Sono tanti, sono armati fino ai denti. E si moltiplicano, sono sempre di più e mi attaccano in massa. Mi vogliono annientare. Ci annienteranno tutti.
Sto aspettando la morte, ormai il mio destino è segnato.
E maledico il giorno in cui decisi di abbandonare la mia dolce e tranquilla casetta, in quella provetta nel laboratorio di Wuhan.

Irrequieto
 

Minerva6

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IL VICHINGO

Qualcuno una volta, con un umorismo tutto inglese, disse che non ci si può considerare vecchi fin quando non si contano su una mano i compagni d’infanzia ancora vivi.
Nina, a novant’anni, può considerarsi vecchia, perché dei suoi compagni non ne resta più nessuno. Nessuno con cui possa ricordare risate e pianti, con cui possa litigare su un colore di capelli, o con cui possa parlare, senza venir presa per pazza, delle sue notti insonni popolate di voci e volti vivi solo nella sua memoria.
Sono le tre e lei è sveglia già da alcune ore. Questa notte non riesce proprio a riaddormentarsi, il suo cuore fa più bizze del solito. Le prime volte, essere svegliata da quei battiti accelerati che sembravano volerle sfondare il petto, la gettava nell’angoscia. Ogni volta allungava la mano per afferrare il cellulare e chiamare uno dei suoi figli perché venisse da lei. Ma appena sentiva il telefono nelle mani si bloccava.
L’assalivano mille dubbi, vedeva i suoi figli precipitarsi da lei in pigiama o con scarpe spaiate. E se fosse successa una disgrazia per colpa di quella sua telefonata? Un incidente d’auto: un semaforo non rispettato, una precedenza non data, l’acceleratore schiacciato un po’ troppo? E se, per colpa sua, uno dei suoi figli fosse morto? Avrebbe dovuto vivere i pochi giorni che ancora le restavano con un peso che non sarebbe riuscita a sopportare.
A questo pensiero la mano ritornava sotto la coperta e la mente si rifugiava in qualche ricordo della giovinezza, o dell’infanzia. E per qualche strana alchimia, ogni volta, quel perdersi in vecchi ricordi riusciva ad imbrigliare anche il suo vecchio cuore scapestrato e a riportarlo ad un’andatura più adatta alla sua età.
Una volta un filosofo disse che “il cuore ha delle leggi che la ragione non comprende”, ma anche la memoria non scherza in quanto a leggi che la ragione non capisce. Ci ricordiamo perfettamente di quando andò in pezzi il quadrante del nostro primo orologio, ma dimentichiamo quasi tutto dei libri che leggiamo, ci ricordiamo l’odore della cannella di un dolce mangiato una sola volta in vita nostra quando avevamo sette anni e non ricordiamo cosa abbiamo mangiato tre giorni fa!
Da svegli, la nostra mente riesce a tenere a bada i ricordi più dolorosi o vergognosi, affinché non turbino la nostra tranquillità, ma di notte non riesce a porgli alcun argine.
La mente di Nina, ultimamente, torna sempre alla primavera del ‘43. In uno scatolone ha ripescato una vecchia foto che non è mai riuscita a strappare. Sono quasi ottant’anni che non la guarda, eppure potrebbe descrivervela in ogni suo particolare. Adesso quando, di notte, il suo cuore fa le bizze le sue mani non cercano più il cellulare, ma quella foto. E il cuore lentamente placa la sua corsa.
Tre ragazzini che si tengono per mano.
Quella al centro è lei. Due grossi fiocchi rossi nei capelli, lo ricorda anche se la foto è in bianco e nero, un prendisole a piccoli fiorellini gialli, passato a lei dopo essere stato di sua sorella e che cominciava ad andarle stretto sul petto, e ai piedi un paio di scarpe nuove, regalo della sua comare per la Cresima.
La ragazzina alla sua destra, con i capelli corti e arruffati e degli occhi così azzurri che quando ti guardava sembrava che il cielo si abbassasse alla tua altezza, è Rachele, detta Lela.
Quello alla sua sinistra, più alto di lei di tutta la testa, è Bruno, il fratello di Lela, più grande di loro di un anno. Il Vichingo voleva essere chiamato, e qualcosa di nordico lo aveva nell’aspetto. Se gli occhi di Lela erano un cielo limpido, sgombro anche della più piccola nube, negli occhi di Bruno l’azzurro era mischiato al grigio, come quando sul mare cala una bruma nordica.
Sono giorni che Nina guarda la foto senza riuscire però a guardare quel volto non ancora adulto, ma non più bambino. Si ostina a guardare solo Lela e se stessa, e quando si accorge che non può trattenere ancora a lungo il desiderio di guardare anche Bruno mette via in fretta la foto, in un cassetto, in un libro, o fra i panni da piegare. Riuscirà mai a guardarlo di nuovo senza che la tristezza le mozzi il fiato?
Li aveva conosciuti nel Marzo del ‘43. Lela e Bruno, insieme alla loro mamma, erano venuti a vivere dalla nonna lì, nel quartiere San Lorenzo. Il padre era al fronte, se vivo o morto nessuno sapeva dirlo. Quel “sto bene e lo stesso spero di voi” che si leggeva nelle lettere era ogni volta vecchio di almeno due mesi, e nel frattempo chissà cos’era successo. L’arrivo di una nuova lettera ti toglieva da quell’incertezza per ributtartici di nuovo appena finito di leggerla.
I bambini non sono formali e per fare conoscenza non hanno mai bisogno di tante cerimonie. Così tra una tirata di capelli e un lancio di trottola era nata la loro amicizia. In poco tempo erano diventati inseparabili. Gli altri bambini, un po’ per burla un po’ per invidia, avevano subito iniziato a chiamarli i tre moschettieri. A Bruno quel nome non piaceva e si arrabbiava, perché lui era il Vichingo. Poi però si abituò e fu felice di essere anche uno dei tre moschettieri.
Con il passare delle settimane le sirene suonavano sempre più spesso e ogni volta bisognava correre a nascondersi nella cantina. Quelli che si vantavano di saperne più degli altri dicevano che gli Alleati non avrebbero mai avuto il coraggio di bombardare Roma, non si capiva bene se per i monumenti o perché c’era il Papa. Però quando suonavano le sirene anche loro correvano a nascondersi in cantina.
Nina, Lela e Bruno erano sempre insieme anche lì, Bruno si sedeva in mezzo in modo da tenere entrambe per mano. E così lentamente quell’innocente gesto infantile di protezione si trasformò in qualcosa di più grande e complicato. Ancora troppo piccoli per capire quello che stava succedendo in loro, Nina e Bruno restavano ogni volta sorpresi e storditi da quel calore che passava dalla mano di uno a quella dell’altro quando si sfioravano. E come un sasso gettato in uno stagno forma dei cerchi che si allargano sempre più, così quel calore partiva dalla mano per risvegliare ogni muscolo, ogni fibra dei loro giovani corpi. I due ragazzini allora si guardavano con un misto di incredulità, gioia e ansia. E se qualcuno avesse scoperto quella loro piccola felicità?
Ormai Nina non era più angosciata dal suono delle sirene, fin quando la mano di Bruno avesse tenuto la sua non le sarebbe potuto succedere niente di brutto. Il calore di quella mano riusciva a calmarla, nonostante le facesse battere il cuore all’impazzata. A volte le batteva così forte che si domandava come facesse la sorella, seduta vicino a lei, a non sentirlo.
Finì la primavera e arrivò l’estate ed andarono tutti insieme al mare ad Ostia. Fu una giornata così bella da fargli dimenticare persino la guerra. Una giornata che meritò una foto. Non sapevano ancora che sarebbe stato l’ultimo giorno di felicità insieme. Perché alla fine, Papa o non Papa, monumenti o non monumenti, il 19 Luglio gli Alleati bombardarono Roma.
A sentire la sirena suonare Nina, la sorella e la madre scesero subito in cantina. Nina era certa di trovarci già Bruno e Lela ad aspettarla. Invece non c’erano ancora. Allora si sedette al loro solito posto guardando in continuazione quegli scalini da cui si aspettava di veder scendere da un momento all’altro i suoi amici. I minuti passavano, altra gente arrivava, ma Bruno e la sua famiglia non si vedevano.
L’agitazione di Nina cresceva di minuto in minuto e a nulla servivano le rassicurazioni della madre, della sorella e della signora Ranucci che abitava proprio di fronte a Lela e Bruno. Questa andava ripetendo di averli lasciati poco prima sul pianerottolo del loro piano, stavano aspettando che la madre tornasse a casa per scendere subito in cantina con lei, il loro arrivo ormai era solo questione di minuti. Ma i minuti passavano e loro non si vedevano.
Il rombo degli aerei si fece sempre più vicino. E questa volta fu diverso. Gli aerei non sorvolarono la città per andare a sganciare le loro bombe chissà dove. Quel giorno sulla macabra roulette del destino era uscito il nome: “Quartiere San Lorenzo, Roma”. E le bombe caddero lì. Si sentirono i palazzi crollare, un odore acre di fumo penetrò fin nella cantina, per qualche secondo ci fu un silenzio irreale, come se il tempo si fosse bloccato, ma fu solo l’illusione di un attimo, a spezzarla arrivò una babilonia di grida, pianti e urla.
Bruno e Lela non scesero mai.
La guerra finalmente finì, ma una parte di Nina era ormai persa per sempre. Gli anni passarono, conobbe suo marito, si sposò, ebbe tre figli, due maschi e una femmina, divenne nonna e adesso era anche bisnonna. Si era imposta, con tutte le sue forze, di essere felice nonostante tutto, e c’era riuscita, perché continuare a vivere ed essere felice era l’unico regalo che potesse fare al suo Bruno. Aveva vissuto la sua vita anche per lui. E anche per Lela.
Quando il cuore ricominciò con le sue bizze Nina allungò la mano verso la foto. E questa volta il suo sguardo andò direttamente sul Vichingo. Qualcosa di caldo strinse la sua mano. Poi tutto fu tranquillità. Pace. Finalmente.

Guglielmo da Baskerville
 

Minerva6

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LA DISSOLVENZA

Sono stanco, sfinito direi. Sono le 21.32 del 12 Dicembre 2073.
Scrivo queste righe senza essere per niente sicuro che riuscirò a portarle a termine.
Penso che mi dissolverò presto, forse fra mezz’ora, forse fra tre, quattro giorni, ma ormai il mio momento è arrivato. Impossibile dormire con un pensiero simile, infatti da quando mi sono licenziato ho dormito pochissimo. Vivo queste mie ultime ore circondato da ricordi, pochissimi belli e dolci, la maggior parte invece angoscianti e orribili.
Scrivo per ingannare il tempo, ripercorrendo la mia vita e chiedendomi come sia possibile che sia arrivato all’età di 79 anni. Siamo così pochi a riuscirci. Ma ora non vedo l’ora di dissolvermi, raggiungere mia moglie Laura, ovunque ella sia, anche nel nulla cosmico, nell’oblio, almeno avrò il riposo che ormai non ho più da decenni.
Ricordo come fosse ieri quando la nostra vita è cambiata improvvisamente, dalla mattina alla sera.
Quel giorno nessuno se lo potrà mai scordare.

Era il 15 Ottobre 2020 ed eravamo in piena pandemia da Sars Covid-19.
Vivevamo fra paure, speranze, restrizioni e parziali allentamenti, in attesa del vaccino che sembrava sarebbe arrivato da lì a poco. Non potevamo certo immaginare che quel giorno le nostre priorità sarebbero cambiate perentoriamente e il Covid sarebbe diventato un problema minimo nella vita di tutti i giorni, fino a sparire del tutto.
Quel giorno ero andato a lavoro come sempre. Lavoravo in un’azienda di prodotti dolciari. Un lavoro tranquillo, con turni, nel reparto di produzione di biscotti. Mia moglie era cassiera in un grande supermercato. Avevamo una splendida bambina di quattro anni, Greta, e con Laura, stavamo pensando di mettere in cantiere un fratellino o sorellina.
Per gestire nostra figlia cercavamo di alternarci con i turni e quando non era possibile, i genitori di Laura, due settantenni in gamba, ci aiutavano.
Quel 15 Ottobre era uno di quei giorni in cui non potevamo andare a prendere Greta a scuola. Nonostante la pandemia, non potevamo evitare di sfruttare l’aiuto dei nonni, ma cercavamo di ridurre al minimo i contatti: Greta non vedeva nessun altro tranne loro e noi, sperando che a scuola le misure di sicurezza funzionassero davvero.
Ero appena rientrato in produzione dopo l’intervallo del pomeriggio, quando il mio cellulare suonò.
“Pronto signor Zani? C’è qui sua figlia, sono già le quattro e mezzo e non è venuto nessuno a prenderla. A dir la verità oggi ci deve essere lo sciopero dei nonni” disse allegra la segretaria della scuola di Greta “perché ho diversi bimbi lasciati qui”.
Risposi che sarei arrivato subito, presi un’ora di permesso e uscii, mentre cercavo di contattare i miei suoceri. Sapevo che mia moglie era alla cassa a quell’ora e non poteva rispondere. Ma i miei suoceri erano introvabili; la cosa più preoccupante era che entrambi i loro cellulari davano lo stesso messaggio: “Il numero che hai composto è inesistente”.
Mi allarmai quasi subito, mi sembrava molto strano.
Recuperai Greta che sembrava felice di vedermi al posto del nonno Carlo e prima di tornare a casa passai dai miei suoceri, aprendo con la chiave di riserva. La casa era vuota e silenziosa, tutto a posto, nessun segno che facesse pensare a qualcosa di diverso dal solito; nessuna traccia dei miei suoceri.
Avrei potuto pensare ad uno scherzo, ma non erano tipi da scherzi.
Tornai a casa sempre più perplesso, stavo quasi pensando di fare un salto al supermercato di Laura, ma Greta aveva fame, quindi decisi prima di farle fare merenda.
Avevo appena preparato il latte con i biscotti e messo mia figlia alla tv in soggiorno a vedere il suo cartone preferito, quando mi chiamò Laura allarmata: “Tommy, dove sono i miei? Dov’è Greta?”.
Appena le dissi che ero andato a prendere Greta a scuola e non avevo notizie dei suoi, si mise a gridare, piangendo: “allora è vero, allora è vero…” non riuscivo a calmarla né a capire.
Intanto in modo quasi automatico avevo acceso la tv in cucina, e mentre mia moglie piangeva convulsamente al telefono, notai che le maggiori reti nazionali e private stavano dando un’edizione straordinaria del telegiornale. Alzai il volume, dicendo a Laura: “aspetta, aspetta, zitta un attimo”.

“Dalle nove di stamani si hanno segnalazioni di persone anziane scomparse”.

Iniziò così.

Nel giro di una settimana la maggior parte delle persone sopra i sessant’anni scomparve dalla faccia della terra.
Dopo i pensionati, successivamente scomparvero tutte le persone con handicap grave. Sparivano così, da un secondo all’altro, senza lasciare nessun segno, si dissolvevano nel nulla.
All’inizio qualcuno se ne rallegrò. Qualche folle pensò che si stava finalmente avverando il sogno di un’umanità forte, gagliarda, purificata da elementi deboli e tarati.
Ma la realtà era ben più orribile.
Perché iniziarono a sparire anche disoccupati, universitari fuori corso, senzatetto, mendicanti.
Nel giro di qualche mese fu chiaro il criterio: semplicemente stavano sparendo le persone improduttive.
Considerate “improduttive” da chi e perché non siamo mai riusciti a scoprirlo. Come non siamo riusciti, almeno finora, a capire che fine fanno le persone che si dissolvono.

Nel 2031 iniziarono a dissolversi anche alcuni animali domestici: sparirono tutti i cani, la maggior parte dei gatti, criceti e uccellini in gabbia, pesci negli acquari; appena fu chiaro che si dissolveva tutto ciò che non faceva parte di una catena alimentare, presi i miei due gatti e li abbandonai in campagna.
Nel Trentatré, nel giro di pochi giorni sparì tutto il clero cattolico e i sacerdoti di qualsiasi altra religione.
Fu così che iniziò a diffondersi il culto della dea Produttività che ormai è la nuova religione mondiale. Senza sacerdoti però, perché chiunque ha provato a dichiararsi sacerdote di questo nuovo culto si è dissolto nel giro di pochi giorni. Così ci sono volenterosi che mandano avanti questa nuova religione nel tempo libero. Ogni domenica ci sono cerimonie in onore di Produttività: durante queste cerimonie, vengono sacrificati essere umani considerati improduttivi, prima che si dissolvano, nella speranza di ingraziarsi i favori di una dea crudele e implacabile.
La follia si è impossessata dei nostri giorni.
Mia figlia e il suo compagno hanno deciso di non avere figli, e così molte altre coppie, il mondo è diventato una landa desolata, un luogo orribile e arido, nel quale le persone si aggirano come lupi famelici in cerca di qualsiasi lavoro, pagato anche con un tozzo di pane al giorno, pur di potersi sentire “produttivi” e di sperare di non dissolversi in pochi secondi.
La Dissolvenza ha preso il posto della Morte, perché ormai muoiono poche persone, solo quelle che si suicidano perché non ce la fanno più e qualcuno che muore in qualche incidente. Le persone che si ammalano e non guariscono si dissolvono in massimo un paio di mesi.
A causa dello spopolamento molte città sono ormai abbandonate. La popolazione si è ridotta a poche centinaia di milioni di unità. E nonostante ciò, nonostante ci sia abbondanza di risorse, la maggior parte soffre la fame e vive in condizioni quasi di schiavitù; i più forti si sono accaparrati quasi tutte le ricchezze disponibili, ogni forma di stato è saltata, il mondo si è diviso in due parti: chi dà lavoro e chi lo cerca. Tutto il potere e la ricchezza è in mano a chi dà il lavoro. Ma si stanno già notando dei cambiamenti. La popolazione è così ridotta, le persone che possono permettersi di accedere a quello che viene prodotto sono così poche, che molte attività stanno scomparendo perché sono improduttive. Credo che ormai siamo molto vicini ad un punto di non ritorno e ci estingueremo presto, nel giro di qualche decennio.

Non so come ho fatto ad andare avanti per così tanto tempo.
Ho visto dissolversi mia moglie, quando il supermercato l’ha licenziata nel 2060, perché troppo vecchia.
La mia fabbrica di biscotti ha continuato a funzionare, ma negli ultimi anni ci pagava a biscotti, e sono sopravvissuto con qualche risparmio. Avrei voluto essere più coraggioso e farla finita prima. Ma sono un tipo curioso, in fondo fra Dissolvenza e Morte non ci sarà molta differenza: dissolversi mi sembra molto più asettico e pulito di morire.
Quindi
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Comunicazione all’ufficio per la Dissolvenza dei familiari.
Io Greta Zani dichiaro che mio padre Tommaso Zani si è dissolto nella notte fra il 12 e il 13 Dicembre del 2073.

Greta Zani
 
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LA GOLA E LA TRISTEZZA.
RACCONTO DI UNA CONSAPEVOLEZZA



"Pensavo tanto che mi faceva male la gola, perché è lì che si fermano le tristezze".
È questa la frase che mi ha folgorata poco fa, in un'uggiosa domenica mattina di novembre, mentre scorrevo la home di Facebook rimuginando sui progetti, le occasioni mancate, le nuove cattiverie che vedo scorrermi davanti ogni giorno. L'ho letta, quella frase, e mi si è conficcata nel cervello, tanto che ho dovuto tornare a leggerla più volte… mi sembrava troppo vera per essere reale, perché qualcuno l'avesse scritta davvero. E intanto si è aperto il rubinetto dei ricordi che, perché scorrendo non brucino troppo, tengo sempre impostato alla temperatura di equilibrio con la consapevolezza. E così ho ricordato e sono diventata consapevole.
Ho ricordato tutte le tristezze, piccole e grandi, che ho vissuto e visto vivere ogni giorno. Ho ricordato tutte le volte che mi giunge la notizia di aver fallito una prova, le volte che scopro che qualcuno mi ha mentito, che qualcosa non è andato come speravo, quelle in cui ricevo la notizia di una perdita… quelle in cui vedo qualcuno accanirsi senza motivo su qualcun altro… Ho capito perché ogni volta che canto fra voci che mi respingono ho puntualmente mal di gola… finora l'avevo associato all'ansia da "prestazione", ma forse era il corpo che si ribellava a ciò che, nella mia testardaggine, non volevo razionalizzare… e mi sono accorta che è vero, istintivamente mi si chiude la gola, con dolore, come se il corpo non volesse ricevere quello che la testa ha recepito e si opponesse all'accettazione/interiorizzazione della mente. E poi ho fatto due scoperte sconvolgenti: la prima è che il mio corpo sa difendersi e preservarsi molto meglio di quanto credesse di saper fare il mio cervello, giacché dopo ogni botta di tristezza l'istinto è di buttar giù un sorso d'acqua o – meglio – qualcosa di caldo e ristoratore. Lo faccio spesso, di solito di sera, prima di addormentarmi, per archiviare la giornata, ma di recente anche di pomeriggio… una dose di coccole e calore non basta, evidentemente. L'ho sempre fatto, ma mai consapevolmente.
La seconda è che… mi sbagliavo, mi conosco meno di quanto credessi: credevo di aver imparato a scrollarmi di dosso le tristezze, le ansie, gli accadimenti negativi, invece ho scoperto che vanno a finire in quel punto in cui la gola si chiude, proprio lì dove qualcosa di anomalo sta crescendo sensibilmente. Era da un po' che lo sentivo premere sulle corde vocali facendomi venir meno la voce e la forza di parlare, cantare, urlare… lo sentivo ostacolare i liquidi, ne sentivo il dolore palpandomi il collo… "Ecografia! Cura! Ago aspirato", ha decretato un mese fa l'endocrinologa.
Vorrei dirle che no, che forse non c'è bisogno, che forse mi serve altro, una lavanda gastrica, un'isola deserta… Vorrei dirle che non serve più l'ecografia, perché ora so cos'è, è l'accumulo di ciò che ancora non ho digerito, assorbito, metabolizzato. È l'ultima, strenua, difesa che il corpo oppone alla mente. È l'allarme antidistruzione, il sibilo prima dell'esplosione, l'avvisaglia che la diga sta per cedere.
Soluzioni al momento non ne ho, però anche la consapevolezza è importante… è il primo passo verso il miglioramento. O no?
La frase, a proposito, era di Stefano Benni, uno dei tanti scrittori che mi chiamano e che mi ostino a non leggere. Che sia, anche questa, una forma di difesa?

Wasp
 

Minerva6

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MARTA GUARDA LA MELA

Oggi - Marta guarda la mela. La rigira tra le dita, tastandone la consistenza molliccia. Esplora con i polpastrelli quei leggeri solchi grinzosi e pensa alle piccole rughe intorno alle labbra della mamma. Si notano soprattutto quando mette il rossetto. Ripone la mela nella fruttiera e sgattaiola fuori dalla cucina, inseguita da quella voce stanca.
«Marta, per favore. Mangia la frutta.» Marta sa che la mamma non insisterà, non ne ha il tempo. Ha già preso il cappotto e la borsa. E ha messo il rossetto. Rosa.
«Ciao, amore. Mi prometti che stasera a cena la mangerai tutta intera?» Lo sguardo si ferma qualche secondo sul viso della bambina, per poi puntare deciso verso l’uscita. Marta abbassa gli occhi e accenna di sì col capo. I riccioli saltellano su e giù, come allegre cavallette gialle.
La mamma si affaccia alla porta della stanza accanto.
«Ciao, Giovanni! Mi raccomando, i compiti!» Continua a rivolgersi a lui come prima. Come quando aveva la voce. Marta non se la ricorda nemmeno più, la voce di Giovanni.
La pasta al sugo va su e giù, cercando la via verso il piccolo stomaco. Quando sente sbattere il portoncino, sospira sollevata. Sparecchiare la tavola e raccogliere le briciole è suo compito, ma oggi ha cose più importanti da fare. Ci penserà il papà, al suo ritorno. Dopo averla rimproverata con affetto, come sempre.
Attraversa veloce il corridoio, entra nella sua stanza e chiude la porta. Fuori dalla finestra, una nuvola biancogrigia passeggia sui tetti. Marta prende dal cassetto la chiave del baule, quello dove c’è anche Morgana. Il cuore sembra balzarle fuori dal petto mentre infila la chiave nella serratura. In bocca sente un sapore strano, come quella volta che aveva l’influenza e il papà l’aveva costretta a bere quella schifosa medicina verde. La bambola è sdraiata supina in cima al baule. Marta la prende in braccio e le accarezza i capelli stopposi. Poi la scuote leggermente, osservando le lunghe ciglia immobili sopra i tondi occhi color nutella. Quando ha dubbi sul da farsi, è a Morgana che si rivolge. Tra loro c’è un tacito accordo: se, quando Marta la scuote, la bambola sbatte le palpebre una volta, vuol dire “sì, fallo”. Come quel giorno in cui aveva litigato con Sara e la mattina dopo, a scuola, le aveva regalato un pacchetto di M&M’s e così avevano fatto pace. Se invece i battiti sono due, vuol dire “sì, ma con cautela”. Se sono tre, è un “no” deciso. Ma ora le palpebre non si sono mosse. Non era mai successo prima.
D’un tratto la nuvola si allontana e un raggio di luce illumina timidamente l’occhio destro della bambola. Marta la scuote ancora, anche se non sa se valga farlo due volte. Un lieve battito. Poi, quasi impercettibile, un altro.
La mano della bambina si avventura ansiosa in fondo al baule, si spinge fin sotto la foto di Harry Potter e il cioccolatino a forma di cuore che le ha regalato il suo compagno Matteo e, finalmente, trova il foglio.
Ieri - Marta è nascosta dentro l’armadio. Felici, le dita danzano sui tasti del telefonino della mamma, che adesso è sotto la doccia. La mamma e il papà non le permettono di usare il cellulare. Per non parlare del computer, sempre chiuso a chiave. Solo per le ricerche e con un adulto vicino! Sei troppo piccola, le dicono. Che noia! Adora quel gioco in cui bisogna sparare le caramelle colorate. E sta diventando brava. Livello raggiunto, evviva!
Plin. 1 messaggio ricevuto. A Marta l’avviso dà fastidio, non le consente di vedere bene le caramelle. Deve essere la zia Silvia, o la dottoressa di Giovanni. Clicca sulla scritta per vedere meglio lo schermo, e invece le caramelle scompaiono del tutto e al loro posto appare la foto di un uomo che Marta non conosce. L'uomo ha pochi capelli, ma in compenso ha una barba lunghissima, rossiccia. In alto compare un nome strano, che inizia con la S e finisce con la Y. Sembra il nome di un personaggio dei cartoni. In effetti, anche l’uomo sembra un personaggio dei cartoni. Nella foto c’è anche un bambino piccolo, il cui viso è contratto in una smorfia capricciosa. Ma che cosa c'entrano questi due con la mamma? Marta ha nove in inglese e sa che molte parole, e anche molti nomi di persona, finiscono con la Y. E sa che la mamma sta seguendo un corso di inglese. Magari è qualcuno che studia con lei, ma se il suo nome è inglese vuol dire che è inglese, e allora perché studia l’inglese? Forse è il suo maestro.
Riconosce le parole “I”, “you”, “with”, “my”, “days”, “to”. Sei parole su … quante? Venti? E poi sono lontane tra loro. Marta non ci capisce niente. Non sa perché, ma si sente strana. Come se avesse inghiottito la mela tutta intera, senza masticarla. Forse però c’è un modo per capire. Esce dal nascondiglio e trova un foglio di carta e una penna. Quando torna nell’armadio e inizia a copiare, il rumore dell’acqua che scorreva nella doccia è cessato. Deve sbrigarsi.
Oggi - Marta è nel salotto. Riconosce sull'ultimo ripiano della libreria la copertina bianca e azzurra del vocabolario di Giovanni. Una volta lui le ha detto che lì ci sono tutte, ma proprio tutte le parole in inglese con la traduzione in italiano. Non come nel suo, che è piccolo piccolo. Prova a prendere il dizionario salendo su una sedia, ma non ci arriva. Allora appoggia sulla sedia uno sgabello e ci sale sopra. Lo sgabello balla, in bilico sul sedile. Gesù, ti prego, non farmi cadere proprio adesso. Sollevata sulle punte dei piedi, riesce a toccare con una mano il vocabolario e a spingerne il dorso verso l’esterno, ma si accorge che sta perdendo l’equilibrio, perciò lo lascia cadere sul pavimento. Poi, con cautela, appoggia le mani sullo schienale e scende giù. Ce l’ha fatta! Col cuore in gola, prende il vocabolario e vola in camera sua. Dalla stanza di Giovanni giunge la solita musica assordante. Marta chiude la porta e inizia a cercare le parole. Un enorme ghiacciolo le congela lo stomaco e impedisce alla pastasciutta di scendere. Eppure ha le manine sudate, come quando fa molto caldo. Pensa alla mamma che, negli ultimi tempi, sospira continuamente ed è spesso sdraiata sul letto con gli occhi all’insù o col cellulare in mano. E, quando parla con loro, sembra che pensi ad altro. A lei non piace questa nuova mamma, rivuole quella di prima. Quella che la costringeva a mangiare la mela, e doveva mangiarla in quel momento, se no erano guai. Ha una sensazione che non saprebbe spiegare. Come se un filo invisibile collegasse il comportamento della mamma al messaggio del signore barbuto.
La prima parola è “I”. La seconda è “wish”. “Desiderio, desiderare", dice il dizionario. “Io desiderio” non vuol dire niente e nemmeno “io desiderare”, ma Marta sa che in inglese i verbi non funzionano come in italiano. Forse, quando avrà finito, potrà capirci qualcosa.
Quando ha terminato, la nuvola fuori è scomparsa del tutto e così il raggio di luce che illuminava lo sguardo di Morgana. Marta rilegge quelle parole copiate con grafia tremolante. “Io desiderio/desiderare trascorrere mio/mia/miei giorni con te. Desiderio/desiderare lasciare/partire mia moglie”. Lasciare la moglie? Partire con la moglie? Che cosa c’entra la mamma? Il barbuto vorrebbe forse trasferirsi a casa nostra? Con la moglie o senza? Sì, e magari anche con quel mostriciattolo piagnone, no, grazie!
Ma non è così che vanno le cose, Marta lo sa. Le è capitato di sentire qualche parola dei discorsi dei grandi o dei film in TV. Le persone si possono innamorare di qualcun altro, anche se sono già sposate. Proprio l’altra sera, in televisione, c’era un uomo che prima era seduto a tavola con la moglie e i figli e, poco dopo, baciava un’altra signora. Erano sdraiati sopra un letto e, quando Marta è entrata, la mamma ha cambiato canale in un nanosecondo.
Sente il rumore della chiave nella toppa del portoncino d’ingresso. Svelta, nasconde il vocabolario sotto il letto, getta il foglio in fondo al baule e prende il quaderno di matematica.
La sera, a tavola, la mamma parla in fretta e ride come quando non ne ha voglia.
«Marta, per favore! Mi avevi promesso di mangiare la mela e non mangi neppure la minestra?»
Il papà guarda Marta. Sembra preoccupato. Ha due cerchi scuri sotto gli occhi. Giovanni lascia scivolare il cucchiaio dentro il piatto a brevi intervalli regolari, fissando con occhi vuoti le lancette dell’orologio appeso alla parete. Marta avvicina riluttante il cucchiaio alla bocca. Chiude gli occhi e inghiottisce a fatica. Forse posso farcela, pensa. Non devo dare nell’occhio. Un cucchiaio. Due. Tre. Riesce a mandarne giù un bel po’, più della metà. Poi si arrende, nauseata.
«Va bene così, purché mangi la mela. Carlo, per favore, puoi sbucciargliela? Io devo lavare i piatti.»
Il papà sbuccia la mela e ne porge un quarto a Marta. Lei lo guarda con gli occhi sgranati. Lui dà uno sguardo veloce alla mamma, che è voltata verso il lavello, e mangia il secondo quarto. Poi ne porge un altro alla bambina e, infine, dà un morso all’ultimo. Lei gli sorride, riconoscente. Dopo cena cerca di concentrarsi su un episodio di Hello Kitty, ma non ci riesce. Finalmente arriva l’ora di andare a dormire.
Sono le due di notte quando la vibrazione sotto il cuscino la costringe ad aprire gli occhi. Le ci vuole qualche secondo per ricordare che è stata lei stessa a impostare la sveglia a quell’ora. Il ghiacciolo è sempre lì, sullo stomaco. Marta sgattaiola giù dal letto e poi fuori dalla stanza. Ha un piano: ruberà il cellulare della mamma e controllerà se ci sono altri messaggi dell'uomo barbuto, poi cercherà la traduzione sul vocabolario. Così potrà capirci qualcosa di più e raccontare tutto al papà. Di certo lui saprà cosa fare. No, la mamma non può andare via! Come farebbe lei, senza? E Giovanni? E il papà stesso? Oppure dovrebbe continuare a vivere in quella casa con quell’uomo al posto del papà? No, meglio non pensarci!
La mamma ha il sonno pesante, il papà un po’ meno. Per fortuna, quando entra in camera da letto, entrambi dormono profondamente. Si avvicina in punta di piedi al comodino dove, di solito, la mamma tiene il telefono. Non c’è! Dove sarà? Forse in carica, nel salotto. Quale migliore occasione? Marta scivola via in silenzio e attraversa il corridoio. Quando passa accanto alla stanza di Giovanni, sente un rumore sordo che giunge dalla porta chiusa. Un suono gutturale, sommesso. Un suono già sentito. Quel giorno, quando l’insegnante di educazione fisica l’aveva riportato a casa pesto e sanguinante, Giovanni non piangeva, ma dalla sua gola usciva come un grido strano, simile al verso di un animale sconosciuto. Erano in tre, aveva detto l’insegnante, e il preside li aveva puniti sospendendoli per tutto l’anno. Capirai che punizione, aveva pensato Marta. Non andare a scuola! Avrebbero dovuto far loro le stesse cose che avevano fatto a Giovanni, e poi metterli in quel posto di cui non ricordava il nome, quella specie di prigione per i piccoli. Ma in fondo non sarebbe servito a niente. Perché a lei, il suo fratellone, nessuno glielo avrebbe restituito più. Il fratello che la prendeva in giro per i boccoli e per il naso a patata e che le raccontava i film dell’orrore per farle paura. Quel suono era stato l’ultimo, prima del silenzio. Prima che iniziasse la loro seconda vita. Marta avvicina l’orecchio alla porta e lo sente, di nuovo, più lontano. Facendosi coraggio, abbassa la maniglia in modo da lasciare uno spiraglio aperto. Giovanni è seduto sul letto e ha il volto contratto in una smorfia senza lacrime. Non si accorge della presenza della sorellina, ma lei lo vede stringere in mano un cellulare. Non ne ha più uno suo, non gli è permesso. Perché tutto è iniziato con i messaggi. Minacce, insulti. Il papà gli ha promesso che, quando starà meglio, gli regalerà l’ultimo modello dell’Iphone, ma quel giorno non arriva mai. Perciò ogni tanto, quando è in carica e incustodito, prende di nascosto quello della mamma. Da settimane non lo prendeva: stare dietro al programma scolastico è dura e, negli ultimi tempi, la notte dorme come un sasso. Ma oggi non ci riusciva proprio, a dormire. Forse perché, alla ricreazione, ha visto Laura sorridere più volte al tipo della III C, quello con i muscoli. Ha cercato di distrarsi guardando su whatsapp lo stato del cugino Lorenzo e giocando a qualche sciocco videogioco gratis, ma il sonno non è arrivato. Allora ha scorso la rubrica, così, tanto per fare qualcosa. Ha visto la foto della zia Silvia vestita da strega, quella di Maria Elena, l’amica carina della mamma, con la matita negli occhi e la maglietta rossa scollata. E poi quello sconosciuto bruttino, pelato, con la barba rossa e lunga, e quel bambino smorfioso. A giudicare dal nome e dalla fisionomia, forse l’uomo era l’insegnante di inglese. La mamma era tutta presa da quel corso. Giovanni ha iniziato a leggere le conversazioni: i messaggi di lui, in inglese, e quelli di lei, metà in italiano e metà in un inglese stentato. Non capiva proprio tutte le parole, ma il senso delle frasi sì. Dapprincipio il tono era amichevole, scherzoso. Noiose battute tra adulti. Poi l’ha visto. Un cuore gigante in un messaggio di lui e tre file di baci nella risposta di lei. E ha letto la parola “love” nel messaggio di lui, e allora non è più riuscito a leggere niente perché ha sentito il sangue salire al cervello e una rabbia cieca attanagliargli le viscere. Poi quel suono ha iniziato a uscirgli dalla gola e non è più riuscito a fermarlo.
Quando Marta vede il cellulare, capisce immediatamente. Nella sua testa c'è come un temporale, di quelli con i lampi e i tuoni fortissimi. Entra nella stanza e tenta di prendere il telefono dalle mani del fratello, ma Giovanni lo stringe forte e, sudato e rosso in volto, la guarda con gli occhi che sembrano uscire dalle orbite.
Ed è in quel momento che arrivano. Prima una sillaba, poi le altre, lentamente. La voce è roca, incerta. Sembra provenire dall’oltretomba.
 
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«Co...sa … fa... Non…vo…glio».
A Marta sfugge un grido. Il ghiacciolo nello stomaco è diventato una cascata che corre impazzita, inseguendo più direzioni diverse. Giovanni ora respira forte, lui stesso incredulo.
«Che cosa succede qui?» Marta e Giovanni si voltano insieme, di scatto. La mamma è sulla porta, spettinata, con gli occhi infossati e indosso la solita vestaglia rosa. Appena un passo indietro, si intravedono le sopracciglia aggrottate del papà.
Marta li guarda muta. Sa che dovrebbe esultare, gettar loro le braccia al collo gridando che Giovanni ha parlato. Invece resta lì, impietrita. Giovanni guarda la madre con occhi pieni di odio, come pieno di odio è il suono che esce dalla sua bocca: «Co…me…» Come hai potuto, vorrebbe dire. Quasi all’unisono col papà, la mamma lancia un grido come quello di Marta, quello che li ha svegliati.
«Giovanni, tesoro» dice e tenta di avvicinarsi al figlio, ma lui la respinge con rabbia e, nel tentativo di scansarla, inciampa su qualcosa.
Gli occhi di tutti e quattro si volgono contemporaneamente verso il cellulare. Nessuno se ne è accorto, quando è caduto sul pavimento.
E nessuno ha ancora letto il messaggio sullo schermo. L’ultimo, che porta la data di oggi. “Mi sono resa conto di aver fatto un grande errore. È stato un momento di debolezza, avevo bisogno di rigenerarmi un po’, dopo quello che è successo a Giovanni. Ma ho capito di amare profondamente mio marito, i miei figli, la mia famiglia. E non ho dubbi su ciò che voglio fare della mia vita. È stata una storia breve ma, a modo mio, ti ho voluto bene. Mi dispiace.”
Marta ancora non lo sa, che la loro terza vita sta per iniziare. Che sarà dura, ma sempre meno della seconda. E che domani dovrà proprio ringraziarla, Morgana.

Buffalo Bill
 

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NOTTE AL LAGO
(l’orore de noiartri)

A quell’ora della notte, intorno al lago, nelle tenebre del bosco squarciate dagli abbaglianti della Fiat Panda dei Carabinieri, era facile scorgere caprioli, daini, cinghiali, tassi, volpi e lepri accecate in mezzo alla provinciale che, d’un tratto, balzavano a nascondersi nel folto. Così, dopo due ore di pattuglia, il brigadiere Nassi guidava annoiato mentre l’appuntato Nadia Bertarelli, forse perché più giovane e ancora curiosa, scrutava rapita dal finestrino con la gioia di quando era ancora bambina.
Il brigadiere frenò di colpo, appena in tempo per non investirlo.
L’appuntato Bertarelli, come d’istinto, chiuse gli occhi aggrappandosi alla cintura che ne bloccò lo slancio in avanti, e quando li riaprì, vide un volto umano sconvolto, le vesti stracciate, accasciarsi sul cofano. Urlò per istinto spaventando il collega già di suo agitato. Poi però si ricordò del suo ruolo e si contenne, contegno però interrotto d’immediato dalle urla di un altro volto, questa volta femminile, dal lato del Nassi che, spaventato anch’egli, fece uno scatto verso la collega.
Bosco, notte, buio, i fari della Panda, due zombie emaciati, pieni di graffi, poche vesti stracciate, scalzi.
Chemminchia succede? – urlò il Nassi aprendo lo sportello.
Zitta invece la Bertarelli, più guardinga, uscì di soppiatto dopo aver tolto la sicura della sua beretta.

Centrale? – domandò la Bertarelli, che senza attendere risposta aggiunse – abbiamo trovato due campeggiatori abusivi che dicono di essere stati aggrediti nel sonno da due o più rapinatori. Chiediamo rinforzi. Ci sono altri campeggiatori sparsi intorno al lago. Andiamo a controllare. –
Mettetevi queste – aggiunse il Nassi rivolto ai due ragazzi mentre porgeva loro due mascherine – dovreste saperlo che qui è vietato campeggiare. –
C’ha ragione – disse il ragazzo mentre la sua compagna continuava a piangere – ma erano mesi che stavamo chiusi in casa senza poterci incontrare! Giunta l’estate… cosa potevamo fare? –
Andare a lavorare! – rispose brusco il Nassi - Io alla vostra età, perché di notte facevo il panettiere, di guai non ne ho mai avuto. –
Io invece andavo in campeggio e mi divertivo – pensò la Bertarelli senza scendere nei particolari – e intanto avanzavano nel buio con le torce.

Trovarono altre tende, altri campeggiatori. Qualcuno dormiva e non si era accorto di nulla, qualcuno risvegliandosi, scopriva che gli avevano frugato nella roba e gli avevano rubacchiato qualcosa.
Confermiamo presenza di malviventi – disse il Nassi alla radio – chiediamo rinforzi con le unità cinofile per procedere alla perlustrazione dei dintorni. –
Perlustrare i dintorni voleva dire girare intorno a un lago con un perimetro di 20km in mezzo alle sterpaglie, oppure scendere di tra le gole dell’emissario, o risalire il Concaro, un monte che, come suggerito dal nome stesso, da un lato aveva forma di conca che avvolgeva il lago, dall’altro invece, un orrido strapiombo, e in cima, una vetta a 800m: lo sapeva bene lui, con tutti gli storditi che gli era toccato d’andare a ripescare negli ultimi anni!

Chi in pigiama, chi in pantaloncini corti, chi in divisa, tra le tende e le amache, attesero l’alba e i rinforzi.

Interrogarono di nuovo tutti quelli che avevano visto qualcosa, ognuno con una versione diversa: chi parlava di due uomini, chi di un uomo e una donna, chi di più persone, chi insisteva che tra queste ci fossero dei nani…
Nani, folletti, gnomi e puffi – disse il maresciallo Lo Tito giunto coi rinforzi – e poi dicono che le droghe leggere non fanno male –
Potrebbero essere i serbi? – domandò il Nassi facendo riferimento a due feroci criminali serbi, ex militari, ex galeotti e adesso ricercati.
Li davano vicino al confine con la Slovenia due settimane fa – rispose il maresciallo – potrebbero anche essere loro, ma è improbabile… -
I cani hanno fiutato una traccia! – urlò uno della cinofila – tirano verso l’alto! – e così, tutti quelli in divisa, partirono all’inseguimento dei malviventi senza nemmeno sapere chi e quanti fossero.
La salita era impervia e ingenerosa, ostacolata dalla brughiera, dai rovi di more e dai rimasugli dei ricci, ma almeno le generose fronde dei castagni proteggevano dalla calura di una calda mattinata di giugno.
Ogni tanto si fermavano a prendere fiato, soprattutto i più corpulenti, a guardare in alto e a misurare la distanza dalla cima, oltre la quale – lo sapeva bene il Nassi – c’era solo il baratro.

Lentamente il buio dei castagni lasciò spazio al folto dei faggi, ai quali seguirono i ritti e tristi abeti, e infine la luce dei lunghi ciuffi d’erba fitta come solo in montagna. In lontananza, a circa cento metri, i ruderi di una vecchia cascina – verso i quali tiravano i cani – e oltre, l’angoscioso crepaccio.
I carabinieri restarono nel folto della vegetazione, senza farsi vedere, mentre coi binocoli scrutavano il rudere per capirci qualcosa.
Si vedeva che c’era dentro qualcuno, che c’era movimento, un po’ di andirivieni. Videro gettar fuori delle travi, dei legni, poi uscire un uomo dalla lunga barba incolta che iniziò a impilarli e a rinforzarli. Seguì una donna, anch’essa abbruttita, che lo aiutava. Infine due bambini: lui sui dieci anni, lei sui quattro.
Ma sono una famiglia! – esclamò Lo Tito.
Di matti – aggiunse il Nassi.
Ma che fanno? –
Sembra si stiano barricando dentro. –
Potrebbero essere i Bernasconi? – domandò la Bertarelli.
Chi? –
Quella famiglia che scomparve di casa in città, senza lasciare traccia all’inizio del lock-down. Ve la ricordate? La cercarono per un po’, poi lasciarono perdere. –
Avevamo altro da fare – esclamò il maresciallo Lo Tito.
Ma la madre di lei ha continuato a chiedere aiuto alla stampa – aggiunse il Nassi – ma anche la stampa ha avuto altre grane per la testa di questo periodo – concluse.
Sembrano inoffensivi… ma stiamo attenti! – disse Lo Tito – avanti e con circospezione. –
I militi uscirono dal folto e s’incamminarono verso il rudere.
Che viperaio per tenerci i bambini – pensò la Bertarelli mentre guardava la pietraia di fronte a se, e si asciugava un rivolo di sudore.
Non appena i fuggiaschi notarono i militari, si asserragliarono nel loro fortino.
Avanti! – ripetè Lo Tito che ormai non aveva altra scelta che procedere.
Andatevene! – gridò l’uomo da dietro alle muricce.
Via! Via! – ribadì la donna con lui.
Andatevene! – urlarono anche i bambini.
Ma chi siete? Cosa fate qui? – domandò Lo Tito quando erano a portata di voce.
Siamo sani e non vogliamo che ci impestiate! – fu la risposta, a cui seguì una gragnuola di sassate che li obbligò a ripiegare.
A una cinquantina di metri, fuori dalla portata di tiro, si guardarono tra loro increduli.
Siamo sani? Non vogliamo che c’impestiate? ci hanno urlato quei pazzi lì? – domandò retorico Lo Tito.
Sì signore – rispose il Nassi mentre si asciugava il sudore.
Sono i Bernasconi – confermò ansante la Bertarelli – la madre di lei diceva che erano terrorizzati dal covid. –
I soliti negazionisti… -
No, non negazionisti – riprese lei – loro ci credevano al covid, solo che ne erano terrorizzati. Almeno è quello che ripeteva la madre che temeva una follia, una disgrazia. –
E siccome avevano paura di prendersi il covid in casa, si sono isolati in cima al monte, tra le serpi, a un passo dal baratro? – domandò il Nassi stufo di aver a che fare sempre con le stranezze della gente.
Pare.. – concluse la Bertarelli che era rimasta colpita dalle condizioni impietose dei quattro, soprattutto della madre, che nemmeno sembrava più una donna. Che un uomo, anche se pulito ed elegante, gratta gratta sempre un po’ bestia rimane; mentre una donna, anche quando fa le pulizie, o è in servizio o lavora in fabbrica, sempre donna si tiene, e bene lo sapeva lei in un ambiente così maschile.

Comunicarono il tutto alla centrale che aveva spedito altri rinforzi. Presero fiato. Tentarono una nuova sortita, ma identico fu il risultato: urla e sassate.
Intanto il sole era alto, torrido, e li aveva costretti a rifugiarsi sotto la calda ombra degli ultimi abeti.

Nel pomeriggio i rinforzi: altri colleghi (con gli anfibi invece che con le scarpe lustrate d’ordinanza), bottiglie d’acqua e carne simmenthal.
Maresciallo, che si fa? – domandò il Nassi.
Bisogna stanarli – rispose questi rassegnato.
Se fossero delinquenti comuni – esagerò il Nassi – basterebbero due lacrimogeni, due legnate (tanto qui non vede niente nessuno) e per cena saremmo tutti a casa. –
Sì – si aggiunse alla conversazione la Bertarelli – ma invece sono una famiglia, di matti, coi bimbi per giunta. –
Esatto – ribadì il maresciallo – matti, coi bambini e dietro il precipizio. –
Fece una pausa.
Poi riprese – e i giornali ne parlano già, immagino? –
Sì signor maresciallo – rispose la Bertarelli – Dagospia dice che stiamo stanando un gruppo di negazionisti, e i lettori sono divisi tra quelli che dànno i like a coloro che dicono che siamo i soliti violenti perchè stiamo picchiando la donna e i bambini, e quelli che insistono che bisogna farla finita e ammazzare tutti i serbi e gli immigrati. -
Aaahh – disse il maresciallo – tanto buon senso e un po’ di sole cocente, come a ogni inizio estate che si rispetti. –

Tentarono un terzo approccio. Stavolta erano in tanti e tentarono una manovra a tenaglia, ma quale la sorpresa quando, dalle muricce, resisi conto che cercavano di circondarli, partì verso di loro una freccia. Poi l’uomo apparve chiaramente attraverso un varco con un arco in mano, lo tese e mirò contro il Nassi.
 

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ALT! – gridò Lo Tito – indietro! Indietro! - più intimorito dalla follia che dalle frecce.
Mentre tornavano indietro, l’uomo uscì dalle muricce e urlò chiaramente – ci difenderemo fino alla morte, come i giudei di Masada: piuttosto che farci infettare ci getteremo tutti giù di sotto! -
Giunti di nuovo all’ombra, si asciugarono di nuovo il sudore.
Mi hanno sparato due volte nella mia carriera – disse il Nassi – un pazzo col fucile e un rapinatore con la pistola, ma mai con arco e frecce come gli indiani! –
Dobbiamo stanarli prima che venga notte – disse Lo Tito – se no va a finire male: per loro, per noi, per tutti. –
Dalla centrale dicono che non possono aiutarci oltre – disse uno con la radio – che il personale è occupato lungo le spiagge e in città, e che lo psicologo è per strada, ma era in ferie e perciò fino a domani non può arrivare. –

Era già pomeriggio inoltrato. Lo Tito e il Nassi avanzarono da soli con uno straccio bianco in mano.
Al primo urlo di tra le mura si fermarono e iniziarono a trattare.
Quelli nel bosco sentivano qualcosa, ma le parole erano spazzate vie dalla brezza che – volesse il Signore! – di tanto in tanto rinfrescava l’aria.
Pensate ai bamb… – si sentiva che urlava Lo Tito.
E’ quello che stiamo facendo da quasi quattro mesi! – rispondeva l’uomo da dentro.
Ma hanno bisogno di scendere... acqua… cibo fresco… per loro… -
Poi volarono i sassi e tornarono indietro.

Perfetto – disse Lo Tito – questa è una di quelle situazioni da manuale perché qualsiasi cosa faremo, col senno di poi, sarà comunque colpa nostra: se li staniamo siamo dei violenti, se si buttano di sotto coi bambini è perché li abbiamo costretti, se li abbandoniamo alla loro sorte è perché non capiamo il nostro ruolo sociale… Immagino già i tuttologhi di internet pronti a dare consigli da sotto l’ombrellone! –

Ormai, a quell’ora, qualsiasi famiglia italiana aveva concluso la cena e l’imbrunire era vicino. Lo Tito decise perciò di fare un altro tentativo prima della notte, l’ultimo, prima di accollarsi una colpa il giorno dopo: quale, lo avrebbe deciso la stampa.
Il Nassi prese lo straccio bianco e si dispose di nuovo ad accompagnarlo.
Lo dia alla sua collega – disse il maresciallo – speriamo che vedendo una donna si agitino un po’ meno –
La Bertarelli capì che toccava a lei e si mise quasi sull’attenti.
Avanzarono insieme, quasi alla pari, Lo Tito un passo avanti, in quanto superiore, in quanto uomo nella radura; la Bertarelli comunque, sempre fiera, sempre appuntata…anzi, appuntato, perché nelle forze dell’ordine non si fanno differenze di genere.
Quando videro volare il primo sasso, si fermarono di scatto per riprendere la patetica discussione di prima.
Il Nassi col resto dei colleghi, dall’abetaia, sentivano la lagnanza di Lo Tito e l’ira funesta del pazzo delle muricce: uno spettacolo impietoso.
Quando videro il loro maresciallo chinare il capo tenendoselo con la mano sinistra, fu chiaro a tutti che era la resa del buon senso, almeno fino al giorno dopo, quando sarebbero arrivati altri rinforzi, lo psicologo, quelli di città, la stampa.
Poi sentirono anche una voce femminile, era la Bertarelli. Non era chiaro cosa dicesse. Tutti cercavano di sentire il solito lo faccia per i bambini, o qualcosa del genere tipo sono solo delle creature, che è ciò che chiunque si aspetta da una donna, anche con la divisa, ma invece diceva dell’altro, incomprensibile.
Io ho capito Pilato – disse il Nassi a quello del cane.
Io pilatore – rispose questi
E cos’è un pilatore ?- domandò un terzo –
Impilatore? – suggerì un quarto.
Ah sì! – rispose il Nassi – il famoso impilatore. Ma va là… -
…eretta! – si sentì di nuovo che gridava la Bertarelli.
Ma di che cavolo parla? Cos’è che vuole erigere o impilare quella lì? –
Le hanno volute le donne nell’Esercito? – domandò uno – e questo è il risultato. –
E la Bertarelli insisteva, con il Lo Tito che la fissava perplesso.
Ad un certo punto, all’improvviso, la donna da dietro le muricce uscì con la bambina in braccio e il bambino per mano. Spuntò anche il braccio dell’uomo che non potendo più agguantare quello della moglie, afferrò quello del bambino, che strattonato urlò. Urlò anche la madre minacciosa contro il marito che mollò la presa e li inseguì urlando di tornare dentro, che sarebbero morti tutti. La donna affrettò il passo tirando il braccio del figlio che seguiva incespicante. A un certo punto il marito si fermò prudente, conscio di averli persi, di essere rimasto da solo, e indietreggiò. La moglie invece, avanzò decisa fino a dieci metri dai militi. Poi, sporca, spettinata, con le vesti stracciate, il viso pieno di graffi e arrossamenti, fissò la Bertarelli e con gli occhi di brace domandò – fa sul serio? –
Glielo prometto - disse lei – magari prima bisognerà passare dal pronto soccorso per controllare che stiate tutti bene, ma poi, in caserma, le do la mia parola, le faccio trovare il mio epilatore –
Sì perché adesso ho la pelle che è un disastro e se faccio la ceretta me la tiro via tutta. –
Non si preoccupi, le faccio avere anche una crema bio-rigenerante e lenitiva all’ortica… -
No, no, ortiche basta… - interruppe la donna sconvolta
… ne ho anche una alla genzianella e aloe vera, per pelli delicate. Ma ora, la prego, si mettano queste, anche i bambini – e così dicendo le porse tre mascherine. –
Tenendo le dovute distanze, con l’aiuto di due colleghi, li accompagnò giù, prima attraverso l’abetaia, poi lungo la faggeta, infine lungo al castagneto, fin dalle macchine dove c’era un ambulanza.
Lo Tito e il Nassi invece, col resto della brigata, restarono in cima, senza far nulla, timorosi che l’uomo, ormai solo e sconfitto, facesse una follia. Poco prima dell’alba però, lo colsero nel sonno, lo ammanettarono contro la sua volontà, e lo portarono sconfitto a valle, vincendo la tentazione di dargli una scopola ogni tanto.

Mariuccia coi baffi
 
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RINUNCE

I

Per raggiungere il lago bisognava attraversare un sentiero costeggiato da eucalipti ed io e Roberto, quel pomeriggio d’estate, ci fermammo a sedere su una panchina trovata lungo il tragitto, da dove si potevano scorgere bufale e cavalli al pascolo.
Se si alzavano gli occhi al cielo non era difficile distinguere la presenza di qualche falco pescatore e, avvicinandosi al lago, la bellezza di un cormorano ti sorprendeva all’improvviso mentre riemergeva dall’acqua.
Abitavo vicino al lago ed era mia abitudine, soprattutto d’estate, passare lì il pomeriggio leggendo un libro oppure semplicemente camminando lungo il bordo ed osservare i cigni, il loro aspetto meditativo e nello stesso tempo in attesa.
“Qual è il luogo dove ti senti più a tuo agio?” mi chiese Roberto quando mi propose di vederci quel pomeriggio, “il lago” risposi.
Ero sicura che quel posto mi avrebbe aiutato a superare l’imbarazzo di quella prima nostra uscita anche se in realtà non ero nervosa come mi sarei aspettata; dopotutto io e Roberto ci conoscevamo da un paio d’anni, lavoravamo tutti e due in una fabbrica di farmaci veterinari - lui lavorava nel reparto della manifattura ed io in quello dedicato al confezionamento - ma non ci eravamo mai parlati veramente, se si escludono le frasi dette nella stanza della pausa dove tra un caffè ed una barretta non c’era stato modo di parlarsi più di tanto perché la pausa durava pochissimo e poi perché c’era un via vai di persone che a me inibiva ogni tentativo di formulare una qualsiasi domanda che andasse sulla sfera personale.
Qualche volta ci incontravamo a mensa ma non ci eravamo mai seduti allo stesso tavolo, finché una sera, finito il turno del pomeriggio, lui venne a sedersi dove io stavo mangiando una cotoletta al formaggio, nel posto di fronte al mio.
“Ti andrebbe di uscire insieme, Cecilia?” mi domandò inaspettatamente.
Scandì il mio nome - finora non avevo mai sentito il mio nome pronunciato dalla sua voce - e ricordo che mandai giù il boccone e risposi di si senza pensarci un secondo di più.
Quel pomeriggio al lago mi raccontò che aveva cominciato a lavorare in fabbrica subito dopo il diploma, che aveva praticato nuoto agonistico ma che poi aveva dovuto smettere perché il lavoro non gli permetteva di continuare gli allenamenti - continuava però ad andare in piscina quando i turni in fabbrica glielo permettevano – poiché faceva anche il turno di notte mentre io solamente la mattina e il pomeriggio.
Non mi disse il motivo per il quale mi aveva chiesto di uscire né io ebbi il coraggio di chiederglielo, mi sembrava una domanda sciocca da fare anche se desideravo saperlo.
Mi chiese se sapevo nuotare e se mi andava di andare in piscina con lui il sabato mattina dal momento che il sabato la fabbrica era chiusa, gli risposi che si, sapevo nuotare anche se erano tanti anni che non entravo in vasca e che si, mi sarebbe piaciuto riprendere a nuotare in sua compagnia: dentro di me infatti sentivo che insieme a lui l’idea di tornare in vasca non mi spaventava.

II

Il sabato seguente ci incontrammo di fronte il Palazzetto dello Sport e, sbrigate le pratiche burocratiche in segreteria, andai nello spogliatoio e mi preparai: le gambe mi tremavano un po’ ma era un’emozione vivificante e arrivai a bordo piscina col sorriso.
Anche Roberto mi sorrideva, entrammo in vasca insieme e per un attimo restai immobile, un po’ per il freddo dell’acqua e un po’ per realizzare che ero davvero lì, in quel momento, e proprio insieme a lui; le altre persone intorno a noi erano solo figure sfumate.
Mi sentivo come in un luogo ovattato per l’odore forte del cloro e il suono delle voci intorno e del rumore oscillante dell’acqua; andai sott’acqua per bagnarmi fino sopra la testa e quando riemersi vidi Roberto che era arrivato fino al bordo in fondo della vasca e che stava tornando adagio facendo stile dorso.
Cominciai anch’io a nuotare e i miei movimenti erano lenti come a voler fermare quell’istante, a volerlo imprimere nella mia mente, nel mio ricordo, perché mi sembrava troppo bello perché si potesse ripetere; invece altri sabati si susseguirono a quel primo e mi accorgevo di volta in volta che oramai quegli appuntamenti erano diventati indispensabili per me, li attendevo con un’ansia crescente.
I nostri discorsi però non crescevano ma rimanevano su un livello costante, si parlava del nostro lavoro e del nuoto, Roberto mi dava consigli su come coordinare movimento e respirazione poiché gli confidavo che a volte sentivo una certa tensione.
In realtà sapevo benissimo che la mia tensione dipendeva in parte dal fatto che i miei sentimenti per lui si stavano trasformando in qualcosa di più profondo, che non lo vedevo più solo come un amico e che avrei voluto sapere di più sulla sua vita privata ma non osavo chiedergli nulla.
Poi successe che un sabato mattina mi chiamò per dirmi che quel giorno non sarebbe venuto in piscina, e non venne neanche il sabato successivo.
Non mi chiamò più e non ci vedemmo né al lavoro né in piscina finché, un mese dopo, ci incontrammo per caso in pausa - eravamo nella stanza solo noi due - e c’era un silenzio spezzato solo dal rumore alienante del distributore automatico delle bevande e delle merendine; avevo poco tempo se volevo parlare e, mentre stavo prendendo fiato, all’improvviso la porta si aprì ed entrarono dei colleghi; io uscii in fretta senza salutare e con le lacrime agli occhi.
La sera stessa decisi di fermarmi a mangiare alla mensa, con la speranza di vederlo e di poterci parlare, entrai nella sala e vidi che stava cenando da solo, mi avvicinai e gli chiesi se potevo sedermi, mi rispose di si.
Aspettai che il mio cuore rallentasse un po’ il battito, lo guardai – lui mi guardava in imbarazzo – e capii in quel preciso istante che la mia domanda era inutile; mi alzai senza dire nulla e tornai a casa.
FINE

Oscar
 

Minerva6

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STORIA DI UN POVERO DIAVOLO

Correva l’anno del Signore 1632 ed era il mese di aprile, il momento adatto per vangare i campi per la semina della segale, l’unico sostentamento che il terreno poteva offrire nella disgraziata zona alpina visto che la patata, proveniente dall’America, non si era ancora diffusa in quell’aspro territorio. Quella mattina Fabio, detto Fabiolino per via della sua minuta statura, si alzò al canto del gallo, letteralmente, visto che il pennuto emise il suo canto a circa un metro di distanza dal giaciglio sopra il quale il povero contadino stava riposando, si vestì e, incurante della sciagura che gli stava per piovere addosso, si mise a mungere le sue capre. A quei tempi gli uomini, per poter resistere alle intemperie, erano infatti soliti vivere assieme al bestiame per sfruttare il naturale tepore emesso dagli animali.
Uomini, donne, bambini ed animali condividevano i medesimi spazi , lottando per la sopravvivenza contro le rigide temperature dell’inverno alpino, i moderni concetti di privacy e di igiene personale non esistevano nemmeno, tempi bui quelli, dove l’incertezza regnava sovrana e l’unico conforto era rappresentato dalla propria famiglia. Fabiolino da quel punto di vista era stato colpito duramente dalla sventura, anche se ancora giovane e di bell’aspetto era vedovo di ben due mogli, entrambe prematuramente scomparse di malattia senza avergli concesso la gioia di diventare padre; non avendo avuto figli da ben due donne, nel paese le malelingue dicevano che Fabiolino fosse uno “Sc’tèrlo” , ovvero un uomo sterile, incapace di generare figli e per questo, maledetto da Dio.
A seguito della morte di quattro suoi fratelli aveva ereditato molti dei i terreni del suo defunto padre e trovandosi in mano quel piccolo capitale era angustiato dal fatto di doverlo lasciare, alla sua morte, ad un nipote che disprezzava, il fatto di non avere dei giovani figli ad aiutarlo a coltivare tutta quella terra, lo costringeva ad affittarla ai suoi vicini, anche se questa cosa rendeva la sua misera situazione leggermente migliore di quella di molti altri disgraziati suoi contemporanei. Fabiolino era crucciato dal fatto di trovarsi nella condizione di dover accettare pochi chicchi di grano di affitto quando, con dei figli al seguito, avrebbe potuto far rendere la terra e vendere il pane.
Dalla sua misera situazione il povero Fabiolino poteva però trarre una soddisfazione, peccaminosa quanto indicibile, il fatto di essere sterile gli consentiva infatti di poter dare libero sfogo alla lussuria (per quanto il periodo storico gli concedeva), senza dover preoccuparsi di dover organizzare matrimoni riparatori, o peggio, generare qualche bastardo costretto a portare un cognome non suo.
Per questo motivo Fabiolino, nel paese era malvisto e giravano strane storie sul suo conto, a forza di sfidare la sorte, alla fine finì per entrare nel letto sbagliato, quello di una tale Maria Anna, la moglie del fratello del podestà locale, il marito sorprese i due amanti e Fabiolino riuscì a fuggire appena in tempo dalla furia omicida dell’uomo.
Giunto alla sua umile dimora a seguito del misfatto, si preparò una frugale cena, preparò un decotto di malva per lenire il mal di denti che da qualche giorno lo disturbava e si coricò assieme alle sue bestie, contento di essere riuscito per l’ennesima volta a portare a casa la pelle.
Giunse quindi quella disgraziata mattina, mentre nella penombra stava mungendo le sue capre, sentì bussare alla porta ed andò ad aprire, sull’uscio della sua umile dimora erano presenti il podestà, il prete e tre nerboruti ragazzi, che senza dare tante spiegazioni lo accusarono di essere un adoratore del maligno, lo scaraventarono per terra e lo legarono come un salame.
Lo stavano portando al palazzaccio, la galera dei tempi, dove venivano rinchiusi ed interrogati i sospetti in attesa di giudizio; sapeva bene a cosa stava andando incontro e per tutto il tragitto, sommessamente, recitò il rosario pregando la Vergine ed il Signore di essere riconosciuto innocente, ma in cuor suo già si stava preparando al peggio.
Al palazzaccio fu condotto dai tre ragazzi in una piccola cella che, prima di chiuderlo dentro, si premurarono di rifilargli una buona dose di calci e di pugni, poche ore dopo andarono a riprenderlo, ancora malconcio, per condurlo in una stanza attigua dove venivano svolti gli interrogatori.
“Con le tue pratiche oscure hai stregato la povera Maria Anna, confessa i tuoi peccati davanti a Dio! Servitore del demonio!“ tuonò con espressione torva il prete. Fabiolino avrebbe voluto urlare al mondo la propria innocenza, ma l’unica cosa che riuscii a dire fu un semplice “Io non ho fatto niente!”. Il prete allora lo incalzò: “Tu menti! Con la stregoneria ti sei approfittato di quella povera donna!”. Con la forza della disperazione Fabiolino cercò di negare le assurde accuse che gli venivano mosse, cercando di dimostrare che la donna era consenziente, ma tutto fu vano. Prese allora la parola il podestà del borgo: “È inutile negare l’evidenza, ci sono le prove! Abbiamo trovato la pozione con la quale hai stregato la povera Maria Anna”. A tal parole Fabiolino rimase spiazzato, uno dei tre ragazzacci si avvicinò a lui, mostrandogli il contenuto di ciotola, “Che cosa è questo maleficio che abbiamo trovato in casa tua?” gli urlarono contro. “Un decotto di malva, per il mal di denti” rispose con la voce spezzata dall’emozione il povero, “Tu menti! Questo è un filtro magico, è sicuramente opera del maligno!” fece il prete, facendo un cenno eloquente ai tre ragazzacci, il più grosso si avvicino e freddamente gli disse: “Se non vuoi dirci la verità di tua iniziativa, vorrà dire che te la faremo sputare!”
Erano ormai passati tre giorni dall’interrogatorio, era chiuso in una cella in un costante stato confusionale, aveva il corpo indolenzito dalle botte e dalle ustioni, ma oramai quello strazio era finito, era addirittura riuscito a mangiare un boccone di quel poco che gli veniva offerto dai suoi aguzzini, il vescovo o il suo vicario sarebbero giunti quel giorno in paese per il processo a suo carico, ma a seguito della sua confessione, c’era ben poco da fare, sapeva che la sua sorte era ormai segnata, sarebbe finito a bruciare sul rogo.
Anni prima aveva visto bruciare due streghe, anche lui era in piazza a gridare di metterle a morte, una era stata accusata di avvelenare il terreno e far morire la segale, dopo che era stata bruciata la segale era tornata a crescere rigogliosa, ovviamente se non si verificava una carestia e pioveva sufficientemente; mentre l’altra strega era stata bruciata perché aveva fatto un maleficio che faceva abortire le vacche, dopo averla vista ardere sulla pira, le vacche non avevano più abortito, o perlomeno così gli avevano riferito, visto che Fabiolino non era sufficientemente ricco per permettersi delle vacche. Soltanto allora, con addosso il dolore delle torture subite e condividendone la sorte, Fabiolino ripensò a quelle due povere ragazze a cui aveva urlato contro in piazza prima di vederle morire, chiedendogli perdono nelle sue preghiere.
Nel pomeriggio venne condotto in piazza e sottoposto al pubblico processo, dopo la lettura della sua confessione dove si auto-accusava di adorare il demonio e praticare la stregoneria, a peggiorare la situazione era spuntata anche la testimonianza del vicino di casa che si era inventato un sacco di falsità, il vicario del vescovo emesse la sentenza, una serie di formule e parole quasi completamente incomprensibili per un povero analfabeta ed ignorante come lui, ma riuscii comunque a comprendere il sunto: era stato condannato ad ardere sul rogo.
All’inizio di maggio dell’anno 1632, Fabio detto Fabiolino, a seguito di una confessione estorta con la tortura ed un processo farsa, fu incatenato ad una colonna, ai suoi piedi fu deposta una catasta di legna e fu arso vivo, per l’unica colpa di essere andato a letto con la donna sbagliata, grazie alla cattiveria di pochi uomini che volevano vederlo morto e l’ignoranza di molti altri che hanno avvallato quella barbarie.
Dopo quasi quattrocento anni a ricordare questa storia e Fabiolino resta soltanto il registro ingiallito di quel vergognoso processo, poche parole scarne di particolari tenute nascoste per secoli, per vergogna, negli scaffali dell'archivio storico di un piccolo Comune, quando invece documenti di questo tipo dovrebbero essere a disposizione di tutti, non solo per l'innegabile valore storico, ma per ricordarci che i veri demoni da cui guardarci sono l’ignoranza e la cattiveria e che nonostante tutti i nostri problemi, in fondo siamo stati incredibilmente fortunati a nascere nel periodo storico giusto.

Torquemada
 

Minerva6

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VUOI FARE UN GIOCHINO?

10 SETTEMBRE 2020

Ciao, sono Jonathan Galando, vuoi fare un giochino?
Oh rispondimi!
Se non rispondi stanotte verrò a uccidere i tuoi genitori

???​
Sei fuori?​

Ah ah! Hai risposto! Ormai sei dentro al gioco

Che gioco? Io non voglio fare nessun gioco​

Se non vuoi che i tuoi muoiano devi superare delle sfide
Sempre più difficili
Se le superi tutte salverai la vita alla tua famiglia
E anche al tuo coniglietto

Come fai a sapere che ho un coniglio nano?​

So tutto di te

In che senso? Mi segui su facebook?​

Ti osservo da mesi, non mi serve facebook

Cioè? Mi spii?​

Ti chiami Mattia Esposito
Stai all’undicesimo piano del palazzo in via del Castello

Come fai a saperlo? Sei un mio compagno di classe?​
Mi state facendo uno scherzo?​

Io non scherzo mai
Ti piace la pallacanestro
Il tuo idolo è Marco Belinelli

Anche questo puoi averlo letto sul mio profilo​

Allora chiedimi qualcosa che non hai mai postato sui social

Quanti anni ha mia nonna?​

Quella paterna 68, l’altra è morta

!!!​
Come fai?​
Chi ti ha dato il mio cellulare?​

Nessuno, io so i numeri di tutti
Allora cominciamo? Devi affrontare la prima sfida

Io non comincio un bel niente​
Dimmi chi sei​

Te l’ho già detto
Sono Jonathan Galando e voglio fare un gioco con te

Io non voglio giocare​
Ora ti blocco​

Se mi blocchi ti scrivo con altri numeri
E se continui a bloccarmi ucciderò i tuoi genitori

Smettila​
Mi stai spaventando​
Adesso lo dico a mia mamma​
E lei chiama la polizia​

Se lo fai li condannerai a morte certa
Pensi che qualcuno li proteggerà ogni notte? Per sempre?
Verrò quando meno te lo aspetti

Perché mi fai questo?​
Io non ti ho fatto niente, perché sei così cattivo?​

Puoi liberarti di me superando le sfide
Se concludi il gioco non mi sentirai mai più
Sparirò per sempre
Partiamo

Hai già ammazzato qualcuno?​

Certo

Perché hai quella maschera?​
Con quelle orecchie lunghe sembri Pluto​

Ti piace?

No​
Non lo so, è strana​

Tic toc, tic toc
Non perdiamo altro tempo, il gioco è iniziato

Ma cosa dovrei fare???​

Devi affrontare delle sfide
La prima è datti un pugno fortissimo in faccia

???​

Se non cominci a giocare, stanotte i tuoi genitori moriranno
Tua mamma dorme sul lato sinistro del letto
Si mette i tappi perché tuo papà russa

Vaffanculo stronzo​

Insultarmi non ti aiuterà
Datti un pugno e mandami la foto qui su WhatsApp
Voglio la prova del livido
Hai un’ora da adesso
Se sgarri anche solo di un minuto, saluta mamma e papà per sempre

Ti pregooo​
Non posso, ho solo 11 anni!!!​
Non ce la faccio, non sono capaceee​

Allora sbattiti una porta in faccia con tutta la forza

Se lo faccio mi prometti che stanotte non vieni?​

Se superi le sfide non verrò mai

***​

Ecco, ti ho inviato la foto​
Mi sono dato una botta col mouse sotto l’occhio​
Va bene così?​

Bravo, prima sfida superata
A domani con la seconda

???​
Ma quante sono?​

Dieci

11 SETTEMBRE 2020

Ci sei? Devi affrontare la seconda sfida
Con una lametta devi disegnarti una croce sul petto
Usa un coltello affilato o la lama di un temperino
Voglio vedere il sangue

Stai scherzando???​

Ti ho già detto che non scherzo mai

Ti prego, il sangue no​
Mi fa impressione​

Hai un’ora di tempo

Ti scongiuro!!!​

Meglio un pochino di sangue sul tuo petto
o quello che schizzerebbe fuori dalla gola dei tuoi genitori?
Cosa preferisci?

Va bene, va bene​

Aspetto la foto

19 SETTEMBRE 2020

Oggi è il grande giorno
Se superi la decima e ultima sfida la tua famiglia sarà salva
Non sei contento?
Ehi rispondimi!
Non avrai mica intenzione di mollare proprio adesso?

Non ce la faccio più​
Ti prego, basta​
Ti supplico​
Mi fa male dappertutto, mi esce ancora sangue dalle ferite​

Dopo l’ultima sfida sarai libero
La chiave per uscire dal gioco sei tu
Puoi salvare la vita ai tuoi genitori
Non vuoi essere l’eroe che li salverà da una morte atroce?

Cosa devo fare?​

Stasera alle 10 esci sul balcone della tua camera
Guarda giù verso il lampione all’angolo di via del Corso
Mi troverai lì sotto la luce
Ti dirò cosa fare

Mi prometti che dopo questa basta?​

Ti ho detto che dopo stasera sarai finalmente libero
SE FARAI QUEL CHE TI DICO
Ricorda: solo se supererai la sfida non ucciderò i tuoi genitori

Ok ok​

A stasera
Puntuale

Sì​

***​

Ci sei?
Io sono qui sotto
Esci sul balcone
Mi vedi?

Sì​

La tua unica via d’uscita dal gioco è fare uno scambio
La tua vita per quella dei tuoi genitori
Se non accetti aspetterò che tua mamma e tuo papà dormano
E poi salirò a ucciderli
Vuoi salvarli?

Mi prometti che li lascerai in pace se lo faccio?​

Non avrei motivo di ucciderli se superi tutte e dieci le sfide
Il gioco però pretende almeno un sacrificio
Se non sarai tu a sacrificarti, dovranno farlo i tuoi genitori
Allora, vuoi salvare mamma e papà?
BUTTATI DI SOTTO
Se non lo fai, aspetterò che prendano sonno e poi salirò a sgozzarli

Aspetta un secondo​


Mamma, papà vi amo.
Devo fare quel che dice l’uomo col cappuccio nero.
Non ho scelta.
Perdonatemi.​

Jonathan Galando
 
Stato
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