Kis, Danilo - Uno scrittore grande e invisibile

Dory

Reef Member
Mi hai molto incuriosito Nicole!! Leggerò sicuramente qualcosa di questo scrittore!! :)
 
Quella volta che l' incontrai a Budapest

- di CLAUDIO MAGRIS​
Repubblica — 12 ottobre 1999 pagina 46 sezione: CULTURA

L' opera di Kis è una specie di Sacra Rappresentazione del delirio del secolo, del suo grumo di sangue, fango e menzogna, impastati con le lacrime delle vittime: milioni di vittime di cui egli è l' inesorabile e disperato testimone. Una tomba per Boris Davidovic, denuncia dello stalinismo, è un grandioso ritratto non solo dell' immane mattatoio del secolo, ma anche della Storia come menzogna, plagio della vita. La poesia, che vi si oppone, nasce dalla pietas e dalla memoria, identica alla poesia e anzi origine della poesia, come nel mito greco in cui Mnemosine è la madre delle Muse. Nel caos contemporaneo la sacra rappresentazione diviene necessariamente anche grottesca; assume su di sé la simbiosi di razionalità e follia, assoluto esistenziale e camuffamento operettistico. Kis ha rappresentato con potenza poetica l' immane totalitarismo della storia contemporanea, incubo dantesco e surreale, nel suo iperrealimo e nella sua razionalizzazione esasperata. Nella Clessidra (1971), dedicata allo sterminio degli ebrei (in cui trovò la morte anche suo padre, ad Auschwitz), egli fa toccare con mano l' orrore, come pochi altri scrittori hanno saputo fare, perché inserisce lentamente il lettore nelle spirali di quell' incubo finché il lettore, senz' accorgersene, s' identifica a poco a poco col meccanismo distruttivo, con l' assassino che interroga e tormenta la vittima. La Clessidra è forse il suo capolavoro. Raramente un libro è riuscito a esprimere questa tremenda, insidiosa capacità del male di crescere dentro ognuno di noi, di diventare la nostra natura. Ma anche L' enciclopedia dei morti (1983) - per tacere di altre opere - è un testo straordinario, che sembra contenere il mondo e insieme venire da un altro mondo. A Danilo Kis è stato almeno risparmiato di vedere Subotica sotto le recenti bombe. Non dimenticherò mai l' ultima volta che l' ho visto, la lezione di signorilità e sicurezza che ne ho ricevuto. Eravamo a Budapest per un convegno letterario e i giornalisti ponevano la solita domanda: che cosa sta scrivendo? E Kis, in francese: "Rien. On a déjà fait, on a déjà écrit". Questa libertà - rarissima fra gli scrittori - dall' assillo smanioso di scrivere, di fare, di riconfermare di continuo a se stessi e agli altri il proprio valore e la propria vitalità, è un dono inestimabile, una sciolta sicurezza della persona non succube del mondo, del successo, dei risultati: una regale autosufficienza, degna di un re o di un nomade vagabondo. Chi parla così afferma se stesso proprio mentre ironicamente si cancella e si esprime in forma impersonale (On a déjà écrit): salva l' io guardando in faccia la sua dissolvenza. Kis, in quel momento, dice il valore della letteratura negando ogni sua idolatria; è qualcuno che vive a fondo, anche alle soglie della morte.
 
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“Noi siamo l’esotismo, siamo lo scandalo politico… i piacevoli ricordi vacanzieri di tramonti sereni sull’Adriatico… i ricordi innaffiati di slivovitz. E questo è tutto. A stento facciamo parte della cultura europea… La politica, quella sì. Il turismo, anche!… Ma chi diavolo andrà mai a cercare la letteratura in questo Paese?” scrive Danilo Kis :?
 
Ultima modifica:
“[…] c’è un grigiore provinciale di cittadine dell’Europa centrale agli inizi del secolo che emerge chiaramente dalle tenebre del tempo: le grigie case ad un piano, dai cortili che il sole, nel suo lento avanzare, divide con una chiara linea di demarcazione in tanti quadrati di luce micidiale e di umida ed ammuffita ombra simile all’oscurità; i filari d’acacie che all’inizio della primavera trasudano odore di malattie infantili simile ad un denso sciroppo o a caramelle contro la tosse; il freddo splendore barocco della farmacia, dove luccica la Gotica dei bianchi recipienti di porcellana. Un tetro “gimnazium”, con il cortile pavimentato (verdi panchine scolorite, altalene rotte simili a forche e i gabinetti in legno imbiancati); un municipio pitturato di giallo alla Maria Teresa, il colore delle foglie appassite e delle rose autunnali delle ballate che al tramonto vengono suonate da una banda tzigana dei gitani nel giardino del Grand Hotel.
Karl Taube, figlio del farmacista, sognava, come tanti altri bambini di provincia, quel felice giorno quando, attraverso le spesse lenti dei suoi occhiali, avrebbe guardato per l’ultima volta la sua città natale dalla prospettiva a volo d’uccello della partenza, nello stesso modo con cui si guardano, attraverso la lente, rinsecchite ed assurde gialle farfalle dell’album dei giorni del liceo: con tristezza e disgusto.
Nell’autunno 1920, alla stazione est di Budapest il giovane Karl Taube salì, in prima classe, sul treno espresso Budapest-Vienna e appena questi si mosse egli salutò, con un gesto della mano, per l’ultima volta suo padre (che spariva in lontananza come un’oscura macchia con un fazzoletto di seta in mano), e poi, dopo aver trasportato di corsa la valigia di pelle in terza classe, si sedette in mezzo ai braccianti ”[...]

(I leoni meccanici , Feltrinelli, Milano 1990, pp. 72-73)
 

sergio Rufo

New member
Coltiva il dubbio riguardo alle ideologie e ai principi dominanti.
Mostrati ugualmente fiero davanti ai principi e alle folle.
Ricordati sempre di questa massima: chi centra l’obiettivo sbaglia tutto.
Non visitare le fabbriche, i kolchoz, i cantieri: il progresso è qualcosa che non si vede a occhio nudo.
Non ti occupare di economia, di sociologia, di psicoanalisi.
Non sostenere la relatività di tutti i valori, la gerarchia dei valori esiste.
Non credere che gli scrittori siano “la coscienza dell’umanità”: hai già visto troppe canaglie.
Non avere una missione. Guardati da coloro che hanno una missione.
Non scrivere per il “lettore medio”: tutti i lettori sono medi. Non scrivere per l’élite, l’élite non esiste, l’élite sei tu.
Manda al diavolo cento volte chi dice che Kolyma era diversa da Auschwitz.
Chi afferma che ad Auschwitz sterminavano solo i pidocchi e non gli uomini – tu sbattilo fuori.


Pero', due punti mi piacciono moltissimo ma anche il resto...
La gerarchia dei valori esiste
Non ti occupare si economia, sociologia, PSICOANALISI.

Grande.
Ha qualcosa di profondamente profondo. Sembra un grande moralista francese tipo un Chamfort, o un Lichtenberg: sguardo acuto perche' in superfice.
Lo dismostra la diffidenza per coloro che hanno una missione: una missione e' sempre ideologica, un porta bandiera idealista. Ma non esistono ideali se non nella testa di chi se li inventa.
Uno sguardo disincantato, forse?
 

sergio Rufo

New member
guarda che tutti i grandi moralisti del 700/800 ( Chamfort, LaRochefocauld, De La Bruyere in Francia o un Lichtenberg in Germania) lo sono stati proprio perche' contro la morale comune.
Era ed e' un complimento.
Non si puo' essere un grande moralista se non si e' cinici e disincantati; la fenomenologia della morale e' una materia per occhi profondi ma nel senso contrario. Vale anche per le orecchie.
Questo autore che hai postato e di cui non conosco nulla, in queste sue massime , di primo acchito, mi ha ricordato la vivace freddezza di certi scritti.
Proprio questa estate accompagnato da Julia in una libreria al mare, gironzolavo per gli scaffali dove ho notato un moralista di cui cercavo il libro da un sacco di tempo: a Milano era introvabile.
L'ho agguantato e l'ho acquistato.
Poi mentre si tornava a casa, in auto, ho incominciato a sfogliare il volume.
I moralisti hanno su di me un fascino incredibile.

Questo autore sembra interessante per un motivo: diffidente e lontano da tante cose - probabilmente lo era - perche' conosceva bene quelle cose da cui voleva stare lontano.
 
Allora mi sa che hai azzeccato in pieno.... scusami....:mrgreen:
Sopratutto in: (...)diffidente e lontano da tante cose perche' conosceva bene quelle cose da cui voleva stare lontano.

Io possiedo i suoi libri in lingua originale, e per questo mi è molto dificile trovare qualche altro assaggio della sua crude poetica che riesce cosi bene a incantare... appena trovo ancora qualche cosa, lo posterò qui, per farvelo conoscere meglio....:)
 
Sentite quanta poesia c'è in queste parole:

“(….)Quell’albero genealogico, che brillava alla pallida luce della lucerna come un disegno su una pergamena medioevale dalle iniziali dorate, aveva sui suoi rami lontani, accanto a cavalieri e dame di corte, anche i celebri navigatori che avevano attraversato il mondo, da Cataro e da Constantinopoli fino alla Cina e Giappone, e su un altro ramo, tanto vicino che mia madre lo chiamava “tua zia”, si trovava un’amazzone (cosi almeno la immaginavo io), che accrebbe la gloria della nostra stirpe tagliando la testa a un tiranno turco all’inizio di questo secolo, quindi in un passato assai vicino e non mitico! C’era pure un eroe e scrittore famoso, un celebre condottiero che aveva imparato a leggere e scrivere a cinquant’anni, per aggiungere la gloria della penna a quella della spada, al modo degli eroi antichi. Ma il fiore di quel albero genealogico, che mia madre piantava nel humus compatto e umido delle sere d’autunno, erano i miei zii: uomini di mondo nel miglior significato del termine, che parlavano le lingue straniere e avevano attraversato l’Europa, abbattendo i vecchi miti in nome dei nuovi affermatisi in Europa e nel mondo; uno di loro era stato persino al pranzo dal re di Serbia, perché era il migliore della sua classe….”

D. Kis, Giardino, cenere, Adelphi, Milano 1986, pag. 163​
 
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Essere uno scrittore dell’Europa centrale

Kis è in modo ricercato e consapevole uno scrittore di lingua serbo-croata:

“(...)Posso dire che conosco veramente solo una lingua: il serbo-croato, e in questa lingua scrivo anche a Parigi. Già da tempo ho deciso che non scriverò mai in alcuna altra lingua. Per questo motivo in patria molto vorrebbero che io mi dichiari: se scrivo in serbo allora sono una scrittore serbo.” (”Il residuo amaro della esperienza”, l’intervista del 1989.)

Ma la sua predilezione per questa lingua rispecchia anche una dichiarata volontà di elevarsi al di sopra delle logiche egocentriche e nazionalistiche. Essere “jugoslavo” e scrivere in serbo-croato – agli occhi dello scrittore si trattava di una scelta sopranazionale che sola gli avrebbe permesso di porsi come scrittore dell’Europa centrale, e non come il scrittore serbo, ebreo, ungherese, ecc (mentre tutti gl'altri cercavano in modo più esplicito di far conoscere la loro appartenenza nazionale) …. una scelta che equivaleva al rifiuto di ogni idea di patria, nazionalisticamente intesa:

“(...)E il dire poi loro che tu in realtà appartieni, con la lingua in cui sogni e in cui scrivi, a questa nostra letteratura (anche se per te la tradizione ha un significato molto più ampio, euro-centrico, e non solo euro-centrico ma anche mondiale, davvero mondiale, non-borghese e non-nazionalistico, e nemmeno nel senso goethiano di Weltilteratur, ma borgesiano, koestleriano, alla maniera in cui la intende e concepisce la letteratura un Etiemble), il dire dunque loro di essere, da questo punto di vista (per quanto riguarda la tradizione) uno scrittore jugoslavo, viene preso per una sorta di bugia letteraria, oppure viene visto come la condizione di uno senza casa, la condizione di Heimlickeit che suscita compassione o rabbia, perché determinandoti in tal modo hai cercato di nasconderti.(...)” (dall’ “Una lezione di anatomia”)

“(...) Mentre quello che sostengo – di non essere de uno scrittore serbo, né croato, ma jugoslavo – questo semplicemente non esiste. Potete cosi immaginarvi che sono io l’unico scrittore jugoslavo in questo mondo.(...)” (dall’ “Il residuo amaro dell’esperienza”)

“(...)Ecco ad esempio la parola kokènyszemu questa parola ha significato soltanto in ungherese e sarebbe inutile ogni sforzo di tradurla in serbo. Credo, inoltre, importante rimarcare che per annotare i suoi appunti personali lo scrittore utilizza spesso l’ungherese. [….]quando mi siedo per scrivere, speso trovo prima una parola ungherese o francese per quello che dovrei dire in serbo. Le espressioni ungherese sono, ad esempio, una sorta di piccole sorprese per il lettore, anche se i miei libri vengono tradotti in inglese o francese. Desidero dar loro questo piacere, far loro provare una gioia simile a quella che provavo io quando nei testi dei scrittori jugoslavi mi imbattevo in parole ungherese – in Krleza, ad esempio.(...)” (dall’ “Il residuo amaro dell’esperienza”)


Preso dal: Danilo Kis - L'enigma della lettera; Anita Vuco, Roma, 2006
 
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