Parole dall'Esilio

L'esilio è un tema a me molto caro che mi accompagna da molto tempo.
Lo è talmente tanto da avere la necessità di incontrare e leggere le storie d'esilio che non cessano mai di essere.
Ci sono scrittori che, avendolo vissuto, subito, scelto, hanno scritto le loro migliori opere da lontano.
Uno di questi è Juan Gelman, mio connazionale, che ha vissuto molti anni a Roma, in esilio, scegliendo il non ritorno.
Vi propongo qualche suo brano per lanciare le nostre riflessioni sugli scrittori dell'esilio.

"E' difficile ricostruire quello che è successo, la verità della memoria lotta contro la memoria della verità. Sono passati anni, i morti e gli odii si accatastano, l'esilio è una mucca che può dar latte avvelenato, alcuni sembrano alimentati così.
Nella colonia argentina esiliata prepondera l'apatia politica e di altro tipo. Si lavora o no, si studia o no, si impara la lingua del paese in cui si sta o no, si ricostruisce la vita o no. Le donne passano come fiumi, le si ama o no, le si trattiene o no.
Il bisogno di autodistruggersi e quello di sopravvivere lottano tra loro come due fratelli divenuti pazzi. Mettiamo gli abiti nell'armadio ma non abbiamo disfatto le valigie dell'anima. Passa il tempo e il modo di negare lo sradicamento è negare il paese dove si è, negare la sua gente, la sua lingua, rifiutarli come testimoni concreti di una mutilazione: la nostra terra è lontana, cosa ne sanno questi nativi delle sue voci, dei suoi uccelli, dei suoi lutti, delle sue perturbazioni.
Sono molto diversi da noi. Non si preoccupano davvero di noi. Non soffrono l'ingiustizia che ci è accaduta. I più solidali provano vergogna per noi. E' un loro problema ma incide su di noi. E' come se il dialogo tra stranieri su qualcosa di apparentemente comprensibile - il dolore degli uni - fosse confezionato da parte degli altri in pudori, candori, paternalismi, usanze.
Mai ci metteremo d'accordo. E molte volte saremo ingiusti, confonderemo l'umiltà con la superbia, la riserva con il mancato impegno, la volontà di non ferire con la volontà di non sapere.
Siamo malati. Cercheremo impegni con il Museo del Prado, con Santa Maria Maggiore, con la Place de la Contrescarpe, con il Paseo de la Reforma, con le scale mobili di Caracas, con Hyde Park di Londra. Sono impegni da stupidi e durano una stupidaggine. La meraviglia passa, il dolore resta. Come il fuoco dell'anima, resta.
Resta.

Forse il cielo non è lo stesso? Il cielo non è lo stesso. Dove sarà la Croce del Sud se non a sud? Non è lo stesso sole? No. Forse illumina Buenos Aires? Lo fa molte ore dopo, quando io non ci sono più.
Un altro colore del cielo, pioggia estranea, luce che la mia infanzia non conosce."

Roma/9-5-80
Bajo la lluvia ajena (notas al pie de una derrota)
Juan Gelman
 

El_tipo

Surrealistic member
ciao julia, bellissimo passo, complimenti ancora. Illustri poeti e scrittori, della storia della letteratura o anche contemporanei, hanno dovuto per ragioni politiche lasciare la loro patria. Mi viene in mente il grandissimo Ugo Foscolo, che ha scritto proprio sull'esilio i più bei sonetti della sua storia (la meravigliosa a Zacinto e la commovente In morte del fratello giovanni) ma anche Dante, il padre della nostra tradizione letteraria, visse tragicamente l'allontanamento dalla sua Firenze, con cui tuttoggi non si è ricongiunto. Avvicinandoci di più ai giorni nostri come non sentire le sofferenze di Pablo Neruda, o quella di Milan Kundera. Soprattutto quest'ultimo ha affrontato l'esilio con passione struggente in quasi tutte le sue opere, su tutti nel libro "l'ignoranza", uno dei miei preferiti, in cui descrive l’esilio sia dal punto di vista dell’esiliato, sia dal punto di vista degli altri.
 

sergio Rufo

New member
tema decisamente molto interessante con un ma, pero'-
Per un lettore che non ha mai vissuto un'esperienza simile puo' risultare facile non percepire tante cose, tante sfumature o comunque non riuscire a comprendere certe sofferenze. Puo' solo immaginarle.

Foscolo? bisognerebbe dire molto riguardo a lui. Un pazzo innamorato oltretutto poco Risorgimentale....
No, sto scherzando...

Dante? Si era perso per i suoi gironi...si era trasmutato in Dio conferendo punizioncine qui' e la'. Aveva poco tempo per tornare a Firenze da Gemma...o come cavolo si chiamava...:)
 

El_tipo

Surrealistic member
hai ragione brillante sergio, molte esperienze bisogna viverle per comprenderle a pieno. Io penso che il tema dell'esilio tocca particolarmente da vicino chi, non di certo per motivi politici ma a volte per ragioni lavorative o di studio, ha dovuto lasciare il posto dove è cresciuto per vivere altrove. La lontananza dei propri cari, dei propri amici, l'irripetibilità di quelle piccole abitudini ritualistiche che contraddistinguono la vita e soprattutto una cosa più grande di te che ti impedisce di tornare, sono degli strozzini che dilaniano il tuo animo e ti rendono un prigioniero.
 

sergio Rufo

New member
e' strano pero', El tipo, notare una piccola cosa: in un momento che la predica universale e' la globalizzazione del mondo, l' intermediazione culturale, la contaminazione delle discipline, poi - irrimediabilmente - la tua terra rimane la tua terra.
Oppure: l'esilio forzato o per scelta, rimane una ferita aperta, dolorosa, sofferente nonostante si predichi la cittadinanza del mondo.
Io sono il cittadino del mondo! e' un'emerita cazzata.
Almeno per me.
Ammiro molto, invece, coloro che rimangono attaccati a dove sono nati e patiscono l'esilio come una rottura, una frammentazione di se stessi.
Certo, e' una sensazione difficile da riportare in parole, nelle lettere. Ci si puo' avvicinare, ma non la si puo' comprendere fino in fondo.
O almeno io non riesco.

C'e' qualcosa di " natural-destino" nel nascere e nel vivere in un posto. Una sorta di Volk tedesco, forse? Non saprei cosa rispondere a questo, ma qualcosa c'e'.
E' anche vero il paradosso contrario.
Tu fai nascere un bimbo in un posto e un giorno dopo lo porti nell altro: quest'ultimo diverra' la sua patria.
Oppure: lo portii via a sua madre e lo dai a un altra donna. Quest'ultima diverra' sua madre...
Che dimostra? forse che gli affetti piu' chiari e limpidi poi tali non lo sono? o che non v'e' nulla di trascendentale ma solo occasioni di " circostanza" che diventono i tuoi valori?
 

El_tipo

Surrealistic member
questa discussione sta diventando sempre più interessante.
Anche io sono cittadino del mondo e ho cambiato molte volte luogo dove vivere...in ogni caso sono sicuro che se se sei un uomo e hai dei valori, non puoi non essere legato al posto dove sei cresciuto da ragazzino. Si crea proprio un legame, un filo teso che unisce te, i tuoi familiari e proprio la terra. L'essere innamorati della patria non vuol dire essere contrari alla globalizzazione, oppure non saper vivere al di fuori di essa. Vuol dire avere delle radici, vuol dire avere qualcosa che esiteva prima di te e che esiterà dopo di te, vuol dire qualcosa da amare ed odiare, che vuoi cambiare, che vuoi riconquistare.
Io non credo che dante si fosse trovato male a ravenna, o il foscolo a firenze; però quella assenza era talmente forte, da divenire insostenibile.
 

sergio Rufo

New member
el tipo, appena posso ti rispondo.
M'interessa molto quando parli di " radici", parola che oggi giorno non ha piu' fondamento, come le case non hanno piu' fondamenta dato che le costruiscono in un certo modo.
E il legame che ti tiene legato al " luogo" dove tu sei stato ragazzino.
Bella riflessione, sembra banale, ma non lo e' affatto, anzi.

appena posso ti rispondo piu' che volentieri.
 
Gli spunti che state sviluppando sono tutti molto interessanti. Sono tante le riflessioni; in questi anni molte delle mie sono state accompagnate da quelle di Sergio, ed è vero quanto dice sull'immaginazione di un vissuto.

L'esilio, per me, è come un altro mondo giornaliero, come se per errore mi fossi trovata in un'altra dimensione.
L'errore persistente ha, giorno per giorno, creato la verità. La verità nata da quell'errore che volevo a tutti i costi correggere, cioè, un qualunque errore ha corretto la verità.
Una verità che potrebbe essere legata all'eterna pratica della sua negazione, a Buenos Aires come a Pescara, nel barrio de Almagro come a Cerete.

Nei primi anni una cammina volando contro la più terribile irrealtà, è lenta e non ha paura della morte. Sopravvive negandosi.
Per un po' lavora tra due sponde, si guarda allo specchio che le restituisce – pian piano - un volto che assomiglia al suo progetto strampalato tra passato e futuro, un volto così carico di presente da lasciarla senza fiato, allora lotta tra quel passato e un possibile avvenire.
Come un altro mondo giornaliero.

Poi, si scende a compromessi con il presente. Si accetta che la luce del sole arrivi troppo in anticipo e che la luna sia sempre la stessa, anche dopo quattro ore. Si accorciano distanze come si farebbe con una gonna lunga, ricucendo orli da non tagliare per paura di ripensamenti. Si alzano sedie all’ora di pranzo per non sentire mancanze.
L'esilio è così, ti costringe a non sentirti inquilina - puoi anche fingere, conciliare, trionfare, persino morire - mentre nel tuo paese sono rimasti i giusti, gli inconciliabili, gli eroi e gli scomparsi.
Questi non ti lasciano più dormire così puoi sentire per sempre quella distanza lì. Anche dopo molti anni.
 

sergio Rufo

New member
si capisco, bene. So benissimo certe tue sensazioni.
L'esilio e' un tema doloroso non solo individualmente, ma doloroso nel senso epocale: ci sono stati esilii di massa.
Emigrazioni, esodi. L'esilio non e' solo andare via cacciato dalla propria terra, ma e' esilio dai propri tempi.
L'emograto di Bourget..., ricordi.
Io vedo oggi un altro esilio forzato che appartiene alle masse ( non tutte, ovvio, quelle superiori...): l'esilio da un "tempo" rinnegato da altri nuovi tempi.
Innaturali, malsani, malati, dis-umanizzanti. Questo io lo chiamo esilio da se stessi nel proprio tempo.
Il tempo e' uno: quello " lento", quello dell'accadere di per se'.
Noi lo abbiamo stravolto , lo abbiamo storpiato, lo abbiamo reso ossessivo, maniacale, paranoico: questo e' il peggior esilio che oggi si possa provare oltre quello della propria terra.

Sul piano esistenziale? non conta nulla. E' solo sul piano soggettivo che si soffre la " propria" pena, ma questa deve essere superata in un si e amen", perche' cosi' si vuole , si deve volere anche a ritroso.
E' stato cosi'! perche' io ho voluto che cosi' fosse.

Tutto il resto e' storia, e si sa, la storia non esiste.
 

lillo

Remember
....
Io vedo oggi un altro esilio forzato che appartiene alle masse ( non tutte, ovvio, quelle superiori...): l'esilio da un "tempo" rinnegato da altri nuovi tempi.
Innaturali, malsani, malati, dis-umanizzanti. Questo io lo chiamo esilio da se stessi nel proprio tempo.
Il tempo e' uno: quello " lento", quello dell'accadere di per se'.
Noi lo abbiamo stravolto , lo abbiamo storpiato, lo abbiamo reso ossessivo, maniacale, paranoico: questo e' il peggior esilio che oggi si possa provare oltre quello della propria terra.

Sul piano esistenziale? non conta nulla. E' solo sul piano soggettivo che si soffre la " propria" pena, ma questa deve essere superata in un si e amen", perche' cosi' si vuole , si deve volere anche a ritroso.
E' stato cosi'! perche' io ho voluto che cosi' fosse.

Tutto il resto e' storia, e si sa, la storia non esiste.
complimenti Sergio, la tua bellissima descrizione dell'esilio che l'uomo moderno vive, lontano da se stesso e dai propri pensieri, naufragato in un mondo fatto solo di lavoro, di perdita della propria individualità (oserei dire anche dignità), mi ha molto colpito.
La società di massa e dei consumi vista come esilio dell'uomo da se stesso.
E' il peggiore degli esili.
Anche se naufragato in terre isolate, l'uomo ha sempre la possibilità di incontrarsi, di ritrovare i propri pensieri, le prorie emozioni.
L'uomo del mondo liberista non riesce a ritrovare se stesso, è veramente solo. La cosa positiva per lui è che non lo sa.
 

sergio Rufo

New member
ti ringrazio, Lillo.

ma il sunto migliore e' il tuo: la societa' di massa e dei consumi vista come l'esilio dell'uomo da se stesso.

condivido assolutamente, Lillo.
 
"L'esilio è la cessazione del contatto di un fogliame e di un radicamento con l'aria e la terra connaturali; è come il finale violento di un amore, è come una morte inconcepibilmente orribile perché è una morte che continua ad essere vissuta coscientemente."

Julio Cortázar: "América Latina: exilio y literatura", manoscritto

Anche lui subì l’esilio, volontario ma necessario per la sua salvezza, considerato che era stato “avvertito” di lasciare il paese.
Credo che si decise quando scoprì che i suoi libri erano finiti nel rogo militare. Trovandosi già in Francia, decise di non fare più ritorno.
Stranamente, nelle suo opere dell’esilio, leggiamo la certezza di una morte che lo avrebbe raggiunto in tierra lejana.
E’ questa certezza che strugge ancor di più quando leggo il mio amato Cortázar: l’ineluttabilità come impulso vitale è quanto di più struggente si possa vivere.

Avvicinandoci di più ai giorni nostri come non sentire le sofferenze di Pablo Neruda, o quella di Milan Kundera. Soprattutto quest'ultimo ha affrontato l'esilio con passione struggente in quasi tutte le sue opere, su tutti nel libro "l'ignoranza", uno dei miei preferiti, in cui descrive l’esilio sia dal punto di vista dell’esiliato, sia dal punto di vista degli altri.

Ciao El tipo. Ho letto L’ignoranza e, ovviamente, mi ha toccato molto. Tanto da essere diventato mio strumento di lavoro nelle attività di mediazione culturale. Il passaggio sul nóstos è quanto di più profondo, sia sotto l’aspetto letterario che sociale, si possa leggere sui sentimenti dell’esilio.
Anche se è lungo mi preme postarlo in modo da condividerlo con chi non l’ha ancora letto.

"In greco "ritorno" si dice nóstos. Álgos significa "sofferenza". La nostalgia è dunque la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare. Per questa nozione fondamentale la maggioranza degli europei può utilizzare una parola di origine greca (nostalgia, nostalgie), poi altre parole che hanno radici nella lingua nazionale; gli spagnoli dicono añoranza, i portoghesi saudade. In ciascuna lingua queste parole hanno una diversa sfumatura semantica. Spesso indicano esclusivamente la tristezza provocata dall'impossibilità di ritornare in patria. Rimpianto della propria terra. Rimpianto del paese natio. Il che, in inglese, si dice homesickness. O, in tedesco, Heimweh. In olandese: heimwee. Ma è una riduzione spaziale di questa grande nozione. Una delle più antiche lingue europee, l'islandese, distingue i due termini: söknudur: "nostalgia" in senso lato; e heimfra: "rimpianto della propria terra". Per questa nozione i cechi, accanto alla parola "nostalgia" presa dal greco, hanno un sostantivo tutto loro: stesk, e un verbo tutto loro; la più commuovente frase d'amore ceca: styská se mi po tobe: "ho nostalgia di te"; "non posso sopportare il dolore della tua assenza". In spagnolo, añoranza viene dal verbo añorar ("provare nostalgia"), che viene dal catalano enyorar, a sua volta derivato dal latino ignorare. Alla luce di questa etimologia, la nostalgia appare come la sofferenza dell'ignoranza. Tu sei lontano, e io non so che ne è di te. Il mio paese è lontano, e io non so cosa succede laggiù. Alcune lingue hanno qualche difficoltà con la nostalgia: i francesi non possono esprimerla se non con il sostantivo di origine greca e non hanno il verbo relativo; possono dire: je m'ennuie de toi ("sento la tua mancanza"), ma il verbo s'ennuyer è debole, freddo, e comunque troppo lieve per un sentimento così grave. I tedeschi utilizzano di rado la parola "nostalgia" nella sua forma greca e preferiscono dire Sehnsucht: "desiderio di ciò che è assente"; ma la Sehnsucht può applicarsi a ciò che è stato come a ciò che non è mai stato (una nuova avventura) e quindi non implica di necessità l'idea di un nóstos; per includere nella Sehnsucht l'ossessione del ritorno occorrerebbe aggiungere un complemento: Sehnsucht nach der Vergangenheit, nach der verlorenen Kindheit, nach der ersten Liebe ("desiderio del passato, dell'infanzia perduta, del primo amore").

L’ignoranza, Milan Kundera © 2001, Adelphi editore

Una considerazione che è tutta mia: avendo letto e ricercato gli scrittori dell’esilio dell’area latinoamericana, noto un sentimento diverso in quelli europei. La storia, il diverso epilogo di quelle storie, le loro provenienze, segnano un modo di sentire che, secondo me, cambia espressione a seconda delle aree di provenienza degli autori.

Mi fa piacere continuare questo viaggio nella letteratura dell’esilio, e analizzare – come dice Sergio – nuove forme di intenderlo, dalle persecuzioni alle sopravvivenze.
 

El_tipo

Surrealistic member
assolutamente d'accordo sulla differenza tra europei e sudamericani nel modo di sentire.

beh, su questo c'è da discutere. Ammetto di non avere la minima esperienza per parlare della materia, ma non ho mai notato una differenza sentimentale nel sentimento dell'esiliato. Mi state dicendo che c'è esilio ed esilio? magari un esilio di serie A e uno di serie B?
 

sergio Rufo

New member
no, El tipo, io non credo che Julia intendesse questo.
Non e' una questione d A o B. Figuriamoci.
Per quanto mi riguarda intendevo dire che molte emozioni e la manifestazione di esse, cambiano tra europei e sudamericani. Ma penso di non scoprire niente di nuovo.
Ora dirti il perche', non saprei. Probabilmente per i motivi che espone Julia, tutto qui.
Ad esempio la nostalgia: gli europei sono un poco piu' freddi e riservati, mentre sembra che il " sudamericano" la soffra di piu'.
Non si chiama saudade? ( in portoghese)

Probabilmente sono storie davvero diverse.
Lancio un ipotesi assurda?
I popoli europei non sono stati soggetti a grandi migrazioni o a grandi deportazioni.
Dunque il distacco dalla propria terra e' un fantasma lontano. Non lo ingigantiscono emotivamente.

I sudamericani avendo vissuto emigrazioni piu' forti e avendo subito persecuzioni piu' frequenti ( dittature ecc.ecc.) hanno teorizzato un fantasma piu' pericoloso. Sono piu' sensibili.
Guarda solo l'emigrazione ( che e' una sorta di auto-esilio) per il lavoro...per la cstrizione di trovare un sostentamento lontano dalla loro terra.
Puo' essere anche questo.
 
Infatti, come dice Sergio, non esistono per me esilii diversi.
Il SENTIMENTO dell'esilio può esserlo, però.
Per quanto riguarda i latinoamericani - espongo velocemente perchè devo scappare ma ci ritorno - è un sentire che "ritorna".
Anche le popolazioni europee hanno subito grandi migrazioni, anzi, sono proprio queste che hanno abitato in massa il nostro continente.
Il viaggio, partito molto prima di noi, ha creato quella che mi piace chiamare la nostalgia della pre-nascita.
Prima di noi partirono i nostri nonni e, da loro, abbiamo ereditato la sindrome dell'emigrante.
Giunto l'esilio, quel sentimento si è radicato - arraigado diciamo noi - e non ci ha più abbandonato.

Ci torno su postando brani che possiamo confrontare. Magari ci ricrediamo e appuriamo che il nóstos è lo stesso in tutte le latitudini.
 
Non vi prendete male, ma trovo questo argomento molto doloroso (da mio punto di vista)... mi tocca nel più profondo punto del anima, e avevo cercato di non aprirlo proprio, di non leggerlo, di evitarlo peggio di una peste, ma alla fine, dopo due giorni di volontà di ferro, ho letto tutto.....
Sto scrivendo con la gola stretta....:(
E' sopratutto ho sentito le parole di El_tipo:


.....se se sei un uomo e hai dei valori, non puoi non essere legato al posto dove sei cresciuto da ragazzino. Si crea proprio un legame, un filo teso che unisce te, i tuoi familiari e proprio la terra. L'essere innamorati della patria non vuol dire essere contrari alla globalizzazione, oppure non saper vivere al di fuori di essa. Vuol dire avere delle radici, vuol dire avere qualcosa che esiteva prima di te e che esiterà dopo di te, vuol dire qualcosa da amare ed odiare, che vuoi cambiare, che vuoi riconquistare.

Nel mio caso, al posto della parola patria, io metterei la città (nativa), ma il resto combacia con il mio punto di vista: i miei radici - li ho tagliati volontariamente (in un certo senso), ma nello stesso modo, mi sento incapace di lasciarli piantare in un'altro luogo ....:???:
 

El_tipo

Surrealistic member
Nel mio caso, al posto della parola patria, io metterei la città (nativa), ma il resto combacia con il mio punto di vista: i miei radici - li ho tagliati volontariamente (in un certo senso), ma nello stesso modo, mi sento incapace di lasciarli piantare in un'altro luogo ....:???:

ciao nicole ormai ci "conosciamo" da un po e dallo schermo trasuda il legame con la tua terra,ho potuto apprezzare in più di una occasione quanto ti sia cara la tua città. Ti assicuro che anche io vivo in piccolo quello che vivi tu, e non credo proprio che il mio sentimento sia inferiore o diverso di quello dei sudamericani.
 

Dayan'el

Σκιᾶς ὄν&#945
E l'idea della baracca, dopo tutto, non � di Ira. Ha una storia. Era di Rousseau. Era di Thoreau. Il palliativo della capanna primitiva. Il posto dove sei ridotto all'essenziale, dove torni - anche se non � da l� che vieni - a decontaminarti e a dispensarti dall'impegno di lottare. Il posto dove ti togli - come un insetto durante la muta - le divise che hai indossato e i costumi che ti sei messo sulle spalle, dove ti spogli delle tue umiliazioni e del tuo risentimento, delle concessioni che fai al mondo e della sfida che gli lanci, della tua manipolazione del mondo e dei suoi maltrattamenti.

Parlare di un luogo come detentore delle proprie radici, equivale forse ad identificarlo con l'interno focolare domestico; per proiezione, o per estensione, esso assume le stesse caratteristiche di quell'ambiente entro il quale ognuno sente di essere, in qualche misura e per certi versi, immune. Il termine 'casa' ha diverse accezioni, per diversi intendimenti: vi si pu� individuare una costruzione in calce e mattoni, il ritrovo raccolto splendidamente descritto dal signor Roth, ed infine � lecito usarlo anche in riferimento al proprio Paese, come, appunto, espressione di appartenenza ad un unico, vasto e diversificato, bacino di valori: ovvero, la tradizione.
La porta di casa � il confine sottile oltre il quale cessa ogni conflitto col mondo, � l'inizio di una tregua provvisoria e precaria, che, tuttavia, consente quanto in ogni tempo � pi� dannoso all'uomo: l'abbandono totale alle proprie debolezze, l'ostensione intima di una stanchezza segreta non comunicabile e sempre presente. Se � vero che una guerra fa vinti e vincitori, � pure vero che le battaglie spossano, sfiancano. Ecco, all'interno delle mura della mia abitazione posso concedermi i miei difetti. Posso immaginare il mio Paese allo stesso modo: similmente al mio covo, anche la mia terra, le strade e le genti presso le quali e con le quali sono cresciuto mi consentono difetti non consentiti altrove. Posso essere in certo senso debole, di quelle debolezze riconosciute tra i miei luoghi e non altrove. Vizi italiani, francesi, spagnoli sono assolti, compresi, inglobati e perpetuati solo da coloro i quali hanno condiviso, a loro volta italiani, francesi, spagnoli; coloro i quali, insomma, combattono il mondo alla stessa maniera, e sono passibili delle stesse debolezze, degli stessi difetti.

Mi fermo qui, l'ora lo impone.
Mi limito soltanto ad osservare una curiosit� spietata: un'assonanza per certi versi crudele tra esilio, grande tra gli inferni mondani, ed elisio, luogo immaginifico di perpetua beatitudine. Quasi l'uno, come punizione aggiuntiva, richiamasse per allitterazione il suo consonante. Come fossimo dei Tantalo di tutti i giorni.
 

sergio Rufo

New member
El tipo, ti ripeto, non c'e' una differenza tra europeo e sudamericano come qualita'....No.

Nicole: vuoi dirci la tua storia? questa stanza mi sembra appropriata.

D: basta il fatto che tu abbia citato Thoreau ed e' tutto dire. Vita nei boschi e' il " controesilio" in un certo senso. E' ri-avvicinamento a casa.
 
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