Prosa e racconti brevi

Orazio

Member
Prendiamo un fiore,cresciuto in un deserto,con pochissima acqua.
Eppure è un bellissimo fiore,profuma ed è soffice al tatto,proprio come tutti gli altri fiori cresciuti nei prati,tra le montagne nelle vallate e giù per i pendii,nei fitti boschi,nelle campagne,sulle dune di sabbia del mare.
Non meriterebbe forse di essere trapiantato vicino ad un fiume,o ad un bel lago,o in un'umida regione,dove piove a ritmo regolare?
Eppure quel fiore si accontenta di molto poco per trarre il suo nutrimento dalla terra e dal cielo,ed ha imparato a non aspettarsi più nulla,ne il giorno di pioggia ne il vaso che lo porti altrove,ed è in quel fiore forse che puoi capire molte cose anche della tua vita.
 

Zingaro di Macondo

The black sheep member
Prendiamo un fiore,cresciuto in un deserto,con pochissima acqua.
Eppure è un bellissimo fiore,profuma ed è soffice al tatto,proprio come tutti gli altri fiori cresciuti nei prati,tra le montagne nelle vallate e giù per i pendii,nei fitti boschi,nelle campagne,sulle dune di sabbia del mare.
Non meriterebbe forse di essere trapiantato vicino ad un fiume,o ad un bel lago,o in un'umida regione,dove piove a ritmo regolare?
Eppure quel fiore si accontenta di molto poco per trarre il suo nutrimento dalla terra e dal cielo,ed ha imparato a non aspettarsi più nulla,ne il giorno di pioggia ne il vaso che lo porti altrove,ed è in quel fiore forse che puoi capire molte cose anche della tua vita.


La rosa di Atacama.
 

Orazio

Member
La rosa di Atacama.

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che meraviglia
 

Orazio

Member
E lì,dove finiva il mondo,e cominciava il mare ed il deserto trovai qualcosa di più prezioso di quello che credevo di avere perso.
 

Orazio

Member
Ora che il mio sguardo,si volge ancora alla montagna,ed al fitto bosco,non posso più trattenere il mio passo,e indugiare,
non farò più ritorno.
 

Orazio

Member
Quante cose abbiamo ancora da vedere,quante da leggere,quante da sentire.La vita va consumata,con autentica passione,con vero entusiasmo,con gli occhi lucidi di un bambino davanti al suo regalo migliore,ancora da scartare.
 

Orazio

Member
Quest'oggi non scrivero`ne una fiaba ne un racconto.
Ma un monito e una supplica per voi tutti.
L'amore non si adegua ai nostri tempi,alle nostre stravaganze o capricci.
E` qualcosa di molto antico e potente,che trascende la materia stessa.
Non si puo`rinnegarlo,e crearne uno ad uso e consumo in provetta,con chi ci fa sesso,in quel momento.
L'amore era quello,punto. Ci chiedeva molto si,forse troppo ma era amore e ci avrebbe salvati.
Tutto cio`prodotto dal non amore,dalla convenienza o dalla disperazione della solitudine conduce a sofferenza,dolore ed espiazione.
 

Orazio

Member
Non vi è nulla più che mi ricordi nel presente le emozioni che provavo allora.
Non vi è nulla di questi sogni che mi ricordi i sentimenti di un tempo,
sono solo incubi e tu ne sei l'essenza.
Vorrei solo non averti mai incontrata.
 

bouvard

Well-known member
Un veleno di troppo


Margherita era la puzzola più vanitosa, pettegola e golosa di tutta Boscodoro. Le piaceva spiare gli altri animaletti e spifferarne poi i segreti ai quattro venti. Per questo tutti gli animali, anche più grossi di lei, avevano paura della sua lingua lunga e velenosa. Ma un giorno Margherita fu trovata morta. Non di vecchiaia nella sua tana e neppure schiacciata da una macchina in mezzo alla strada. Era stata uccisa in una radura del bosco.
- Arriva Nasostorto! – gli animaletti ai margini della radura se lo bisbigliavano a fior di labbra. Nasostorto era il tasso più alto e più grasso che si fosse mai visto da quelle parti ed era anche il detective più bravo. Aveva l’abitudine di portare sempre un mazzolino di nontiscordardime appuntato sul taschino del gilet e questo faceva sospirare tutte le femmine al suo passaggio.
Una volta quando era ancora piccolo e inesperto aveva provato a rubare delle pesche. Ma gli era riuscito solo di farsi tirare uno zoccolo di legno in faccia da una contadina. E così quel giorno tra la vergogna, il dolore ed un naso storto si era chiusa per sempre la sua carriera di ladro.
Quando avanzò nella radura gli animaletti più coraggiosi lo seguirono. Ma al tasso bastò lanciare uno sguardo di traverso perché tutti se ne tornassero indietro con le orecchie abbassate e la coda fra le gambe.
Nasostorto dopo aver gettato un’occhiata veloce al cestino rovesciato ai piedi di Margherita ne seguì le tracce nell’erba. Alfio Codamozza, un vecchio sparviero a cui piaceva mettere sempre il becco nelle cose che non lo riguardavano, si alzò in volo per seguirlo. Le occhiatacce del tasso potevano fermare gli altri, ma di sicuro non le sue ali!
Nasostorto camminava osservando ogni piccolo dettaglio: il verso in cui erano piegati i fili d’erba, i rametti spezzati, i fiori calpestati. E non trascurava neppure di annusare i resti di cibo che trovava. Perciò non gli sfuggì la manciata di briciole schiacciate e pestate sotto una foglia di bardana. Dopo averle raccolte accuratamente se le infilò nell’inseparabile borsa a tracolla. Intanto uno scoiattolo che saltellava lì intorno lo chiamò e gli sussurrò all’orecchio la curiosa storia di quelle briciole.
Salutato lo scoiattolo Nasostorto girò prima a sinistra fra alcune piante di erica e poi poco più avanti si fermò a rovistare in un cespuglio di rosa canina. Il suo grasso fondoschiena si agitò affannosamente avanti ed indietro per alcuni minuti prima che riuscisse ad estrarre dalle spine uno spiedino. Da una tana lì vicino intanto facevano capolino gli occhietti furbi di una volpe che moriva dalla voglia di raccontargli un segreto. E Nasostorto fu ben felice di farselo raccontare.
Se per Alfio in cielo non c’erano siepi, steccati e fossi da superare per Nasostorto a terra era diverso. Eppure nonostante la sua imponente stazza riuscì a saltare agilmente su alcune pietre che affioravano dall’acqua di un ruscello per recuperare i resti di una ciambellina. Intanto due piccoli leprotti che giocavano lì intorno lo coinvolsero nelle loro folli corse prima di raccontargli cosa avevano visto qualche ora prima.
E continuando a seguire le tracce di Margherita Nasostorto arrivò in un campo di papaveri e fiordalisi dove la sua attenzione fu attirata da un pezzo di corteccia. Dopo averla annusata a lungo il tasso mise anche quella nella borsa, mentre un grillo si arrampicò sul suo dorso per sussurrargli qualcosa all’orecchio.
Per ultima finì nella borsa una frittella recuperata dietro un muretto di pietra. E una ghiandaia che si annoiava a covare tutto il giorno le sue uova lì vicino fu felicissima di avere qualcuno con cui scambiare due chiacchiere.
A questo punto Nasostorto con un rametto di origano fra i denti tornò nella radura dove gli altri animaletti erano rimasti ad aspettarlo.
- Bene, adesso so cos’è successo – disse e tutti gli animaletti lo guardarono sorpresi e ammirati. Aveva trovato il colpevole in meno di un’ora? Accidenti era davvero bravo!
Cominciamo da te Dorotea Spinosa - e Nasostorto si piazzò davanti ad un istrice femmina e tirando fuori dalla borsa la frittella aggiunse – L’hai fatta tu questa?
- Può essere, io faccio tante frittelle per i miei piccoli – rispose Dorotea con finta spavalderia.
- Se era per i tuoi piccoli allora facciamogliela mangiare – e il tasso allungò la frittella ad un piccolo istrice, ma Dorotea fu più lesta a strappargliela dalle zampe e a buttarla lontano.
Stai tranquilla Dorotea – disse Nasostorto - non è stata la tua frittella di agrifogli ad avvelenare Margherita. Tu non sapevi ahimè che le frittelle erano l’unica cosa che non mangiava. Una ghiandaia che cova le sue uova lì vicino l’ha vista mentre la buttava dietro un muretto di pietra senza averla neppure degnata di uno sguardo.
E adesso veniamo a te Beppa Uditofine – e Nasostorto indicò una lince - devo farti i miei complimenti il tuo tentativo era più astuto di quello di Dorotea. Le frittelle possono non piacere a tutti, ma l’acqua quando fa caldo e si è assetati piace proprio a tutti! Ma in questa corteccia – disse tirandola fuori dalla borsa - non c’era solo acqua vero Beppa? C’era anche della cicuta – e Nasostorto l’annusò di nuovo.
Ma mi dispiace dirtelo sei stata sfortunata anche tu Beppa e Margherita non l’hai avvelenata tu. Ti sei allontanata troppo presto perciò non l’hai vista inciampare nell’erba e rovesciare tutta l’acqua prima di aver bevuto. Io l’ho saputo da un grillo che ha rischiato di morire schiacciato dal suo corpo.
Tu invece Ferma Baffuta – e Nasostorto si avvicinò ad una martora – hai offerto a Margherita questa ciambellina alle bacche di ricino vero? – e il tasso tirò fuori il pezzo di ciambellina inzuppato – Sapevi che Margherita era golosissima di ciambelline. Non sai però che un’allodola gliel’ha rubata prima che riuscisse ad addentarla. Ma anche l’allodola non è riuscita a mangiarsela perché fortunatamente gli è sfuggita dagli artigli. Io ho recuperato quello che ne rimaneva fra i sassi di un ruscello e la sua rocambolesca storia me l’hanno raccontata due leprotti veloci più del vento.
Ma anche tu Gina Codalunga hai provato ad uccidere Margherita – e Nasostorto indicò una donnola - Una volpe che ha la tana lì vicino ti ha visto offrirle questo spiedino di carne – e il tasso lo tirò fuori dalla borsa – devo riconoscere che anche il tuo tentativo era davvero ingegnoso. Perché avvelenare la carne quando si può usare uno spiedo velenoso?! Oleandro, ottima idea. Ma anche tu sei stata sfortunata perché Margherita non ha fatto in tempo a mangiarselo, infatti sentendo arrivare qualcuno per non dividerlo ingorda com’era l’ha nascosto.
Eri arrivata tu Florinda Smilza – e Nasostorto indicò una faina – Tu invece le hai offerto una fetta di torta di aconito. Sono rimaste solo queste briciole – e il tasso svuotò a terra la borsa – Perché Margherita ha dovuto buttarla e darsela a gambe quando un contadino che l’aveva scambiata per il ladro del suo pollaio si è messo ad inseguirla. La poverina pensava di tornare a recuperare tutto appena il contadino si fosse allontanato, invece non è più tornata.
In cinque avete cercato di avvelenare Margherita, ma nessuna di voi c’è riuscita. Margherita l’ho avvelenata io!
Un forte brusio si levo nella radura e gli animaletti si guardarono meravigliati. Nasostorto aveva avvelenato Margherita?? E lo confessava così?
- Oggi pomeriggio mentre ero nel bosco a raccogliere bacche di belladonna per farne un siero ho sentito delle grida. Ho pensato che qualcuno fosse caduto nel ruscello e sono corso in aiuto abbandonando il mio cestino. Invece erano solo tre grossi cinghiali che litigavano per due mele. Quando sono tornato indietro purtroppo il mio cestino non c’era più. Margherita deve averlo trovato e affamata com’era per la corsa ha pensato solo a trovarsi un posto tranquillo dove abbuffarsi senza badare alle bacche che stava mangiando. Il risultato lo conoscete.
Nasostorto si allontanò dalla radura, mentre gli animaletti maschi cominciarono a commentare come se anche loro avessero capito tutto fin dall’inizio e le femmine sospiravano guardando il tasso con occhio languido.
 

Minerva6

Monkey *MOD*
Membro dello Staff
Ti darei il like sulla fiducia, ma voglio prima leggerla, così è meritato :wink:. Appena trovo un po' di tempo lo faccio.
 

qweedy

Well-known member
Un veleno di troppo


Margherita era la puzzola più vanitosa, pettegola e golosa di tutta Boscodoro. Le piaceva spiare gli altri animaletti e spifferarne poi i segreti ai quattro venti. Per questo tutti gli animali, anche più grossi di lei, avevano paura della sua lingua lunga e velenosa. Ma un giorno Margherita fu trovata morta. Non di vecchiaia nella sua tana e neppure schiacciata da una macchina in mezzo alla strada. Era stata uccisa in una radura del bosco.
- Arriva Nasostorto! – gli animaletti ai margini della radura se lo bisbigliavano a fior di labbra. Nasostorto era il tasso più alto e più grasso che si fosse mai visto da quelle parti ed era anche il detective più bravo. Aveva l’abitudine di portare sempre un mazzolino di nontiscordardime appuntato sul taschino del gilet e questo faceva sospirare tutte le femmine al suo passaggio.
Una volta quando era ancora piccolo e inesperto aveva provato a rubare delle pesche. Ma gli era riuscito solo di farsi tirare uno zoccolo di legno in faccia da una contadina. E così quel giorno tra la vergogna, il dolore ed un naso storto si era chiusa per sempre la sua carriera di ladro.
Quando avanzò nella radura gli animaletti più coraggiosi lo seguirono. Ma al tasso bastò lanciare uno sguardo di traverso perché tutti se ne tornassero indietro con le orecchie abbassate e la coda fra le gambe.
Nasostorto dopo aver gettato un’occhiata veloce al cestino rovesciato ai piedi di Margherita ne seguì le tracce nell’erba. Alfio Codamozza, un vecchio sparviero a cui piaceva mettere sempre il becco nelle cose che non lo riguardavano, si alzò in volo per seguirlo. Le occhiatacce del tasso potevano fermare gli altri, ma di sicuro non le sue ali!
Nasostorto camminava osservando ogni piccolo dettaglio: il verso in cui erano piegati i fili d’erba, i rametti spezzati, i fiori calpestati. E non trascurava neppure di annusare i resti di cibo che trovava. Perciò non gli sfuggì la manciata di briciole schiacciate e pestate sotto una foglia di bardana. Dopo averle raccolte accuratamente se le infilò nell’inseparabile borsa a tracolla. Intanto uno scoiattolo che saltellava lì intorno lo chiamò e gli sussurrò all’orecchio la curiosa storia di quelle briciole.
Salutato lo scoiattolo Nasostorto girò prima a sinistra fra alcune piante di erica e poi poco più avanti si fermò a rovistare in un cespuglio di rosa canina. Il suo grasso fondoschiena si agitò affannosamente avanti ed indietro per alcuni minuti prima che riuscisse ad estrarre dalle spine uno spiedino. Da una tana lì vicino intanto facevano capolino gli occhietti furbi di una volpe che moriva dalla voglia di raccontargli un segreto. E Nasostorto fu ben felice di farselo raccontare.
Se per Alfio in cielo non c’erano siepi, steccati e fossi da superare per Nasostorto a terra era diverso. Eppure nonostante la sua imponente stazza riuscì a saltare agilmente su alcune pietre che affioravano dall’acqua di un ruscello per recuperare i resti di una ciambellina. Intanto due piccoli leprotti che giocavano lì intorno lo coinvolsero nelle loro folli corse prima di raccontargli cosa avevano visto qualche ora prima.
E continuando a seguire le tracce di Margherita Nasostorto arrivò in un campo di papaveri e fiordalisi dove la sua attenzione fu attirata da un pezzo di corteccia. Dopo averla annusata a lungo il tasso mise anche quella nella borsa, mentre un grillo si arrampicò sul suo dorso per sussurrargli qualcosa all’orecchio.
Per ultima finì nella borsa una frittella recuperata dietro un muretto di pietra. E una ghiandaia che si annoiava a covare tutto il giorno le sue uova lì vicino fu felicissima di avere qualcuno con cui scambiare due chiacchiere.
A questo punto Nasostorto con un rametto di origano fra i denti tornò nella radura dove gli altri animaletti erano rimasti ad aspettarlo.
- Bene, adesso so cos’è successo – disse e tutti gli animaletti lo guardarono sorpresi e ammirati. Aveva trovato il colpevole in meno di un’ora? Accidenti era davvero bravo!
Cominciamo da te Dorotea Spinosa - e Nasostorto si piazzò davanti ad un istrice femmina e tirando fuori dalla borsa la frittella aggiunse – L’hai fatta tu questa?
- Può essere, io faccio tante frittelle per i miei piccoli – rispose Dorotea con finta spavalderia.
- Se era per i tuoi piccoli allora facciamogliela mangiare – e il tasso allungò la frittella ad un piccolo istrice, ma Dorotea fu più lesta a strappargliela dalle zampe e a buttarla lontano.
Stai tranquilla Dorotea – disse Nasostorto - non è stata la tua frittella di agrifogli ad avvelenare Margherita. Tu non sapevi ahimè che le frittelle erano l’unica cosa che non mangiava. Una ghiandaia che cova le sue uova lì vicino l’ha vista mentre la buttava dietro un muretto di pietra senza averla neppure degnata di uno sguardo.
E adesso veniamo a te Beppa Uditofine – e Nasostorto indicò una lince - devo farti i miei complimenti il tuo tentativo era più astuto di quello di Dorotea. Le frittelle possono non piacere a tutti, ma l’acqua quando fa caldo e si è assetati piace proprio a tutti! Ma in questa corteccia – disse tirandola fuori dalla borsa - non c’era solo acqua vero Beppa? C’era anche della cicuta – e Nasostorto l’annusò di nuovo.
Ma mi dispiace dirtelo sei stata sfortunata anche tu Beppa e Margherita non l’hai avvelenata tu. Ti sei allontanata troppo presto perciò non l’hai vista inciampare nell’erba e rovesciare tutta l’acqua prima di aver bevuto. Io l’ho saputo da un grillo che ha rischiato di morire schiacciato dal suo corpo.
Tu invece Ferma Baffuta – e Nasostorto si avvicinò ad una martora – hai offerto a Margherita questa ciambellina alle bacche di ricino vero? – e il tasso tirò fuori il pezzo di ciambellina inzuppato – Sapevi che Margherita era golosissima di ciambelline. Non sai però che un’allodola gliel’ha rubata prima che riuscisse ad addentarla. Ma anche l’allodola non è riuscita a mangiarsela perché fortunatamente gli è sfuggita dagli artigli. Io ho recuperato quello che ne rimaneva fra i sassi di un ruscello e la sua rocambolesca storia me l’hanno raccontata due leprotti veloci più del vento.
Ma anche tu Gina Codalunga hai provato ad uccidere Margherita – e Nasostorto indicò una donnola - Una volpe che ha la tana lì vicino ti ha visto offrirle questo spiedino di carne – e il tasso lo tirò fuori dalla borsa – devo riconoscere che anche il tuo tentativo era davvero ingegnoso. Perché avvelenare la carne quando si può usare uno spiedo velenoso?! Oleandro, ottima idea. Ma anche tu sei stata sfortunata perché Margherita non ha fatto in tempo a mangiarselo, infatti sentendo arrivare qualcuno per non dividerlo ingorda com’era l’ha nascosto.
Eri arrivata tu Florinda Smilza – e Nasostorto indicò una faina – Tu invece le hai offerto una fetta di torta di aconito. Sono rimaste solo queste briciole – e il tasso svuotò a terra la borsa – Perché Margherita ha dovuto buttarla e darsela a gambe quando un contadino che l’aveva scambiata per il ladro del suo pollaio si è messo ad inseguirla. La poverina pensava di tornare a recuperare tutto appena il contadino si fosse allontanato, invece non è più tornata.
In cinque avete cercato di avvelenare Margherita, ma nessuna di voi c’è riuscita. Margherita l’ho avvelenata io!
Un forte brusio si levo nella radura e gli animaletti si guardarono meravigliati. Nasostorto aveva avvelenato Margherita?? E lo confessava così?
- Oggi pomeriggio mentre ero nel bosco a raccogliere bacche di belladonna per farne un siero ho sentito delle grida. Ho pensato che qualcuno fosse caduto nel ruscello e sono corso in aiuto abbandonando il mio cestino. Invece erano solo tre grossi cinghiali che litigavano per due mele. Quando sono tornato indietro purtroppo il mio cestino non c’era più. Margherita deve averlo trovato e affamata com’era per la corsa ha pensato solo a trovarsi un posto tranquillo dove abbuffarsi senza badare alle bacche che stava mangiando. Il risultato lo conoscete.
Nasostorto si allontanò dalla radura, mentre gli animaletti maschi cominciarono a commentare come se anche loro avessero capito tutto fin dall’inizio e le femmine sospiravano guardando il tasso con occhio languido.

Complimenti, è un racconto meraviglioso! E' veramente perfetto, ben scritto e ben strutturato! Leggendolo, si vedono tutte le immagini, scorre come un film. Scrivi davvero molto bene!
 

Grantenca

Well-known member

Amarcòrd

UNA GITA IN CITTA’

Una partita di calcio contro gli studenti, di pari età, delle scuole medie era stato il pretesto per l’oratorio del nostro paese per una visita al collegio salesiano……………di Ferrara. Era la tarda primavera del ’57 o forse del ’58. Noi eravamo, a quel tempo, dei virtuosi del calcio.
All’oratorio del mio paese c’erano le condizioni ideali per giocare a pallone. L’attrezzo, naturalmente, poi il campetto con le porte a misura di ragazzi, ma soprattutto gli attori: moltissimi giovanissimi e giovani dai 9/10 ai 16/17 anni. Non c’erano a quei tempi, problemi legati alla scarsa natalità. Una famiglia come la mia (tre figli) era nella media. Si giocava, con le scarpe di tutti i giorni (per la disperazione di mia madre, ma allora c’erano molti ciabattini, il nostro, di fiducia, veniva chiamato “ciùldìn” –chiodino-), con squadre di sette elementi e si “andava” ai due gol. La squadra che perdeva usciva e ne entrava un’altra, così, dal primo pomeriggio, dopo le preghiere delle 13.30, fin verso sera, con l’unica interruzione delle preghiere delle ore 17.00. Certo fra i ragazzi di 10 anni e quelli di 16 si riscontrava una certa disparità, essendo il calcio anche gioco di “contatto”, ma questo rafforzava il carattere.
Il pullman celeste , nel primissimo pomeriggio, era già pronto e fu preso d’assalto, per accaparrarsi i posti vicino ai finestrini. La capienza era al completo, non solo noi della squadra , ma anche altri ragazzi che non avevano alcun interesse per il calcio, ma erano elettrizzati da questo “fuori programma” alla “routine” quotidiana. Il clima era naturalmente effervescente, noi, tra l’altro, convintissimi di impartire una severa “lezione” a quegli studentelli di città. Eravamo abituati a vincere contro i pari età dei paesi vicini, che non avevano le nostre strutture, e quindi conoscevano il pallone un po’ meno di noi. Ci accompagnavano, per tenere l’ordine, il prete più giovane come rappresentante dell’oratorio e il padre di Romano, un nostro giocatore, un uomo massiccio, di poche parole, che incuteva una certa riverenza solo a guardarlo.
Il tragitto si percorreva in poco meno di un ‘ora, ed era la medesima strada percorsa in senso inverso da Edgardo Limentani, il protagonista dell’ ”Airone” di Bassani per recarsi a caccia in valle, e che la penna del grandissimo scrittore ferrarese ha reso immortale.

La prima sorpresa fu il campo di gioco, che era in cemento, ma ci adattammo in poco tempo, dal momento che eravamo abituati al nostro campetto in teoria d’erba, ma in realtà di terra battuta per l’ uso “intensivo” (in realtà l’erba non aveva mai il tempo di crescere). La seconda fu l’altezza delle porte, decisamente molto superiore a quella delle porte del nostro campo, e il nostro portiere, pur molto valido, era un po’ corpulento e non eccelleva per statura. Sta di fatto che i “ferraresi” cominciarono a bombardare la nostra porta da tutte le posizioni, tirando sempre in alto e i gol cominciarono a “fioccare” (nella nostra porta). Ci battemmo come leoni, con tutte le nostre forze: disegnammo sul campo bellissime e raffinate trame e geometrie, che riscossero anche l’approvazione dei pochi spettatori, ma, alla fine, dovemmo trangugiare fino in fondo il contenuto dell’amarissimo calice della sconfitta!

Ora il programma prevedeva una funzione religiosa nella chiesetta del collegio e successivamente il saluto di commiato del rappresentante del nostro oratorio e del rappresentante del collegio. Un programma ben poco allettante per dei ragazzi già delusi dalla sconfitta sul campo di gioco. Fu in quel momento che il serpentello della trasgressione, che alberga nell’animo della grande maggioranza degli adolescenti, fece la sua comparsa e in tre (il sottoscritto, Sergio e Romano) decidemmo che non era il caso di recarci in chiesa. Sapevamo che le cerimonie non sarebbero durate meno di un’ora, e avevamo tutto il tempo (almeno tre quarti d’ora) per fare una passeggiata in città e tornare senza che nessuno si accorgesse di nulla. Attendemmo che tutti fossero entrati nella cappella e, rapidi e silenziosi, uscimmo dal portone e ci trovammo sulla strada. Una strada larghissima, con ampi marciapiedi, girammo subito a sinistra e ci guardammo intorno. Grandi e bellissimi palazzi sui due lati, bar con i tavolini sui marciapiedi, i silenziosi filobus – per noi una novità assoluta – vetrine scintillanti, la giornata soleggiata tra l’altro era magnifica e tutto ci appariva ancor più bello. Dopo poco vedemmo un ‘enorme cartellone pubblicitario, con una bionda e bellissima ragazza vestita di rosso che sorrideva a trentadue denti bianchissimi (forse era la réclame di un dentifricio) che prendemmo come punto di riferimento per il ritorno. Continuammo a camminare, con gli occhi che si beavano di tutto quello che vedevano, anche le persone che incrociavamo ci sembravano più distinte di quelle che eravamo abituati a vedere tutti i giorni; poi girammo a sinistra in una strada altrettanto ampia e affascinante, e poi ancora a destra: tutto magnifico: “com’è bella la città, com’è grande la città……” avrebbe cantato qualche anno dopo un nostro grande artista, ed era proprio così. Il mio orgoglio aumentava passo dopo passo, soprattutto quando pensavo che, mentre noi stavamo scoprendo il mondo, i nostri compagni stavano recitando il rosario!
Poi Romano, che aveva l’orologio, disse che era ora di tornare. Facemmo rapidamente dietro front ed iniziò il ritorno. Camminavamo con un passo un po’ più sostenuto di prima , ma dopo un bel po’ di strada , per un attimo, ebbi la sensazione che quello che vedevo intorno a me non l’avessi notato all’andata. Ma fu solo un attimo: ad un incrocio vedemmo a destra il cartellone pubblicitario, e svoltammo decisi per raggiungere il collegio. Ma il portone non si vedeva, andammo ancora avanti anche se all’andata non ci era sembrato così distante dal cartellone, ma ancora nulla: dopo un po’ ci fermammo e dovemmo prendere atto di avere sbagliato strada! (forse la citta, in quei giorni, era invasa da quei cartelloni pubblicitari). Rimanemmo un attimo perplessi, ma solo un attimo: eravamo in tre, molto uniti, e non dovevamo temere nulla.

Poi la prontezza e il senso pratico che distingue la nostra gente ci venne in soccorso: dov’è il collegio……….. chiedevamo ai passanti, e tutti furono molto gentili…è un po’ lontano…, intanto tornate indietro fino all’incrocio con il semaforo, poi girate a destra, andate avanti ancora un poco, poi alla seconda traversa…. E iniziò così il vero ritorno; ad ogni svolta chiedevamo conferma se la direzione fosse giusta, ma non si arrivava mai. I tre quarti d’ora erano abbondantemente trascorsi, anche un’ora, ma del portone del collegio neppure l’ombra. Poi finalmente, dopo una svolta, vedemmo in lontananza, sul vialone, il nostro pullman fermo proprio davanti a quel portone, con tutti i passeggeri sul marciapiedi. Ci sentimmo più sollevati, e incrementammo il passo, anche se consapevoli che non saremmo stati accolti da applausi. Man mano che ci avvicinavamo il marciapiede si svuotava, la capace pancia del pullman accoglieva tutti i passeggeri, e quando giungemmo a destinazione sul marciapiede erano rimasti solo la tonaca nera del prete e un po’ più avanti, proprio nei pressi dell’apertura di salita posteriore dell’automezzo, il padre di Romano, con le mani sui fianchi ed un espressione ben poco rassicurante.
Cercammo di salire in tutta fretta, ma non fu abbastanza: io mi beccai un calcione sulle parti molli che quasi mi fece salire sul mezzo senza toccare i gradini, quasi in contemporanea Sergio uno scapaccione, sul retro del collo, che lo fece rotolare quasi di corsa tra le braccia del prete, ma il peggio toccò a Romano. Il mastodonte si sfilò la cinghia dai calzoni e, utilizzandola come uno scudiscio, cominciò a colpire la gambe nude del figlio. Romano saltava come un capriolo ma non riuscì ad evitare la dura punizione. Quando sedette vicino a me aveva le gambe striate in rosso dal trattamento. il pullman poi si mise in moto per il ritorno, in un silenzio quasi irreale. Piano piano però la tensione si stemperò , e tutti ripresero a chiacchierare; solo noi tre parlavamo poco.

Alla sera, a cena, dovetti soddisfare la curiosità dei miei, e raccontai ogni dettaglio della gita, omettendo però completamente l’ultimo atto, pur se mi vedeva tra i protagonisti principali . Di quei fatti poi non sentii più parlare. E’ strano che certi avvenimenti negativi che ci vedono protagonisti e che opprimono pesantemente la nostra persona addirittura oltre, qualche volta, la reale consistenza dell’accaduto, per gli altri, presi come sono dalla loro quotidianità, al di là dell’interesse del momento, le stesse cose passano velocemente nel dimenticatoio. Sono quasi certo che i miei mai vennero a conoscenza dell’accaduto.

Ora, ricordando quei momenti, mi viene da sorridere. Quei fatti però sono emblematici per descrivere il tipo di rapporti che c’erano a quei tempi tra adulti e ragazzi, tra genitori e figli, tra insegnanti e allievi. Era un rapporto assolutamente gerarchico e noi credevamo ciecamente nell’autorità, in qualunque forma si manifestasse. Di quel tipo di educazione furono però le ultime fiammate, gli ultimi bagliori. Solo 10-15 anni dopo ai genitori della mia generazione, che pur qualche “vessazione” l’avevano subita, non passava neanche lontanamente per la testa il fatto di toccare i figli, anche solo con un dito, per una qualche loro mancanza. Fu una grande conquista , se teniamo conto che, in meno di un ventennio, mandò definitivamente in soffitta un modo di rapportarsi tra generazioni che si era consolidato nei secoli.
Il tutto avvenne quasi senza che ce ne accorgessimo, in modo naturale. E’ vero che a ciò contribuì in buona misura la rivoluzione industriale (il boom economico degli anni ‘60) , ma il motivo principale fu soprattutto la cultura, l’aumento esponenziale in tutte le classi sociali del livello minimo di cultura, per la quasi totale scolarizzazione ma anche, fatto non secondario, con il diffondersi in modo capillare di mezzi di informazione di massa come la radio e soprattutto la televisione.
Il fatto strano è però che la memoria di quegli anni, abbastanza complicati sotto molti punti di vista e, tra l’altro, con una scuola molto autoritaria e selettiva, è tra le cose più gratificanti dei miei ricordi. Forse perché, poi, la vita……….

 

Orazio

Member
Com'e`il carbone ardente quando il fuoco e`ormai spento
ed il riccio di mare che si chiude al tocco
cosi`e`il cuore dell'uomo,
che si raffredda e indurisce.

Cosi`e`la vita quando tutto prova e sperimenta
al ritmo folle del cuore
senza timore,
desiderosa ad ogni istante
traboccante d'emozione.
Eppoi l'esperienza gela inesorabilmente
gli steli del fior di vita dell'uomo..
che ricade sulla sua bocca vuota
che un tempo conteva si tanta animosa passione.
 

Grantenca

Well-known member
Il mio coronavirus

IL MIO CORONAVIRUS

Le scuole già da qualche settimana erano chiuse. Erano già state istituite le zone rosse di Codogno, in Lombardia e di Vo Euganeo in Veneto. Non c’era però grande allarmismo, le autorità sanitarie e politiche trasmettevano messaggi rassicuranti sulle conseguenze del virus…., si qualche anziano, purtroppo, ci avrebbe lascito le penne, ma erano anziani con diverse altre patologie…niente, insomma, che potesse riguardare qualcuno in buona salute.
I giorni passavano, di anziani con problemi di salute dovevano essercene però moltissimi perché i morti crescevano in maniera esponenziale (a pensarci bene dopo gli 80 anni non sono molti quelli che si possano vantare di essere sani come un pesce), ma dalle nostre parti tutto era tranquillo. Nessun caso, neanche per sbaglio! La mia vita, ordinaria e piatta (ma, spero, non sciatta), era rimasta immutata. La figlia qualche volta a pranzo, partite a carte o a biliardo con coetanei al centro di ritrovo, qualche film alla domenica, qualche libro in attesa di pranzo o cena, qualche incursione, rigorosamente con mia moglie, nei centri commerciali per cercare spesso quello che non si poteva trovare , qualche lavoretto nel mini – orto casalingo, e il piatto forte delle partite di calcio, esclusivamente nella sala televisione del centro, per l’infingardo, sottile piacere di far imbestialire i tifosi della squadra perdente.
Sto seguendo, in perfetto relax, verso le tre di un pomeriggio, una bella partita a stecca, quando una persona, di quelle sempre informate su tutto, entra nella sala, affermando che è stato trovato nel comune un primo contagiato al virus: si tratta del dentista………..; è un fulmine a ciel sereno, una notizia bomba, ma, oltretutto, è il mio dentista!. Dice che sono già stati contattati dalla A.S.L. i pazienti che negli ultimi otto giorni sono stati nel suo ambulatorio. Faccio mente locale e ricordo bene che ci sono stato anch’io dal dentista, 6 giorni prima! Un brivido mi percorre dalla radice dei pochi capelli alla punta dei piedi!. Saluto in fretta tutti e mi avvio verso casa.
Informo immediatamente del fatto mia moglie, sempre molto più presente di me nei momenti difficili, anche se però ancora nessuno dalla ASL mi ha cercato. Per avere la certezza dell’accaduto contatto telefonicamente lo studio dentistico, che mi conferma tutto, e chiedo quindi il motivo per il quale io non sono stato contattato dall’A.S.L. Mi rispondono che, probabilmente per errore, il mio nominativo non è stato segnalato! Mi lasciano il numero telefonico dell’Ufficio A.S.L. che li controlla e provo a chiamare. “L’operatore non è al momento disponibile ma resti in linea ecc…ecc…”.dice il telefono, una volta, due, tre ,quattro cinque volte nel giro di un paio d’ore ma solo musichetta (Mozart o Beethoven? Non ricordo bene) , non ci sono operatori disponibili!
Già abbastanza agitato decido di fare il numero della protezione civile che la televisione ripete almeno quattro cinque volte tutti i giorni. Mi rispondono, finalmente: caccia al tesoro, con il rinvio ai numeri 1,2,3,…: interrogatorio a tutto campo, dati anagrafici, motivo della telefonata, situazione familiare, stato di salute ecc…ecc. Alla fine di tutte queste informazioni mi dicono di contattare il mio medico di famiglia per le opportune disposizioni. Ma il mio medico di famiglia è in vacanza! Il sostituto non sa neanche chi sono. Sono perplesso sul da farsi e quindi, non sapendo cos’altro fare al momento, decido di contattare il presidente del circolo ricreativo per segnalargli la faccenda e, d’accordo tutti e due, in un attimo, decidiamo di chiudere immediatamente il locale. Una decisione epocale!
Un po’ scoraggiato e demoralizzato dalla piega degli eventi, telefono a mia figlia (prudentissima!) per impedirle di venire a trovarci e lei, per incoraggiarmi, mi rifila una serie di disposizioni di sicurezza, la più importante delle quali è quella di dormire con mia moglie in stanze separate. Devo riferire che, proprio alla fine dell’anno scorso, mia moglie ha subito un intervento chirurgico non banalissimo, che ha però superato brillantemente al di là delle più ottimistiche previsioni, ma alla luce di questi fatti, mi appare fragilissima, anche se, obbiettivamente, sta meglio di me. Ceno, per abitudine, ma senza appetito, guardo un po’ di televisione senza seguire il programma e vado a letto. Certo sintomi di malattia non ne ho, ma è una notte piena di fantasmi. A dormire non ci penso proprio, non vedo l’ora che arrivi il giorno dopo per contattare l’ A.S.L.
E così è. Trovo la persona giusta , mi sottopongono ad un interrogatorio di terzo grado, soprattutto sul mio stato di salute e sulla mia situazione familiare, ma anche sulla natura dell’intervento odontoiatrico (in verità ero andato dal dentista per un mal di denti e mi aveva ordinato una settimana di antibiotici, che stavo ultimando, ed ero stato nello studio poco più di un quarto d’ora). Non mi impediscono di uscire, ma solo di frequentare luoghi con assembramenti di persone, e mi prescrivono di misurarmi la temperatura al mattino e alla sera, oltre a seguire le regole sanitarie che oramai sono di prassi, e ogni giorno mi avrebbero contattato per monitorare la situazione, fino alla fine della quarantena, che sarebbe durata quattordici giorni, di cui sei già trascorsi.
Ora sono un po’ più tranquillo anche perché sto bene e mia moglie meglio di me. (Lei dorme tutta la notte, esattamente il contrario di quello che normalmente mi succede). Mi meraviglia però un po’ il fatto che per lei, dal momento che conviviamo, non abbiano previsto nessun controllo. Comincio quindi a pensare a tutte le persone con cui sono stato a stretto contatto in questi ultimi sei giorni, non sono state poche. Dopo qualche dubbio (magari le metto in allarme per niente!) penso però che hanno famiglia, moglie, figli, nipoti e decido, anche se non sono certo di fare la cosa giusta, di contattarli telefonicamente tutti. Mi ringraziano, magari a denti stretti, mi chiedono come sto e li rassicuro, ma in molte voci sento preoccupazione.
I giorni passano. Stiamo bene, l’A.S.L. ci contatta quotidianamente, ma ricevo anche un sacco di telefonate da chi ho contattato. Non ci sono mai state tante persone nella mia vita che si sono così puntualmente preoccupate della mia salute!
Il pomeriggio del quarto giorno (decimo quindi della quarantena) sento però uno strano malessere, poi qualche brivido di freddo e un forte mal di testa, qualche starnuto, inappetenza. Ecco il virus, ne sono certo! Non dico nulla a mia moglie, che sta bene, per non rovinarle la nottata, mantengo con la massima attenzione le distanze, ceno velocemente e, con la scusa che mi sento un po’ stanco vado subito nella mia stanza da letto, non c’è nemmeno bisogno di controllare la temperatura che certamente è alterata. E’ una notte lunghissima, naturalmente senza prendere sonno, e penso a mille cose, anche al fatto che potevo andare dal dentista una settimana prima, qualche avvisaglia c’era già, ma, si sa, la poltrona del dentista è ancora oggi una delle meno ambite. Ho però le idee chiare. Domattina chiamerò l’ASL, mi verranno a prendere in ambulanza per portarmi all’ospedale adibito a cura del virus, che non è molto lontano dalla mia abitazione, senza così che nessun mio familiare abbia contatti con me, il che potrebbe essere molto pericoloso. Alle sette del mattino, come tutti i giorni, faccio il controllo della temperatura: 36,2 gradi! Immediatamente la metà dei miei sintomi di malessere spariscono, mi alzo, faccio colazione anche con un certo appetito, un bel sospiro di sollievo: si torna alla normalità, seppur a scartamento ridotto. Così piano piano termina la quarantena, senza però un’altra sorpresa, che nulla ha a che fare però con le mie sensazioni di quei giorni. Un conoscente, di quelli che avevo avvertito del mio “contatto” con il contagiato mi telefona, come quasi tutti i giorni e mi chiede naturalmente come sto, gli rispondo “bene, come sempre”, un attimo di silenzio poi “ma dove sei? “gli rispondo, anche un po’ sorpreso “a casa, naturalmente, dove dovrei essere? Ma, dice, “ ieri in piazza correva la voce che eri ricoverato a Padova, grave, in terapia intensiva! Ah le voci di paese! Sono così venuto a conoscenza che, senza mai avere avuto una sola linea di febbre, venivo considerato, praticamente, defunto. Ora che potessi essere in terapia intensiva data la mia età, poteva anche essere credibile, ma perché all’ospedale di Padova quando nella mia provincia ci sono ben due ospedali che curano il Covid-19? Misteri del popolino. La prendo bene, comunque, perché dicono che queste cose allungano la vita. Intanto però si è già innescato il lockdown ed ora le restrizioni sono ancora superiori a prima.
Per un’altra decina dei giorni, in verità, non sto benissimo, sintomi strani di malesseri temporanei che però nulla hanno a che fare con quelli che, dicono, tipici del virus e che riesco a mascherare senza che nessuno se ne accorga. Tutto poi torna nella normalità, e affronto il lockdown diligentemente, seguendo tutte le istruzioni. Uscite di servizio rigorosamente suddivise con mia moglie, la figlia che fa di tutto perché restiamo sempre in casa. Mi adatto, certamente aiutato anche dall’età, forse meglio del previsto. Un po’ di giardinaggio (per la prima volta nella mia vita questa attività mi ha anche, seppur moderatamente, gratificato) qualche libro, ne ho letto anche uno che ho molto apprezzato, qualche partita di calcio dei vecchi tempi alla televisione, qualche telefonata, la conferenza della protezione civile delle ore 18.00, il teatrino delle dichiarazioni di politici e scienziati sul virus, e nelle belle giornate, un’oretta in giardino a godermi il sole e ad osservare le acrobazie delle lucertole tra le aiuole; così è passato il lockdown, senza, almeno apparenti, danni cerebrali.
Ora ci si può muovere liberamente, anche se è una libertà pesantemente condizionata dalla mascherina e dalla distanza fisica. E’ molto triste incrociare un conoscente ed essere restii, per prudenza di una parte o dell’altra, a scambiare due chiacchiere, come è penalizzante non poter stringere la mano o abbracciare una persona cara che non si vede da un po’ di tempo. Dico la verità: preferirei la normalità assoluta pur consapevole di qualche rischio. Capisco però le autorità; chi è stato scottato dall’acqua bollente teme anche l’acqua tiepida. Io però ho già cominciato a giocare qualche partita a biliardo seppur, rigorosamente, mascherato; giocare a carte non si può!
In questo vortice di sensazioni ed emozioni del tutto nuove perché dovute ad una causa che nessuno di noi aveva mai conosciuto, un fatto mi ha soprattutto colpito: in nessun momento, nemmeno ora, ho mai pensato seriamente alle conseguenze che il virus poteva avere sulla mia persona, che, statisticamente, potrebbero anche essere piuttosto rilevanti. Ho solamente pensato alle conseguenze sulle persone che, seppur involontariamente, avrei potuto infettare: A mia moglie, soprattutto, ma anche a mia figlia che era stata in nostra compagnia in quei giorni, nonché agli amici e conoscenti che avevo frequentato. Per uno che non ha mai affrontato i pericoli con spavalderia, anzi ha sempre cercato di evitarli e, se non era possibile, almeno di aggirarli, uno che ha smesso di fumare (ah, che piacere mi recava il fumo!) solamente per paura del cancro ai polmoni, e che quando passava a miglior vita uno della sua generazione, che quasi sempre conosceva abitando in un piccolo centro, il primo pensiero che faceva non era il compianto per il defunto ma “ a me non può sempre andar bene!” Uno che quando aveva un po’ di tosse per quattro cinque giorni di seguito pensava subito ” questo è l’inizio del calvario”, uno così, non proprio ipocondriaco forse, ma insomma…., come può non aver paura del virus? Forse è stanchezza esistenziale? la vita mi è venuta a noia? Penso proprio di no.
Certo non sono immune da qualche piccolo contrattempo fisico ed anche mentale (la memoria….) abbastanza normali (dicono) per la mia età, anche i piaceri della tavola sono “contingentati”, il notturno riposo ristoratore molto spesso si trasforma in una dura lotta con Morfeo che, generalmente, mi vede sconfitto, ci sono poi anche le “cosiddette” giornate “no”. Tutto vero, senza dubbio, ma è sufficiente che per un attimo pensi al mio percorso di vita e mi guardi semplicemente intorno perché mi renda conto di essere stato, almeno fino ad ora, un uomo molto fortunato, un grande beneficiato dalla sorte.
Cosa allora mi ha infuso questo “coraggio”? Mi sono convinto che il fatto non dipenda da me, ma sia molto probabilmente determinato dalla perfezione biologica della natura umana. Dopo una certa età, ad ogni anno che passa e quindi, inevitabilmente, ci si avvicina al passaggio della linea invisibile oltre la quale non c’è più ritorno, la naturale paura dell’evento fatale diminuisce. Sembra un controsenso, ma mi sono convinto che non può essere altro che così. Se fosse il contrario la terza età sarebbe un inferno, invece vi posso garantire che, in una situazione di normalità, è ancora vita degna.
Dicono che “andrà tutto bene”: lo spero vivamente.
Lunga vita ai frequentatori di questo social elitario e alle loro famiglie!
06/06/2020
 

bouvard

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ALLA MIA AMATA “CIMABUE”



… vorrei averti fatto altre foto. Vorrei aver registrato la tua voce, magari mentre mi raccontavi le marachelle che avevi fatto da bambina, per poterla riascoltare adesso. Vorrei aver… vorrei aver… vorrei aver… quante cose vorrei aver fatto, cose importanti e piccole sciocchezze, ed ora è proprio il fatto di non poterle più fare a farmele mancare da morire.

Ho sempre pensato, stupidamente, che avevamo ancora tanto tempo da passare insieme, quindi che fretta c’era? Quante volte ti ho detto “questo lo facciamo domani…” o “quest’altro lo faremo dopodomani…” ed invece la riserva di tempo a nostra disposizione, quella che sembrava infinita, è finita all’improvviso. Senza preavviso. E senza possibilità che potessi dire: “non sono ancora pronta”.

Ci sono, è vero, le tante “foto” della mia memoria. Una piccola, scarna consolazione.

C’è quella di quando rubasti per me un rametto di ciliegie. Nonostante siano passati così tanti anni, in una parte della mia memoria siamo ancora lì, io e te da sole sedute in quel prato a mangiare ciliegie, sulla nostra testa un cielo terso, di un azzurro così limpido come ormai a Giugno non ne vedo da anni, circondate solo dal rincorrersi e sovrapporsi dei canti di uccelli, grilli, cicale e rane disturbati dalle nostre voci e dalle nostre risate.

C’è poi la foto di quel pomeriggio che, per tenermi buona sotto le coperte a causa della febbre, mi cucisti, con infinita pazienza nonostante le mille cose che avevi da fare, un vestitino per la mia bambola. Ricordi? Me l’avevano regalata l’anno prima, quando mi ero operata di appendicite. In effetti non era una bambola, ma un bambolotto con i capelli corti biondi e una tutina bianca e rossa. Anche il vestito che ti obbligai a cucire era rosso, ricavato dal rimasuglio di una stoffa con cui mi avevi cucito una gonna. A quanto pare quello era il mio “periodo rosso”, perché qualche mese dopo allo stesso bambolotto pitturai anche i capelli di quel colore con gli acquerelli, pensando che poi bastasse lavarglieli perché tornassero biondi. Ricordo ancora la mia delusione e la tua faccia divertita quando scoprì che pur lavandoli a tornare biondi proprio non ci pensavano!

C’è poi quella foto in bianco e nero, questa scattata per davvero, in cui fissi l’obiettivo con il sorriso fresco dei tuoi vent’anni e i tuoi lunghi capelli neri una volta tanto lasciati sciolti e in mano una borsetta geometrica così tanto anni Sessanta. Quando eravamo piccoli ce la ritrovavamo sempre fra le mani ogni volta che cercavamo qualcosa nel tuo armadio.

In quella foto eri già fidanzata con papà… lasciatelo dire il tuo più grande errore. Meritavi un uomo migliore. Due persone con niente in comune voi due. Tu, sempre così indaffarata, instancabile, capace di stare con le mani a riposo solo quando stavi proprio male, altrimenti anche a letto chiedevi che ti lasciassi i panni da piegare o qualcos’altro da fare perché di stare con le mani in mano proprio non eri capace. Mentre lui ha fatto uno stile di vita di quel suo motto che ripete in continuazione: “non si può fare sempre tutto, qualcosa deve rimanere indietro”. E chissà perché a lui di cose indietro ne sono rimaste sempre tante.

Tu, sempre lì a preoccuparti per gli altri e per noi figli in particolare, al punto da dimenticarti di te stessa. Tanto che persino mentre eri attaccata a quel dannato ventilatore polmonare eri preoccupata che non mi facessi lasciare niente da mangiare. E lui incapace di pensare al plurale e di guardare al di là del proprio interesse, ogni volta che ascolto “La parola Io” di G. Gaber penso che gli sia stata cucita addosso. Mi sono sempre chiesta se potendo tornare indietro avresti ricommesso l’errore di sposarlo. Ho paura che lo avresti rifatto solo per noi figli. Ma a volte voglio illudermi che come marito sia stato migliore che come padre.

Negli ultimi anni eri diventata la nostra “Cimabue”, incapace di mettere un pezzo di legno in una stufa o una teglia in un forno senza farti qualche piccola bruciatura sulle braccia. Per non farti sgridare tiravi subito giù le maniche della maglia, senza pensare che proprio quelle maniche ai polsi invece che rialzate come al solito ci mettevano in allerta. Come potevamo immaginare lo stato in cui te le avrebbero ridotte nei tuoi ultimi giorni di vita?

C’è un prima e c’è un dopo. Ed io ora devo imparare a vivere in questo dopo. Un dopo in cui non potrò più chiederti di raccontarmi per l’ennesima volta di quando raccogliesti i fichi d’india nella gonna buscandole poi di santa ragione dalla nonna, in cui non mi sentirò più chiedere “ti va un tè?”, in cui non mi arrabbierò più perché hai lasciato giusto un goccio di detersivo o di bagnoschiuma nel flacone, in cui non potrò più chiederti se Tizio e Caio erano fratelli o cugini, in cui non potrò più...

E’ iniziato quel dopo di cui ho sempre avuto paura in cui dovrò imparare a vivere senza di te, ma per ora è troppo difficile perciò mi rifugio spesso nei miei ricordi e nella rabbia verso Dio.​
 

bouvard

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A CIASCUN GIORNO BASTA LA SUA PENA*

1989

L’anziana donna era seduta da un pezzo sullo scalino dell’uscio di casa e se non fosse stato per il viso, a causa della sua immobilità e della posizione raccolta, la si sarebbe potuta scambiare per un fagotto di vecchi stracci abbandonato lì da chissà quanto tempo.
Un paio di logori scarponi maschili troppo grandi e pesanti per i suoi piedi, sformati dalle tante piogge e rugiade che ne avevano lavato la polvere, screpolati in egual misura da soli estivi e da fuochi invernali, spuntavano da sotto una gonna lunga fin quasi alle caviglie. A prima vista la gonna appariva di un colore terroso, un miscuglio alquanto grossolano di grigio nero e marrone come se a mischiare i colori fosse stato un pittore frettoloso o poco accorto. Ma bastava spingere lo sguardo nelle pieghe della stoffa non violate dal sole per riconoscere nel nero l’unico colore originario.
Di quello stesso colore terroso erano anche il corpetto, stretto sul petto smunto da una fila di gancetti, ed il fazzoletto da cui, vicino alle orecchie, sfuggivano alcuni fili bianchi così sottili da sembrare più ragnatele che capelli. A spezzare il rigore di quei colori vedovili era una camicia bianca dal colletto inaspettatamente elaborato. I vestiti da soli, con la loro strana foggia, più ancora del viso della donna, ne collocavano la nascita nell’altro secolo.
E se il corpo della donna aveva trovato in quell’immobilità una sorta di pace e riposo il suo viso era di contro irrequieto e mutevole come un cielo spazzato dal vento. A tratti gli angoli della sua bocca si abbassavano in un dolce sorriso, subito dopo le sopracciglia si corrucciavano per una rabbia segreta, quindi un velo marmoreo veniva ad avvolgere quegli occhi così espressivi in un freddo dolore, e di nuovo il viso si illuminava in una risata a stento trattenuta...
Saranno stati forse l’ora vespertina, quando i raggi del sole lasciano sempre più spazio alle ombre della sera, o forse la stagione, quel dolce autunno che con il suo mutare colore ad ogni cosa induce le persone alla malinconia, a far dimenticare alla donna la sua abituale solerzia e farla abbandonare ai ricordi su quello scalino. Novant’anni di vita stavano passando rapidamente nella sua memoria e sulla sua faccia...
Eccola rivedersi giovinetta e il rossore del primo amore affiorarle sul viso. Dio mio quanto tempo era passato da allora! Le sue giovani labbra, assetate di vita e di risate, avevano dato il loro primo bacio quando il mondo ancora non era sprofondato nella carneficina della Prima Guerra Mondiale. Le era toccato vivere quella lunga notte durata tre anni nell’ansia e nella speranza di veder tornare dal fronte il suo uomo. Uomo. Un ragazzetto di vent’anni. Ma alla loro generazione non fu concesso né il piacere né l’innocenza di essere giovani. Il giorno in cui fu firmata la dichiarazione di guerra da ragazzini diventarono adulti.
Il suo Peppe però dalla guerra era tornato e lei lo aveva sposato in una fredda giornata di Gennaio del 1920.
Il tempo di una breve felicità ed ecco un nuovo carico di ansia gettarsi sulle loro giovani spalle. La gente all’improvviso cominciò ad ammalarsi con la stessa naturalezza con cui a Marzo le primule nei campi aprono i loro petali ai primi soli. Si faceva presto a dire di stare lontano dagli ammalati. Come farlo quando in una stanzetta a viverci erano in sette, otto, nove o anche più? Come riuscire a stare lontano quando tuo figlio, scosso da una tosse cavernosa, ti implora per un bicchiere d’acqua?
Ma Dio doveva aver ascoltato le preghiere di quella donna, perché l’anno dopo le concesse di diventare madre di un fagottino piccolo e paffutello i cui polmoni sani li tenevano svegli tutta la notte. Ma mai grida furono più amate e lei come ringraziamento a Dio lo chiamò Adamo.
Dopo quel primo figlio, che invece di farli scacciare dal loro paradiso terreno ancor di più ce li aveva radicati, di figli ne vennero altri cinque, due femmine e tre maschi, nati nel giro di poco più di quindici anni.
Non aveva mai avuto una vita facile la donna, svegliarsi quando ancora le tenebre avvolgevano il cielo e passare tutta la giornata china sulla terra, zappettare, falciare, vendemmiare, potare… ogni stagione aveva le sue pesanti incombenze. Per fortuna però la sera intorno al focolare il suo Peppe sapeva raccontare meravigliose storie e per quanto la giornata fosse stata pesante e faticosa quando la donna poggiava la testa sul cuscino aveva sempre la sensazione che quei folletti e quegli gnomi delle storie del marito si fossero presi sulle loro spalle, portandoselo via, il carico di ansia e preoccupazioni che tutto il giorno aveva gravato invece sulle sue di spalle. O forse non erano i folletti, ma Dio a caricarselo sulle spalle quando ascoltava le sue preghiere.
Una fede in Dio incrollabile quella della donna che non si affievolì neppure quando una delle sue figlie, una bimbetta di dieci anni, morì per una bronchite. Esiste forse dolore più lancinante e straziante per una madre della morte di un figlio? Per la donna fu come se un pezzo di carne le fosse stato strappato a vivo dal corpo e ogni giorno un nugolo di formiche rosse venisse a banchettarci sopra impedendone ogni cicatrizzazione. Fu un dolore senza riposo, né tregua, senza possibilità di oblio o di guarigione. Un dolore che le rosicava l’anima e l’accusava ad ogni respiro, ad ogni battito del cuore, il suo stesso vivere era una colpa.
Dio aveva preteso troppo dalla donna e questa avrebbe avuto tutto il diritto di voltargli le spalle gridandogli “perché a me?” o “perché mia figlia?”, ma la donna non lo fece, nel suo cuore non trovò mai la forza di perdonare se stessa, ma vi trovò quella di perdonare Dio. E chinò la testa come il giorno chinava la schiena. Sia fatta la tua volontà.
E dopo una ventina d’anni Dio, come aveva già fatto tante volte con Giobbe, mise ancora una volta alla prova la fede della donna e per vagliare il grano dalla loppa le inflisse un altro dolore disumano. E questa volta le negò anche il sollievo di poter dare al figlio morto un ultimo bacio, o accarezzargli un’ultima volta quei capelli che gli aveva pettinato tante volte da piccolo. Il figlio morì in Argentina e lei lo seppe solo mesi dopo da una lettera, o forse il suo cuore di madre lo sentì subito. Anche questa volta la fede della donna non vacillò, ma non per questo il suo dolore fu meno forte. Dio dà e Dio prende. Sia fatta la sua volontà.
Infine le toccò sopravvivere anche al suo Peppe per ventitré lunghi, lunghissimi anni. E in quegli anni di solitudine la donna aveva sentito spesso la Morte camminarle non troppo discosta e con il passare degli anni sentiva quella distanza assottigliarsi sempre di più, ma questo non la spaventava. Forse anzi qualche volta aveva provato anche a giocarle qualche tiro mancino, accelerando all’improvviso il passo per poi fermarsi bruscamente dietro la svolta nascosta di un viottolo in modo che la Morte le finisse addosso e la prendesse fra le sue braccia, ma non era servito, la Morte si era sempre fermata per tempo guardandola con un tenero sorriso. Non le capitava spesso di vedersi attesa con un animo così sereno e tranquillo.
Una lacrima intanto stava scendendo lungo le gote scavate della donna, possibile fosse vera quella voce di bambina che la chiamava con tanta impazienza? “Mamma vieni!” e la donna prontamente rispose: “Sto arrivando, aspettami”. Il sole intanto era tramontato dietro l’enorme quercia davanti la casa, ma la donna non se ne accorse e rimase immobile sullo scalino con, sulle labbra, il dolce sorriso della conoscenza finalmente appagata.
Dio dà e Dio prende. Sia fatta la sua volontà.


*Matteo (6,34)
 

lettore marcovaldo

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La guerra della signora Erminia Longhi

"Guardi signor Commissario, non sento ragioni. Voglio giustizia! La cosa è diventata intollerabile!".
"Signora Longhi capisco benissimo. Ma deve anche rendersi conto che la situazione non è poi così grave."
"Quindi non basta che mi ritrovo una finestra con un vetro rotto? devo aspettare almeno una fucilata?"
"Ma non dica queste cose signora! In fondo si è trattato dell'opera di un paio di ragazzini. Sono stati debitamente redarguiti e sarà risarcita dai genitori."
"Il riformatorio ci vuole! Ah se ci fosse il mio povero Amilcare!"
"Si calmi signora, deve comprendere..."
"Un accidenti comprendo!"

Questa volta si era andati oltre ogni misura. In fondo aveva ragione a lamentarsi la signora Erminia Longhi fu Giuseppe vedova Mantovani.
La guerra che insanguinava tutta l'Europa e opponeva da circa un anno l'Italia all'Austria si era manifestata all'inizio solo attraverso le pagine dei giornali. Successivamente con la partenza di molti giovani della cittadina di mare dove abitava. Infine, sempre più spesso, attraverso la consegna di telegrammi che andavano a funestrare la vita di tante famiglie. Da qualche mese però Erminia era coinvolta in prima persona. Un crescendo di maldicenze la vedevano indicata addirittura come spia o complice del nemico.
Era mai possibile che una povera vedova fosse tirata dentro a simili assurdità? Prima le voci, poi le lettere anonime mandate al commissariato e adesso le rompevano i vetri delle finestre.

La storia della spia era nata perchè ospitava nella sua pensione degli stranieri e si era stata scatenata dopo l'improvvisa comparsa un paio di mesi prima di un sottomarino nemico al largo della costa. La prima vittima del sottomarino era stato il veliero "San Salvatore". L'imbarcazione navigava lungo la costa trasportando vino e olio. All'inizio l'attribuzione dell'affondamento era stata molto chiacchierata.
Il comandante Mantero era un vecchio ubriacone e il secondo (suo nipote) un riconosciuto conta balle. Notoriamente l'equipaggio era composto dai marinai più scalcinati e pezzenti disponibili su piazza.
La storia che al tramonto si fossero trovati di fronte un sottomarino in emersione che li aveva affondati con due precise cannonate era sembrata una invenzione. Forse c'era di mezzo qualche truffa per l'assicurazione? Testimoni che non fossero membri dell'equipaggio del "San Salvatore" non erano a disposizione. E poi un sottomarino in quelle acque sembrava una vera stranezza.

Quando due settimane più tardi il bastimento "Tancredi" che trasportava legname per l'esercito era stata attaccato in pieno giorno facendo la stessa fine del "San Salvatore", tutti si erano dovuti ricredere. Oltre a quella dei sopravvissuti questa volta c'era anche la testimonianza dell'equipaggio di un barchino da pesca che aveva assistito all'assalto da una caletta poco distante.

Presto era cresciuta una psicosi, non solo in relazione al pericolo che veniva dal mare ma anche a causa di voci che parlavano di spie. Queste spie avrebbero segnalato al sottomarino le possibili prede e la presenza delle poche navi da guerra che passavano lungo quel tratto di costa. Allora qualcuno aveva iniziato a far circolare sospetti sui forestieri presenti in zona. Ben presto le voci avevano iniziato a coinvolgere la signora Erminia.

Erminia era vedova del povero Amilcare Mantovani. Un uomo alto e imponente, dalla voce tonante, fondamentalmente gioviale ma che sapeva farsi rispettare. Se fosse stato ancora in vita Amilcare nessuno avrebbe osato vessarla.
Purtroppo Amilcare erano morto diversi anni prima. Come recitava la lapide al cimitero: "stroncato nella maturità da improvviso malore lasciava affrante la vedova e le figlie inconsolabili".

Amilcare Mantovani era stato un commerciante grossita di buon successo che aveva iniziato la sua carriera in gioventù, nelle colonie, seguendo certi affari. Poi era tornato in Italia dove aveva conosciuto Erminia. Dopo il matrimonio erano andati a vivere nella cittadina sul mare e li erano nate due figlie. Dopo la morte improvvisa di Amilcare la moglie aveva cercato di portare avanti l'attività del marito. Di li a pochi anni aveva fatto in modo di maritare le figlie: una a nostro signore con il nome di suor Benedetta e l'altra a un piccolo industriale della provincia di Milano, proprietario di una manifattura di recipienti di metallo.
Due sciminute secondo Erminia. La prima forse perchè toccata fin da bambina dalla "chiamata". Si può immaginare che questo ad alcuni smuova qualcosa in testa. L'altra era invece sicuramente scimunita di suo, per costituzione naturale. Come il genero d'altra parte: un tipo ridicolo e tronfio. Povero nipotino!
Rimasta sola Ermina aveva liquidato l'attività. Insieme con il ricavato della vendita della villetta di famiglia aveva comprato due grandi appartamenti al primo piano di una elegante palazzina sul corso e si era data all'attività di pensionante. Con una ristrutturazione aveva messo in comunicazione i due appartamenti e ne aveva modificato la pianta ricavando ampie stanze con bagno.

La pensione in ricordo della storia di Amilcare si chiamava "Eritrea". Nel corridoio che portava dalla porta d'ingresso all'interno era appesa una panoplia di armi bianche africane e arabe. Erano scimitarre e pugnali con i loro foderi decorati che erano state raccolte da Amilcare durante i suoi viaggi.
Infine un ritratto del defunto stava appeso a una parete del soggiorno destinato agli ospiti della pensione.
La pensione "Eritrea" era un posto decoroso e sobrio, gestito da Erminia con fermezza e una certa ruvidità. Ruvidità che a dire il vero riservava normalmente alla maggior parte di coloro che si trovava davanti.

Gli unici ospiti della pensione in quei giorni difficili erano:

Le signorine Susan e Abigail McCoy. Due sorelle, inglesi, nubili, vicine ai sessant'anni. Vivevano a Firenze da molti anni ma incuranti del conflitto in corso avevano mantenuto l'abitudine di fare lunghi soggiorni in diverse località d'Italia. Pare fossero zie di un colonnello inglese. Da alcuni anni frequentavano la pensione. Eccentriche e incontentabili diceva Erminia. Era pur vero che prenotavano la camera con largo anticipo e pagavano un paio di mesi di soggiorno. A volte la stanza rimaneva vuota per pochi giorni quando erano impegnate in brevi escursioni e visite nei dintorni.

Peter Holsen. Un giovane danese. Pittore, scrittore, giornalista e altre cento cose. A volte eccedeva con l'alcol ma senza risultare molesto. Un tipo stravangante. Dicevano che andava a fare il bagno nudo all'alba ed era dedito a strane credenze esoteriche. Un altro scimunito per Erminia. Una volta aveva anche provato a invitare una ragazzotta nella sua stanza. Erminia gli aveva fatto una bella lavata di testa. Per cosa aveva scambiato la sua onorata pensione? Comunque anche lui pagava puntualmente e il suo soggiorno durava da più di sei mesi.

Poi c'era "il libico" o "l'arabo", così soprannominato dalla voce popolare. Il ragioniere Pasquale Filotico di Manduria. Pelle olivastra, capelli nerissimi e leggermente crespi, magro e tutto nervi, due occhi a palla e un accento impossibile. Piuttosto riservato e decisamente scontroso. Alloggiato da un paio di mesi per conto della ditta di conserve che si trovava alle spalle della cittadina. La ditta comprava per le sue produzioni alcuni materie prime dal Sud e Filotico vantava numerosi contatti nelle zone di approvvigionamento. A volte si allontanava per questioni di lavoro. Era in attesa di affittare un appartamento vicino alla fabbrica e far venire moglie e figli.

L'unica consolazione della signora Erminia in quel periodo era il signor Larousse. Un bel signore elegante e cortese. Svizzero di Losanna. Era un rappresentante di commercio che stava frequentando la zona per affari. Un bel paio di baffi a manubrio proprio come quelli che portava il povero Amilcare. Erminia sospirava di nostalgia ogni volta che lo vedeva girare per la pensione. L'uomo aveva occhi penetranti e sorridenti. Come quelli di Amicalre. A volte le veniva anche qualche cattivo pensiero, tanto che passando nel soggiorno dove era appeso il ritratto del marito si sentiva in colpa e arrossiva.
 

lettore marcovaldo

Well-known member
Queste presenze e le molte antipatie che Erminia amava coltivare tra i suoi concittadini erano state le cause che agitavano i sospetti e la stupidità di alcuni.
A dire il vero anche Erminia aveva qualche sospetto su un paio di ospiti. Non certo su quel gentiluomo del Larousse o sulle due McCoy. I danesi in fondo non erano una specie di mezzi tedeschi? e Filotico poi? quello non le era mai piaciuto. Era pur vero che il proprietario della fabbrica di conserve, buon amico del povero Amilcare, si era raccomandato tanto...

Ermina era a letto sveglia e si rigirava ancora innervosita dalla visita della mattina in commissariato.
La gente si era bevuta il cervello. Circolavano le voci più strane. Si era arrivati al punto che qualcuno, alcune settimane prima, aveva denunciato i frati del convento sulle colline. Si parlava di misteriose segnalazioni notturne dalle finestre del convento rivolte verso il mare. Sempre di notte, sui crinali delle colline adiacenti erano stati anche avvistati strani bagliori luminosi. Il commissariato era stato sommerso dalle segnalazioni.
Dopo qualche tempo era finalmente arrivata la notizia dei risultati che le indagini della polizia avevano dato. Le misteriose segnalazioni notturne altro non erano che il normale accendersi e spegnersi delle luci in base ai momenti di preghiera. A tarda sera e all'alba, secondo le regole che scandiscono la vita dei monaci.
Quanto ai bagliori sui crinali si trattava di contatti casuali dei fili telegrafici che innescavano delle scintille.
La gente si era veramente bevuta il cervello!

La donna era sul punto di addormentarsi quando le parve di sentire dei rumori. Ma non riusciva a sentire bene. Si alzò dal letto e con passo leggero si avviò verso la porta della sua camera. Poi uscì, sempre con passo leggero, cercando di scrutare nell'oscurità. In quel momento nella pensione c'erano solo Holsen e Larousse. Le due inglesi erano ospitate per qualche giorno da una contessa in una località dell'entroterra. Filotico invece era andato nel capoluogo e sarebbe tornato il giorno dopo.
Erminia pensò che il danese si fosse portato qualche donnaccia in stanza ma arrivata alla sua porta non sentì nulla di strano. Solo l'uomo che russava leggermente. Più avanti invece la porta di Larousse era socchiusa. Adesso sentiva sussurrare. La voce però veniva da più lontano. Dalla porta d'ingresso della pensione.
Si incamminò lungo il corridoio e nella penombra vide una figura accanto alla porta d'ingresso parzialmente aperta. Era Larousse che parlava con qualcuno sul pianerottolo.
Stava giusto in quel momento porgendo un plico alla persona fuori dalla porta.

Erminia si lasciò sfuggire una esclamazione di sorpresa. Larousse si voltò di scatto e la guardò. La debole luce che si faceva strada tra le imposte chiuse, proveniente dai lampioni del corso, non consentiva alla donna di vedere bene il volto di Larousse. Il tono della sua voce però era chiaro, netto e duro. Non il solito tono affabile e gentile.
"Stai calma e zitta" le intimò. Poi estrasse dalla tasca della vestaglia da camera quella che appariva come una piccola pistola.
Sembrava quasi un giocattolo ma quello non era un gioco.
La donna arretrò a piccoli passi spinta all'indietro dall'avanzare lento ma deciso di Larousse.
"Zitta e non ti faccio niente".
Arrivata a metà del corridoio sentì che le venivano meno i sensi e allungò una mano per appoggiarsi al muro.
Sentì sotto le dita i foderi delle scimitarre appese alla parete.
Larousse le era quasi addosso quando con una forza inattesa Erminia afferrò l'impugnatura di una delle scimitarre e tentò di sfoderarla. Rimase però bloccata in una posa goffa perchè l'arma faceva resistenza.
"Fermati! cosa pensi di fare? ... ferma ... non ti faccio nulla" sibilò beffardo Larousse.
Erminia fu colta dalla disperazione e strappò di nuovo con tutta la forza che aveva in corpo. La scimitarra questa volta cedette e uscì dal fodero. Ermina sbilanciata fece un mezzo giro su sé stessa e nel corridoio risuonò il rumore di una sorta di rintocco metallico.
La donna si voltò guardando Larousse che si stringeva un polso mugolando di dolore. Gli era caduta la pistola.
In quel momento, da sotto la porta della camera di Holsen che era accanto a loro balenò il chiarore di una luce accesa rivelando la posizione della pistola sul pavimento.
L'uomo vide l'arma e imprecando si chinò per raccoglierla. In quel momento Erminia strinse le due mani sull'elsa, alzò la scimitarra sopra la testa e chiudendo gli occhi la calò con tutta la forza che le rimaneva.

Uno sparo ruppe il silenzio che avvolgeva la palazzina.

Holsen uscì precipitandosi dalla sua camera intontito dal sonno e da tre di bicchieri di Vermout che aveva bevuto poche ore prima.
Scivolò su qualcosa di viscido che copriva il pavimento. Un uomo si dibatteva a terra urlando terribilmente. A pochi passi di distanza Erminia seduta a terra, spalle alla parete, gemeva invocando aiuto.

Era stata fortunata Erminia perchè il colpo a breve distanza che era riuscito a sparare Larousse l'aveva colpita solo di striscio ad un fianco, incrinandole una costola.
In un certo senso era stato fortunato anche Larousse. Infatti, se il colpo di scimitarra da un lato gli aveva tranciato malamente un orecchio e provocato una ferita al collo dall'altro aveva mancato per pochi millimetri arterie vitali.

Paul Larousse alias Pablo Olivares, cittadino spagnolo, alias Marcel Chateau, cittadino francese (questi erano i nomi riportati nei documenti che nascondeva nei suoi bagagli) era evidentemente una spia.
Forse non aveva nulla a che fare con il sottomarino ma certamente aveva carpito alcune informazioni che erano state trovate tra le sue carte. Della persona sul pianerottolo nessuna traccia ma le autorità stavano investigando.

Poco tempo dopo Erminia in convalescenza si trovava nella pensione. Seduta nel soggiorno assistita dalle amorevoli cure delle signorine McCoy. Rileggeva loro per l'ennesima volta la lettera ricevuta dal prefetto e in particolare il passaggio che diceva "...si encomia per la sua condotta ardimentosa la signora Erminia Longhi vedova Mantovani che con ammirevole sprezzo del pericolo non ha esitato a intervenire contribuendo alla cattura di una spia nemica..."
Leggeva e non poteva fare a meno di volgere lo sguardo verso il ritratto di Amilcare e sorridere orgogliosa.
 
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