Incipit

alessandra

Lunatic Mod
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Quando qualcuno - tassisti, igienisti dentali - mi chiede che cosa faccio, io rispondo che lavoro in un ufficio. In quasi nove anni nessuno mi ha mai chiesto di che tipo di ufficio si tratta o che genere di lavoro svolgo. Non so decidermi se è perché corrispondo perfettamente alla loro idea di come dev'essere una che lavora in un ufficio oppure se è perché la gente sente la frase lavoro in un ufficio e automaticamente completa gli spazi bianchi: una tizia che fa le fotocopie, un tipo che digita su una tastiera. Non mi lamento. Sono contenta di non dovermi addentrare nei dettagli tortuosi e affascinanti delle note di credito. Quando ho cominciato a lavorare qui e tutti mi facevano quella domanda, io rispondevo che lavoravo per un'agenzia di graphic design, ma a quel punto i miei interlocutori supponevano che fossi un tipo creativo. Mi ero stufata di vedere le loro facce diventare inespressive quando spiegavo che mi occupavo del back office e non usavo le penne con la punta fine né i software fichi.
Adesso ho quasi trent'anno e lavoro qui da quando ne avevo ventuno. Bob, il proprietario, mi ha assunto poco dopo l'inizio dell'attività. Immagino che provasse pena per me. Avevo una laurea in lettere classiche e nessuna esperienza di lavoro degna di nota, e al colloquio mi ero presentata con un occhio nero, due denti mancanti e un braccio rotto. Forse, a quell'epoca, aveva subodorato che non avrei mai aspirato a qualcosa di più di un lavoro d'ufficio mal pagato, che mi sarei accontentata di stare nella sua agenzia e gli avrei risparmiato la scocciatura di dover ingaggiare una sostituta. Forse aveva anche intuito che non avrei mai preso dei giorni liberi per andare in luna di miele e non avrei mai chiesto un congedo per maternità. Non lo so.

Eleanor Oliphant sta benissimo - Gail Honeyman
 

alessandra

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Il quartiere Trieste di Roma è, si può ben dire, un centro di questa storia dai molti altri centri. E' un quartiere che ha sempre oscillato tra l'eleganza e la decadenza, tra il lusso e la mediocrità, tra il privilegio e l'ordinarietà, e per adesso tanto basti: inutile descriverlo oltre, perché una sua descrizione potrebbe risultare noiosa, all'inizio della storia, addirittura controproducente. Del resto, la migliore descrizione che si può dare di qualunque posto e raccontare cosa vi succede, e qui sta per succedere qualcosa di importante.

Il colibrì - Sandro Veronesi
 

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Ho deciso di iniziare un testo senza titolo. Sarà un'esplorazione, penso. Un'indagine sulla morte di una mia compagna di stanza al college, Minette Swift, che morì in questa stessa settimana di quindici anni fa, alla vigilia del suo diciannovesimo compleanno, l'11 aprile 1975.
Minette non morì di morte naturale e non morì di una morte facile. Ogni giorno della mia vita, dopo la morte di Minette, ho pensato a lei nella morsa atroce dei suoi ultimi istanti, perché io avrei potuto salvarla, ma non l'ho fatto. E nessuno l'ha mai saputo.

Ragazza nera ragazza bianca - Joyce Carol Oates
 

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La terra trema. Sente l'eco dei passi, fin dentro le viscere: la stessa urgenza affannosa di allora, lo stesso incespicare e rialzarsi. Sono cambiati gli idiomi, il colore dei volti - i palpiti no, sono gli stessi. Il fremito oscuro delle idee proibite, fra i fuggiaschi del nuovo millennio come fra i fuorusciti antifascisti degli anni Trenta del Novecento. L'incalzare quotidiano di orrori e miseria, a strappare ciascuno dal suo mondo. E l'ansimare eterno della speranza, immutata nei secoli.

Migrante per sempre - Chiara Ingrao
 

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Com'è iniziata, nessuno lo sa. Forse un nostro antenato ha profanato la tomba di un faraone, forse ha fatto arrabbiare una strega o ha stecchito un animale che era sacro a un dio vendicativo, l'unica cosa certa è che da quel momento la nostra famiglia si porta addosso una maledizione spaventosa.
E' brutto ma è così, è la prima cosa che ho imparato a scuola.
Anzi no, la prima l'ho imparata appena entrato in classe, e cioè che nel mondo esistevano tanti altri bambini della mia età, e questi bimbi avevano solo tre o quattro nonni a testa. Io invece ne avevo una decina.

Il mare dove non si tocca - Fabio Genovesi
 

alessandra

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Per terra, vicino alla fila di banchi sulla sinistra, c'è Dennis: come al solito indossa una t-shirt promozionale, jeans da grande magazzino e scarpe da ginnastica slacciate. Dennis viene dall'Uganda. Dice di avere diciassette anni, ma sembra un venticinquenne grasso. Frequenta l'indirizzo professionale di meccanica e vive a Sollentuna in un centro per quelli come lui. Lì accanto, sdraiato su un fianco, è finito Samir. Io e lui siamo in classe insieme, perché lui è riuscito a entrare nel programma di specializzazione in economia internazionale e scienze sociali della scuola.
Vicino alla cattedra c'è Christer, coordinatore di classe autoelettosi miglioratore del mondo. La sua tazza si è rovesciata sul tavolo e gli sta gocciolando del caffè sui pantaloni. Amanda è seduta a non più di due metri di distanza, appoggiata al termosifone sotto la finestra. Qualche minuto fa era fatta solo di cachemire, oro bianco e sandali. Gli orecchini con i diamanti che le hanno regalato per la nostra prima comunione brillano ancora al sole di inizio estate. Ora si potrebbe pensare che sia sporca di fango.
Io sono seduta in mezzo all'aula. Accasciato sulle mie ginocchia c'è Sebastian, figlio di Claes Fagerman, l'uomo più ricco della Svezia.
Le persone in questa stanza non c'entrano niente l'una con l'altra. Quelli come noi di solito non si incontrano. Al limite alla stazione della metro durante uno sciopero dei tassisti, oppure nella carrozza ristorante di un treno ma non in un'aula scolastica.
C'è puzza di uovo marcio. L'aria è grigia e densa di fumo di polvere da sparo.
Hanno tutti una pallottola in corpo, a parte me. Io non ho neanche un livido.

Sabbie mobili - Malin Persson Giolito
 

alessandra

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Si dormiva in quella che un tempo era la palestra. L'impiantito era di legno verniciato, con strisce e cerchi dipinti, per i giochi che vi si effettuavano in passato; i cerchi di ferro per il basket erano ancora appesi al muro, ma le reticelle erano scomparse. Una balconata per gli spettatori correva tutt'attorno allo stanzone, e mi pareva di sentire, vago come l'aleggiare di un'immagine, l'odore acre di sudore misto alla traccia dolciastra della gomma di masticare e del profumo che veniva dalle ragazze che stavano a guardare, con le gonne di panno che avevo visto nelle fotografie, poi in minigonna, poi in pantaloni, con un orecchino solo e i capelli a ciocche rigide, puntute e striate di verde. C'erano state delle feste da ballo; la musica indugiava, in un sovrapporsi di suoni inauditi, stile su stile, un sottofondo di tamburi, un lamento sconsolato, ghirlande di fiori di carta velina, diavoli di cartone e un ballo ruotante di specchi, a spolverare i ballerini di una neve lucente.

Il racconto dell'ancella - Margaret Atwood
 

alessandra

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Faceva un caldo terribile l’estate che il professor Ro*bertson lasciò la città e per molto tempo il fiume fu soltanto una cosa piatta stesa lì, al centro della città, come un serpente marrone morto, con la schiuma giallastra a raccogliersi sulle sponde. Gli automobilisti di passaggio sull’autostrada, nel sentire quell’odore soffocante di zolfo, tiravano su i finestrini e si chiedevano come si potesse vivere con quella razza di fetore che esalava dal fiume e dallo stabilimento. Ma gli abitanti di Shirley Falls ci erano abituati, e anche in quel caldo terribile ci facevano caso solo appena svegli; no, a loro l’odore non dava particolarmente fastidio.

Amy e Isabelle - Elizabeth Strout
 

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Da dove era venuto con quella faccia severa, con quell’aspetto composto e a prima vista distinto? Da qualche importante città, da una famiglia di rango, da una lunga abitudine alla riservatezza?
Solo dopo qualche mese si seppe che veniva, in seguito a trasferimento d’ufficio, dal capoluogo della provincia; ma. che era di Cantévria, un paesucolo della Valcuvia, a pochi chilometri da Luino.
“Da Cantévria con quel nome?” si domandava la gente. E nessuno credeva possibile che da quel luogo di campagna, abitato da contadini e da famiglie d’emigranti, potesse uscire un funzionario, anche d’infimo grado, dell’Ufficio Bollo e Demanio; e con quel nome, Emerenziano Paronzini, che sembrava il nome di un generale, benché fosse senza mistero per la Valcuvia dove esistevano molti Emerenziani ed Emerenziane e dove il cognome Paronzini si ripete in più posti.

La spartizione - Piero Chiara
 

alessandra

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Il piccolo soldato apparteneva alla Quinta del Biberón, la leva dei ragazzini reclutati quando ormai non erano più rimasti né giovani né vecchi per la guerra. Víctor Dalmau accolse lui e gli altri feriti che senza molti riguardi, a causa della fretta, vennero estratti dal vagone merci e poi distesi come fasci di legna sulle stuoie che ricoprivano la pavimentazione di cemento e pietra della Estación del Norte ad attendere che altri veicoli li trasportassero negli ospedali dell’Esercito dell’Est. Era immobile, con l’espressione tranquilla di chi ha visto gli angeli e non teme più nulla. Chissà per quanti giorni era stato sballottato da una barella all’altra, da una stazione di posta all’altra, da un’ambulanza all’altra, fino ad arrivare in Catalogna su quel treno. Alla stazione c’erano diversi medici, sanitari e infermiere che accoglievano i soldati, mandavano subito i casi più gravi all’ospedale e smistavano gli altri a seconda delle ferite riportate – gruppo A le braccia, B le gambe, C la testa e così via in ordine alfabetico – e li indirizzavano con un cartello appeso al collo al luogo corrispondente. I feriti giungevano a centinaia; bisognava fare diagnosi e prendere decisioni nel giro di pochi minuti, ma il trambusto e la confusione erano solo apparenti. Tutti venivano presi in carico, tutti ricevevano assistenza. Chi era destinato in chirurgia veniva portato al vecchio edificio dell’ospedale Sant Andreu a Manresa, quelli che avevano bisogno di essere ricoverati venivano mandati in altri centri, e c’era anche chi era meglio che fosse lasciato dove stava, perché non si poteva fare più nulla per lui. Le volontarie inumidivano le labbra dei feriti, parlavano loro a bassa voce e li cullavano come fossero i propri figli, sapendo che da qualche altra parte c’era un’altra donna a confortare il loro figlio o il loro fratello. Più tardi i barellieri li avrebbero portati al deposito cadaveri. Il piccolo soldato aveva un buco nel petto e, dopo averlo visitato velocemente senza riuscire a sentirgli il polso, il medico stabilì che era troppo tardi per qualunque tipo di intervento e che non aveva nemmeno più bisogno di morfina né di conforto. Al fronte gli avevano coperto la ferita con uno straccio, l’avevano protetta con un piatto di ottone a rovescio e lo avevano fasciato con una benda, il tutto già da diverse ore o diversi giorni o diversi treni, impossibile saperlo.

Lungo petalo di mare - Isabel Allende
 

alessandra

Lunatic Mod
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Avevo dodici anni e un mese, mamma riempiva i piatti di cappelletti e raccontava di come l’utero sia il principio della modernità. Versò il brodo di gallina e disse – Impariamo dalla Francia con le sue ondate di suffragette che hanno liberalizzato le coscienze.
– E i pompini.
La crepa fu questa. Mio padre che soffiava sul cucchiaio mentre sentenziava: e i p*****i.
Mamma lo fissò, Non ti azzardare più davanti al bambino, le sfuggì il sorriso triste. Lui continuò a raffreddare i cappelletti e aggiunse – Sono una delle meraviglie del cosmo.

Atti osceni in luogo privato - Marco Missiroli
 

ila78

Well-known member
I miei vicini non temono niente. Non hanno preoccupazioni, non si innamorano, non si mangiano le unghie, non credono al caso, non fanno promesse né rumore, non hanno l'assistenza sanitaria, non piangono, non cercano le chiavi né gli occhiali né il telecomando né i figli né la felicità.
Non leggono, non pagano tasse, non fanno diete, non hanno preferenze, non cambiano idea, non so rifanno il letto, non fumano, non stilano liste, non contano fino a dieci prima di parlare, non si fanno sostituire.
Non sono leccaculo né ambiziosi, rancorosi, carini, meschini, generosi, trascurati, puliti, sublimi, divertenti, drogati, spilorci, sorridenti, furbi, violenti, innamorati, brontoloni, ipocriti, dolci, duri, molli, cattivi, bugiardi, ladri, giocatori d'azzardo, coraggiosi, fannulloni, credenti, viziosi, ottimisti.
I miei vicini sono morti.
L'unica differenza che c'è tra loro è il legno della bara: quercia, pino o mogano

"Cambiare l'acqua ai fiori" Valerie Perrin
 

Ondine

Logopedista nei sogni
Ogni giorno dalle nove alle cinque, mi siedo alla scrivania che sta davanti alla porta dell'ufficio e scrivo a macchina i sogni delle altre persone. Non solo sogni, perché i miei capi hanno bisogno anche di altre informazioni più pratiche. Raccolgo anche lamentele dai pazienti su ciò che accade loro mentre sono svegli: problemi con la madre, problemi con il padre, problemi con l'alcol, il letto, il mal di testa che colpisce nel segno e spegne le piacevoli luci del mondo senza ragione apparente. Le persone vengono nel nostro ufficio perché hanno problemi, e problemi per cui la corretta diagnosi non è sufficiente con la reazione di Wassermann né con quella di Wechsler-Bellvue.

Johnny Panic e la bibbia dei sogni - Breve racconto di Sylvia Plath
 
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estersable88

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Ogni tanto scopro sezioni e treads che esistono da tanto, ma che per ragioni oscure non mi è mai capitato di visitare. Questo, in particolare, mi piace molto, quindi inauguro la mia presenza con l'incipit del libro che sto leggendo.


Ho un ricordo piuttosto vago di come sono andate le cose, sono passati anni. Mi trovavo a Roma e stavo cercando di concludere una ricerca su un gesuita che, sul finire del Cinquecento, aveva scritto un trattato sul matrimonio, soffermandosi con grande dovizia di particolari su quello che gli sposi possono o non possono fare nell'intimità. Animato da scrupolo di verità e zelo di cura d'anime, pare si fosse spinto troppo in là nel considerare tutte le possibilità che hanno i corpi di amarsi, e cercavo delle carte che confermassero che la sua opera era stata censurata. Doveva essere all'inizio dell'inverno, probabilmente fuori pioveva una di quelle piogge torrenziali che si riversano su Roma a frustate, squassando i pini marittimi aperti come ombrelli al rovescio. La sala di consultazione dell'archivio dei gesuiti dà su una terrazza, che diventa di una lucentezza specchiante quando è bagnata. Il grigio del cielo così si raddoppia. Da sopra e da sotto, non lascia scampo. E se poi, affacciandosi alla finestra per riposare gli occhi dalla lettura si cerca l'orizzonte, come devo aver fatto a un certo punto, si incontra altro grigio, quello del marmo lavato della cupola di San Pietro, che incombe vicinissima. Passa davanti alla finestra come una nave che sfiora appena la costa, impassibile nella sua monumentalità, mentre infuria la tempesta e la capitale viene sommersa dagli ingorghi del traffico e dai rigurgiti dei tombini. La si vede da dentro la sala, impenetrabile ai rumori esterni. Qui il silenzio è interrotto solo dal fruscio delle carte sfogliate e dal ticchettio delle dita sulle tastiere. È il suono dei cercatori che stanno trovando e fanno provviste di materia, che rumineranno nei mesi e negli anni a venire in lunghi silenzi, ognuno da solo. Fare fotografie non è sempre ammesso, e i documenti vanno riversati, parola per parola, segno per segno, anche quelli indecifrabili, dentro i propri computer portatili. Possono volerci giorni, settimane, ogni minuto è prezioso per quel travaso.
Ma intanto ho già subìto uno scherzo della memoria. No, certo, non è la cupola di San Pietro che si vede dalla finestra in tutta la sua interezza, ma un piccolo campanile romanico. Se è così ingannevole il ricordo di cose accadute a me, mi dico, figuriamoci la mia capacità di portare alla luce cose accadute ad altri. A ogni modo, mentre probabilmente fuori pioveva e il grigio dominava cielo e terra, io cercavo carte di censura, senza trovarle. Avevo già guardato nei luoghi in cui potevo aspettarmi di incontrarle, seguendo invano gli ordini geometrici che organizzano l'archivio, ed ero pronta al salto. Quando non si trova dove si prevede di trovare, si lascia l'orizzonte del luogo certo e si affronta, con un sospiro di rassegnazione e di presa di coraggio, il grande, indistinto regno della miscellanea. Qui, dove si mescolano insieme i libri di conti con le poesie, i santini e gli appunti volanti, brandelli di corrispondenze private e avvisi lasciati in portineria, il tempo non si calcola. Né quello che si impiegherà a cercare, né quello da cui le scritture provengono. Le carte che ci finiscono dentro sono molto spesso senza data, il che, se si aggiunge al fatto che altrettanto spesso sono senza firma, le rende mancanti dei requisiti per trovare accoglienza nelle cittadelle fortificate della storia ricostruita con esattezza. Senza nome, cognome e data di nascita, restano vaganti come figlie di nessuno e di nessun tempo, finché qualcuno non riconoscerà in loro una grafia nota che ne riveli la paternità o l'anzianità, e le farà entrare.
È da questo limbo degli incollocabili che la storia di Veronica è arrivata qui, capitando fra le mie mani mentre cercavo altro, avvolta in una coperta di carta dai margini sbriciolati e con sopra un nome che non era il suo: Esorcisazione di Maria Antonina Hamerani, ritenuta ossessa (1834-35). Chi le ha dato un titolo aveva forse letto una piccola parte del plico contenuto nella cartella, o comunque l'aveva ritenuta, quella piccola parte, più rilevante del resto. Che fosse per trascuratezza, che fosse per distrazione, o per una volontà precisa perduta nel tempo che ci separa, il custode della memoria, intanto, mi ha consegnato la storia di Veronica come la storia di un'altra. Qualcun altro, più tardi, ha cancellato Maria Antonina, scrivendoci sopra Veronica. L'ultimo archivista ha trattato con deferenza l'archivista originario, non potendo contraddirlo (ciò che è stato scritto prima non si cancella del tutto, è dovere conservarlo). Né ha voluto che la propria parola fosse definitiva. Con mano cauta e leggera, ha usato la matita.
Queste sono solo due delle molte mani che hanno composto il fascicolo trovato in un giorno di pioggia torrenziale. Oltre trecento carte, la più parte scritte su entrambi i lati. Scorrendole, ricordo di aver notato subito una mano zelante che riempie i primi fogli con una grafia minuta, il margine tracciato con precisione a metà della pagina. Ha l'aria di voler riordinare a posteriori, ho pensato. La stessa mano si fa poi spigolosa e noncurante, sfondando senza remore la linea invisibile del confine tra la colonna di destra e quella di sinistra. Aveva forse fretta, le premeva annotare tutti i particolari possibili tentando di catturarli da una situazione convulsa. Il tempo non le ha dato modo di trascrivere in forma presentabile gli appunti presi nell'urgenza, né quelli presi nella stessa urgenza da altre mani, che arrivano a riempire, alternandosi, la restante metà del documento. Ho visto una mano rotonda, che nella velocità srotola i suoi boccoli giù per un rigo inclinato. Poi una che sembra avere ben poca pratica, insicura, aggrappata alle forme imparate negli esercizi di calligrafia. Una mano di donna incolta, forse. Qui c'è uno stampatello leggero e puntuto che preferisce stare vicino ai margini, e ancora un corsivo brusco che occupa invece gli spazi centrali, con una foga maldestra e quasi violenta. Nel lasciare traccia scritta, le mani sembrano essere state spinte avanti da una fretta forsennata. Devono aver scritto mentre gli occhi guardavano qualcosa accadere con una velocità inafferrabile, ma che per una qualche ragione chiedeva di essere registrato. Nessuno, ho subito realizzato, ha lasciato una firma, come se non importasse chi fosse a scrivere. Forse lì per lì si era pensato che non ci fosse bisogno di identificarsi. Tutti sapevano di chi era quello svolazzo o quel segno incerto, si conoscevano bene. Oppure, ancora, era sufficiente lasciare una testimonianza purché fosse, purché si sapesse che occhi avevano guardato, che ciò che era scritto era davvero accaduto. Qualcuno, un giorno, avrebbe preso tutti quei segni, le tracce di tutte quelle mani, e li avrebbe trascritti in bella copia, per rendere quella storia ancora più vera.
Alla chiusura dell'archivio doveva esserci quella luce grigioviola, quasi fluorescente, di certi crepuscoli bagnati d'inverno. Come talvolta capita, non avevano ancora acceso le luci del corridoio che conduce all'uscita e probabilmente avevo trovato il mio armadietto a tentoni, intuendolo grazie al bagliore che veniva dalla tromba delle scale. La mia giacca, lì dentro da ore, puzzava di chiuso e di umido. Tirandola fuori insieme alla borsa, avevo fatto sbattere lo sportello, provocando una catena di rimbombi metallici. Quando ne sbatte uno, sbattono tutti gli altri, a decine, vuoti. L'oscurità di quel corridoio non mi è mai piaciuta. Attraversarla dopo aver passato una giornata a leggere cose di morti ha l'aria di una punizione. Hai voluto guardare nelle nostre vite? Passa attraverso questo buio, adesso. Potresti incontrare qualcuno di noi. Hai fretta di uscire, codarda. Però quando eri sotto le luci al neon della sala di consultazione, seduta sulle sedie imbottite, ci hai letti con avidità, hai guardato nelle nostre vite con la supponenza di chi crede di vederci chiaro solo perché vive nell'adesso. Lì per lì ti abbiamo lasciato fare, non avendo sulla carta diritto di replica. Ma ora potremmo assalirti alle spalle, spingerti giù dalle scale, oppure anche solo sfiorarti la guancia con un soffio. L'incertezza della provenienza di uno spiffero sarebbe sufficiente a terrorizzarti.
Devo essere uscita in strada sollevata, come sempre, dall'idea di essere fuori, nel frastuono della città del tardo pomeriggio. Poi devo aver compiuto una sequenza di azioni di cui non ho certezza assoluta, ma che stimo probabili per l'innumerevole quantità di volte in cui le ho replicate. Ho riacceso il telefono, sperando che qualcuno dal mondo dei vivi mi avesse cercata. Attraversando via della Conciliazione, ho guardato con diffidenza alla mia destra. Prima che venisse chiusa al traffico, le auto arrivavano a una velocità spaventosa, saltando sui cubetti di porfido bagnato, noncuranti delle strisce su cui il pedone disciplinato si collocava, illuso di avere un qualche diritto di attraversamento. Al via libera, nel raggiungere il più velocemente possibile l'altro lato della strada, ho guardato a sinistra la quinta teatrale di piazza San Pietro. Stavolta la memoria non mi inganna, era davvero lì, una sagoma bluastra contro il cielo grigioviola della prima sera. Forse non pioveva più.


(Fernanda Alfieri - Veronica e il diavolo. Storia di un esorcismo a Roma)
 

estersable88

dreamer member
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La gente, e con ciò intendo loro, non cerca mai la verità, cerca la gratificazione. Non c’è niente di peggio, malgrado certe malattie dolorose e letali, di una misera, avvilente verità, laddove una menzogna gratificante è fin troppo facile da accettare, e persino da abbracciare, crogiolandovisi. Come i pensieri racchiudono in sé una dimensione di pensieri connessi, così le azioni implicano altre azioni connesse, con intenzioni inattese e risultati imprevedibili, buoni o cattivi, e le cose, le cose stesse, implicano altre cose connesse in prospettive e dimensioni insospettate. Una verità avvilente? Come il fantasma di Banco, questi pensieri siedono al posto del re, dato che le allusioni letterarie fanno furore. Questi pensieri. È la schiavitù a inaugurare il cammino verso la libertà.
hic et nunc?

"Telefono" di Percival Everett
 
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