Il libro racconta la storia di sopravvivenza del più lungo naufragio di tutti i tempi, vittima del quale fu un giovane ragazzo indiano, Pi, che dall’India era partito a bordo di una nave mercantile alla volta del Canada con tutta la famiglia, con l’intento di trasferirsi. Nel corso dei 288 giorni a bordo della scialuppa di salvataggio, dapprima insieme a sua madre e altri due marinai, poi completamente solo, egli è costretto ad affrontare indicibili prove che mettono allo stremo sia la sua resistenza fisica che, soprattutto, mentale. A tal proposito va detto che l’anziano uomo che per primo gli aveva parlato della suddetta storia, e che gli ha poi permesso di conoscere il vero protagonista, gli aveva anticipato che ascoltandola non avrebbe potuto fare a meno di cominciare a credere in dio. L’autore sembra fare propria questa idea, e infatti nella prima parte in cui presenta l’infanzia e fanciullezza del giovane protagonista Pi, volentieri indugia sulla sua triplice formazione religiosa, conseguita in seguito alla frequentazione di un prete cristiano, di un bramino induista e un imam musulmano, oltre che alla rapporto scolastico privilegiato col suo professore di biologia ateo. Questo per dire che, date le premesse, mi ero trovato a sperare in una storia densa di senso religioso, magari come un romanzo di Dostoevskij o un saggio di Panikkar, ma la mia speranza è stata disattesa.
Quanto mi accingo a scrivere ora potrebbe guastare il piacere della lettura a chi già non conoscesse il libro. Il problema è che arrivando all’epilogo del libro, si scopre, o forse sarebbe meglio dire “si realizza” che tutta la storia narrata è frutto di una rivisitazione delle proprie azioni e pensieri in chiave “zoologica” mentre dio rimane un ideale. Più precisamente il protagonista, che senza dubbio è una persona sensibile e di cuore nobile, sembra trasferire sull’immaginaria tigre, tutta la furia, rabbia e violenza di cui comunque è capace, mentre dio è l’ideale buono e armonioso a cui continuamente tende. Messa così cioè, dio non è altro che il frutto di una mente posta al limite delle capacità di sopravvivenza e che proprio in virtù della disperazione in cui è gettata, si inventa qualsiasi cosa pur di guadagnare una ragione in più per sperare. E per me ciò è molto riduttivo.
Rimane comunque una storia avvincente come poche, narrata con grande vivacità ed ironia, a volte proprio divertente, che quindi scorre molto rapidamente, senza difettare di brevi riflessioni tanto delicate quanto profonde.