Walser, Robert - Jakob von Gunten

ayuthaya

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Io come singolo individuo sono uno zero.

É il secondo libro che leggo di questo autore, che non avrei mai approcciato se non mi fosse stato caldamente consigliato... (a chi sa: grazie!) Il primo era un racconto, questo è un romanzo, uno dei pochi scritti da Walser, il quale si è dedicato perlopiù alla cosiddetta “prosa minore”.

La trama è molto semplice. Jakob von Gunten, giovane rampollo di una famiglia benestante, si auto-propone come allievo di un istituto alquanto singolare: dalle poche informazioni a nostra disposizione dovrebbe trattarsi di una scuola per camerieri, ma di fatto non ci è dato di ricevere alcuna chiarificazione in merito. Quello che sappiamo, attraverso il diario dello stesso protagonista, è che in questa scuola non si insegna nulla, nè dal punto di vista dei contenuti, nè da quello morale o umano. I ragazzi sembrano abbandonati a loro stessi, il loro unico dovere consiste nel ripetere come degli automi le regole di una buona (e sterile) condotta. Questo azzeramento assoluto della personalità, questa consapevolezza che viene loro inculcata di non valere nulla, sembra tuttavia portare i suoi frutti: uno dopo l’altro i giovani lasciano l’istituto, dopo aver trovato un impiego più o meno dignitoso.
Fra i vari compagni di Jakob, alcuni apprezzati, altri quasi compatiti, spicca il serio e zelante Kraus, allievo-modello secondo i canoni della scuola (ovvero un “nulla” a completo servizio degli altri) al quale Jakob, la cui ammirazione rasenta la venerazione, riconosce una vocazione quasi divina.
Unico fra tutti gli allievi, Jakob von Gunten sembra riuscire a penetrare i segreti dell’istituto, personificato nelle figure della dolce e malinconica Lisa – unica “insegnante” di cui ci è dato sapere – e il signor Benjamenta, suo fratello, fondatore e direttore della scuola. Il guizzo di un'acuta intelligenza, che Jakob rivela oltre la facciata di un'assoluta e cieca sottomissione, conquista poco a poco la fiducia e la confidenza del compito direttore, fino a restituirgli una vera linfa vitale, tanto che, dopo la morte di Lisa – presumibilmente consumata dal suo “non-vivere” – e la chiusura dell'istituto, Jakob (dietro sua richiesta) lo accompagnerà nella sua nuova vita “fuori”.

La ragione per cui mi risulta difficoltà di parlare di questo libro è la stessa che gli conferisce un grandissimo fascino: Walser non palesa in modo chiaro la sua posizione rispetto al protagonista e all’ambiente ambiguo nel quale egli vive. Jakob parla dell'istituto e dei suoi “valori” in modo rispettoso, spesso persino entusiastico (sembra quasi che, superati i primi sporadici tentativi di rivolta, il suo “addomesticamento” sia pienamente riuscito). Eppure, come si può credere che Walser volesse davvero esprimere la sua ammirazione per un tipo di insegnamento basato tutto sulla disciplina esteriore, sulla mortificazione dell’individuo in quanto “risorsa”?
Oltretutto lo stile di Walser (che mi piace moltissimo) è particolarissimo, pervaso di un’ironia sottile e avvolgente... è logico chiedersi se per caso non ci stia prendendo in giro, se in realtà voglia denigrare quello che finge di apprezzare, o ridicolizzare quello che normalmente la società esalta. Il risultato è che si legge una pagina dopo l'altro in uno stato di sospensione, di perenne attesa, per poi accorgersi che... no, probabilmente non c'è nessuna morale sottintesa, ma solo un susseguirsi di pensieri, ora lucidi, ora onirici, gli uni e gli altri di una profondità a volte inquietante.
Scrive Calasso nella sua postfazione al romanzo, “come Jakob, anche Walser (...) rivolge il suo sguardo soprattutto agli avvenimenti minuscoli, alla vita sparpagliata, a tutto ciò che è trascurabile. (...) L’ironia ininterrotta di Walser – ultima discendenza dei grandi romantici – presuppone la certezza della superfluità della parola. Da ciò il predominio della chiacchiera.”

Insomma, se un senso c'è, questo sarà da cercare nelle divagazioni (a volte tragiche, mai scontate) del protagonista, in alcuni passaggi secondo me indimenticabili...
Ma conformarsi è più elegante, assai più elegante che non il pensare. Chi pensa s’impenna, è questo è sempre brutto, è pregiudizievole alle cose. Sapessero solo quante cose corrompono, i pensatori! Uno che si applica a non pensare, fa qualche cosa: ebbene, proprio quella cosa è più necessaria.” É alla luce di questo tipo di considerazioni che deve essere letta la paradossale, estrema nobilitazione del “servilismo” compiuta dall’istituto e da Walser stesso.
Io amo pormi di fronte a qualcuno o qualcosa in grado di mettere in discussione le mie certezze, le categorie di pensiero da me date per assodate, persino le mie “basi” morali... Cerco e amo questo tipo di “crisi”, anche se durano solo il tempo di un bel libro. E per questo non posso che dirmi molto contenta di aver letto questo.
 
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bouvard

Well-known member
Leggendo questo libro il lettore ha la sensazione che Walser voglia burlarsi di lui. Come credere possibile, infatti, che dei ragazzi abbiano come massima aspirazione nella vita quella di divenire dei "perfetti servitori", dei "magnifici zeri, rotondi come una palla"? E come credere che esista una scuola in cui gli insegnanti dormono, mentre gli alunni leggono sempre lo stesso libro ed imparano a memoria la stessa lezione?
Ma come Jacob von Gunten, pur rendendosi conto che l'Istituto Benjamenta è un imbroglio, si lascia ugualmente intrappolare dal suo addestramento alla passività e all'attesa con il passare dei giorni, -- ma saranno stati poi solo dei giorni, o invece si è trattato di mesi o di anni? Impossibile dirlo, dal momento che, in questo libro, il tempo è un concetto talmente irrilevante da non meritare alcun accenno -- così il lettore, pagina dopo pagina, pur continuando a diffidare del tono di Walser, si lascia conquistare dalla sua ironia e dalla sua storia in cui sogno e realtà si confondono e si completano.
L'Istituto Benjamenta, con i suoi inaccessibili "appartamenti interni" richiama alla mente l'irraggiungibile Castello di Kafka. Ma a differenza di K. Jacob riuscirà ad entrare in quegli "appartamenti", dapprima in una specie di "sogno", in cui le diverse e misteriose stanze degli "appartamenti" -- alcune buie, altre illuminate, alcune solitarie, altre accoglienti -- rappresentano le molteplici emozioni, difficoltà e paure che la vita ci pone davanti; poi realmente e allora capirà che non ci sono grandi saloni, né scale a chiocciola, né cappelle e nessun parco dove possa nevicare. Quegli "appartamenti" irraggiungibili esistevano solo nella sua fantasia, "Si, vivevano davvero quegli appartamenti interni, e ora è come se me li avessero rubati . Ecco cos'è a volte la cruda realtà: un lestofante matricolato, che ruba cose di cui poi non sa che farsi". La realtà sono solo due stanzette senza troppe comodità.
Un altro modo di Walser per dirci che di fronte alla realtà le nostre illusioni sono destinate a crollare, perciò tanto vale a prepararci, tutti, ad essere dei "magnifici zeri"?
 
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elisa

Motherator
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Non ho molte cose da dire dopo la lettura di questo romanzo di formazione se non che a volte mi ha ricordato l'atmosfera del romanzo di Buzzati, Il deserto dei tartari in particolar modo nella rarefazione e sospensione della vita che ho trovato molto simile. Mi viene in mente un altro titolo parafrasato, questa volta ispirato a Kundera, "L'impercettibile superficialità dell'essere", per tutto ciò che è solamente accennato e mai approfondito. La prosa è ineffabile ed inaferrabile, sempre in bilico tra sogno, favola e realtà, vieni immerso in uno spazio unico e senza tempo: l'Istituto. Ne esci così, senza particolari emozioni o stimoli, con una sensazione di distacco e a volte anche di incomprensione.
 

Trillo

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Jakob von Gunten, protagonista del romanzo, lascia la sua famiglia benestante e il futuro agiato che gli si prospettava, per conoscere e vivere il mondo partendo dal gradino più basso: non vuole che alcun tipo di privilegio gli spiani la strada verso una posizione non conquistata da sè, che non senta propria, e le cui comodità non basterebbero a renderlo felice ma comporterebbero invece dei vincoli alla libera espressione di sé, incatenandolo ad una condizione di vita lontana dall’essere autentica. Decide quindi di andar via di casa, rinunciando a tutto, anche all’affetto della madre che ricorrerà spesso inconsciamente nei suoi fuggevoli pensieri, pur di trovare da solo la sua strada. Ma Jakob non si avventura subito nella vita "reale", optando piuttosto con il cominciare da delle solide e rinnovate basi per poterla affrontare, ovvero dall’istruzione ed educazione, che decide di affidare al noto Istituto Benjamenta. Questo però si rivelerà fin da subito molto diverso da ciò che si aspettava.

"Qui s’impara ben poco" è infatti già l’incipit del romanzo, riferito al Benjamenta, rafforzato poco dopo da frasi come "Qui non s’impara un bel niente, e io non ci voglio restare", o ancora "Non c’è forza al mondo che possa impedirmi di abbandonare questo luogo di oscurità e di nebbie". Nell’istituto, infatti, non c’è spazio per la cultura, per i sogni, per i piaceri della vita: si impara solo ad ubbidire, a sottomettersi e ad usare le buone maniere, finendo per diventare degli zeri perfetti ed insignificanti, ed essere nel futuro dei servi modello e nient’altro.

Il libro sembra esaurirsi tutto qui: non c'è infatti una particolare trama, né una concatenazione di eventi che scandisca la narrazione. Tutto è messo in chiaro fin dall’inizio dal protagonista stesso, e per quanto il libro non si caratterizzi per il suo intreccio, c’è però una grande forza attrattiva suscitata da una domanda che il romanzo fa sorgere spontanea, pervadendo la lettura per tutto il tempo fin dall’inizio, e su cui a mio avviso verte tutto il libro, e cioè: perché il protagonista decide di restare in quell’istituto? Questo dato di fatto è un elemento che sorprende, che ci porta costantemente a porci delle domande, ad andare alla ricerca di qualche significato più profondo e ad aspettare con curiosità il paragrafo successivo per cercare di capire i motivi di quella permanenza inaspettata.

Il protagonista, d’altra parte, non ci aiuta in modo chiaro in questo senso: sembra non prendersi mai sul serio e non lasciarci dei punti di riferimento stabili. Il libro è tutto un susseguirsi di fatti, pensieri, fantasticherie e sogni di ogni tipo che si alternano senza una particolare logica, dove spesso si dice una cosa e poi il contrario. Così si cerca e si crede di afferrare un significato, per poi essere subito dopo smentiti o rimanere dubbiosi e smarriti. Walser intinge costantemente la sua penna di un’ironia così particolare che non si sa fino a che punto sia davvero ironico nel senso in cui abbiamo pensato, e sembra lasciare intenzionalmente tutto in sospeso senza approfondire o spiegare nulla, o non dare molto peso a ciò che scrive, passando subito ad altro.

Il modo in cui questo breve romanzo prende vita, insieme ai suoi contenuti controcorrente, rendono Jakob von Gunten un libro rivoluzionario e, come tale, estremo, ma necessario per farci riflettere e provare a cambiare o a problematizzare i comuni valori a cui siamo ancorati. La concezione della cultura a cui siamo abituati viene completamente ribaltata, secondo una riflessione sorprendentemente sconvolgente, oltre che particolarmente sentita e splendida; i comuni valori del denaro, della considerazione nella società e del perfezionamento delle conoscenze come fonti di felicità e di realizzazione personale sono inquadrati in una prospettiva totalmente diversa. E certi aspetti bizzarri dell’istituto, meritevoli di giudizio negativo, sono al contrario enfatizzati per valorizzarli e andare contro il pensiero e la deriva della società moderna. Jakob è infatti un ragazzo sveglio e pronto sempre a rintracciare e dar luce al positivo che si nasconde in ciò che lo circonda, seppur con la solita ironia che caratterizza l'autore/protagonista, riuscendo anche ad estrapolare e far risaltare il buono e le opportunità che si celano nel deplorevole stato letargico dell'istituto, dove gli allievi sono condannati a diventare dei perfetti automi. Così la permanenza in quell’istituto serve a Jakob anche per imparare a non essere indifferente a chi lo circonda, a valorizzare certi aspetti della vita grazie alle limitazioni imposte dai precetti che lo governano, ad assaporare il piacere e la soddisfazione che derivano dal garbo delle buone e distinte maniere, a riconsiderare quella trasformazione verso lo zero assoluto della personalità che l’istituto impone, e che diventa invece una fonte di liberazione dalle catene della società oltre che fonte di spensieratezza.

Ciò che mi sento di dire alla fine, è che Jakob von Gunten è un libro che trasmette un forte messaggio di libertà, di coraggio e di apertura: il coraggio di rinunciare qualsiasi forma di privilegio piovuto dal cielo, di lasciare tutto e tutti pur di realizzare se stesso, la libertà di godersi la vita ad ogni respiro, vivendo e godendo a pieno tutto ciò che è a portata di mano, approfondendolo senza fretta e pregiudizi, senza lasciarsi incatenare dai pensieri, ma dando libero spazio all'azione, anche lasciandosi ingannare dalle proprie fantasie; e tutto ciò non solo in una dimensione egoistica, ma coniugato con la felicità del fare del bene e di ricercare il bello.

Lo zero in cui si riduce Jakob in quell’istituto, e che lui e noi impariamo ad apprezzare, lo vediamo pian piano confinarsi al suo significato letterale che va assumendo unicamente nella concezione del mondo comunemente accettata, mentre cominciamo progressivamente ad intravedere in quello zero un significato metaforico di liberazione dai comuni valori imposti dalla società, dalle catene dei suoi modi di vivere e pensare, dalle aspettative, dai giudizi e da ogni forma di dipendenza. Lo zero in cui si trasforma Jakob, che invece cela potenzialità di vita inaspettate, potremmo vederlo come l’incarnazione letteraria dell'operazione matematica secondo cui il limite quando uno tende a zero per valori positivi è…più infinito.

Alla fine, non è poi così vero che all'istituto Benjamenta non si è imparato niente. E credo di aver intravisto cosa abbia spinto Jakob a restarvi. "Adesso, sappilo, sei completamente libero. Puoi dire e fare quello che più ti piace".
Queste le parole del direttore dell’istituto, che in Jakob riuscirà a riconoscere e ritrovare se stesso, quando anch’egli, in uno zero qual era stato, aveva riconosciuto di essere un re, non alla vista degli altri, ma semplicemente di se stesso. "La vita, allora, mi si stendeva davanti perché l’afferrassi […], e tutto ciò che vedevo lo possedevo, e pensare anche di sfuggita a una cosa voleva dire goderla, e tutto era pronto a incoronarmi di soddisfazione, a ungermi di successi e di trionfi. [...] E ora sono di nuovo, o meglio comincio di nuovo ad essere me stesso, mi sembra di aver ereditato un milione, macché un milione, no, mi sembra... di salire su un trono, di ricevere una corona". Sarebbe magnifico conquistare l'approccio alla vita di Jakob e a imparare a vivere in questo modo.

Jakob von Gunten è in definitiva un libro dall’ambientazione surreale e indefinita, dal carattere a volte onirico, spesso criptico e difficile da decifrare, e dove sembra non succedere mai niente di particolarmente nuovo e di interessante, se non nelle fantasie del protagonista. Eppure su questa base apparentemente piatta e disorganica sembra impresso l’ologramma di una personalissima concezione della vita e del mondo, sorprendentemente radicale e sovversiva, seppur forse così pura e idealistica da rimanere imprigionata nella bolla di realtà in cui tenta di prender vita.

È sicuramente una lettura non facile, che non posso dire di aver compreso a pieno, ma in cui c'è tanto Walser, tanti temi a lui cari che ho imparato a scoprire in altri suoi scritti, e il suo modo sempre molto raffinato e affascinante di tradurli in parole. I protagonisti dei libri di Walser sembrano tutti accomunati da uno stesso filo conduttore pronto a trasmetterci e rivelarci qualcosa di lui, della sua vita, della sua sensibilità, dei suoi desideri, dei suoi pensieri, della sua anima. Questo libro non è forse adatto come prima lettura per approcciarsi a questo grande scrittore, ma è sicuramente imprescindibile per chi lo ha già conosciuto ed apprezzato in altre occasioni.
 
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