Fallaci, Oriana

franceska

CON LA "C"
I sette peccati di Holliwood

La mia avventura cominciò a Hollywood la mattina del 9 gennaio 1956 quando mi recai dal regista Jean Negulesco con una valigia piena di camicie da uomo. Era la prima volta che andavo in America, mi sarei trattenuta pochissimi giorni a Hollywood e a New York e c’era un solo argomento che volevo affrontare da vicino: Marilyn Monroe. Sapevo che, da alcuni mesi, incontrare l’attrice era diventato misteriosamente impossibile, ma non me ne preoccupavo. Ero riuscita a intervistare Soraya nella sua reggia di Teheran nei giorni di maggiore tensione, avevo parlato con Townsend a Bruxelles nel periodo in cui egli sfuggiva ai giornalisti come un gatto arrabbiato, e pensavo che, dopotutto, Marilyn era soltanto una diva: qualcosa di meno, cioè, di una imperatrice e di un pretendente alla mano di una principessa d’Inghilterra.
La mia fiducia era alimentata inoltre da dodici camicie da uomo che Pepi Lenzi, un attore italoamericano, mi aveva consegnato a Roma perché le portassi a Jean Negulesco. L’attore le giudicava più potenti di una lettera di credito. Io n’ero convinta. Le avevo sistemate nella valigia con divozione, e durante tutto il viaggio, mentre gli altri si beavano a guardare l’Atlantico e le isole Azzorre, il problema del loro trasporto mi aveva angosciato. Mi preoccupavo che non si sgualcissero. Dalla maggiore o minore freschezza dei colletti dedicati al signor Negulesco mi sembrava che dipendesse il successo dell’intervista: estrarle intatte dalla valigia dopo trenta ore di volo fu motivo di esaltante sollievo. Telefonai immediatamente al regista. La parola «camicie» ebbe un magico effetto. Disse che era ansioso di vedermi. Mi invitò subito a colazione nel suo bungalow della 20th Century Fox. La mezz’ora che impiegai per arrivarci percorrendo l’interminabile Sunset Boulevard mi sembrò più lunga del viaggio in aereo.
Negulesco mi aspettava sull’uscio di casa con un sorriso ansioso sul volto sanguigno, mi ringraziò con effusione, mi offrì vino francese, non chiese neppure che cosa volessi. Mangiando parlò della sua vita, dei quadri che faceva quando era un pittore affamato, dei suoi vestiti, delle sue scarpe, delle quattro mogli che si era procurato non appena raggiunta la ricchezza; e sembrava talmente convinto che mi fossi recata a Hollywood per intervistare lui che, fino al formaggio, non ebbi il coraggio di deluderlo. Solo alla frutta portai il discorso su Marilyn Monroe. Negulesco l’aveva diretta nel film Come sposare un milionario. Cominciai col chiedergli che tipo fosse.
«Una ventinovenne carina» rispose. «Certo non si merita il successo che ha. Ma è terribilmente ambiziosa e lavora con impegno. Non è neppure un’oca, come dicono. È una timida piena di complessi di inferiorità. Quando gli altri parlano li ascolta a bocca aperta, come se dicessero cose meravigliose. Quando la interrogano resta zitta, per paura di dire sciocchezze. Talvolta balbetta. Non risponde mai a una domanda senza chiedere consiglio a un amico. Una volta un reporter le chiese che colore preferisse. Lei disse: “Aspetti un momento”. Venne da me e chiese: “Jean, qual è il colore che preferisco?’’. “Bene” osservai, “non te lo sei mai domandato?” E lei: “No. Dimmelo tu che sei un pittore”. “Bene” dissi, “sceglierei il rosso.” “Bene” disse lei, “e perché mi piace il rosso?” “Bene” dissi, “perché è violento, dà nell’occhio come te.” “Bene” disse lei. E rispose al reporter che “preferiva il rosso perché era violento come lei”.» (Oriana Fallaci)

 

silvja

New member
Di Oriana ho letto quasi tutti i romanzi, e tutti gli ho molto apprezzati, ho amato tantissimo "Un uomo". Non so se qualcun'altro ha mai scritto qualcosa del genere: la Storia che riesce a diventare romanzo, la vita di una persona che diventa romanzo....irraggiungibile, per me.
Ho acquistato da poco Intervista con il mito, che non ho ancora letto. Obiettivo nel breve tempo è acquistare le opere che mi mancano...grandissima
 

franceska

CON LA "C"
Insciallah​
La notte i cani randagi invadevano la città. Centinaia e centinaia di cani che approfittando dell’altrui paura si rovesciavano nelle strade deserte, nelle piazze vuote, nei vicoli disabitati, e da dove venissero non si capiva perché di giorno non si mostravano mai. Forse di giorno si nascondevano tra le macerie, dentro le cantine delle case distrutte, nelle fogne coi topi, forse non esistevano perché non erano cani bensì fantasmi di cani che si materializzavan col buio per imitare gli uomini da cui erano stati uccisi. Come gli uomini si dividevano in bande arse dall’odio, come gli uomini volevano esclusivamente sbranarsi, e il monotono rito si svolgeva sempre con lo stesso pretesto: la conquista d’un marciapiede reso prezioso dai rifiuti di cibo e dal marciume. Avanzavano lenti, in pattuglie guidate da un capopattuglia che era il cane più feroce e più grosso, e all’inizio non li notavi perché procedevano zitti. La strategia dei soldati che strisciano in guardingo silenzio per piombar sul nemico e scannarlo. Ma d’un tratto il capopattuglia lanciava un latrato, quasi lo squillo di una fanfara che annuncia l’attacco, al latrato seguiva un altro latrato, un altro ancora, poi l’abbaiare collettivo del gruppo che si disponeva in cerchio per chiudere il gruppo avversario, stringerlo in un assedio che impedisse la fuga, e scoppiava l’inferno. Rotolando nel marciume aggressori e aggrediti si azzannavano alla gola e alla schiena, si mordevano gli occhi e gli orecchi, si strappavano il ventre, e gli urli di furore assordavano più delle bombe. Non importa quale combattimento lacerasse la notte, quale scontro tra gli uomini, il frastuono dei cani che si ammazzavano per il possesso di un marciapiede superava gli schianti dei razzi, i tonfi dei mortai, i boati dell’artiglieria. E mai un istante di riposo, di tregua. Soltanto quando il cielo sbiadiva nel chiarore violetto dell’alba e le bande si dileguavan lasciando laghetti di sangue, carogne di compagni sconfitti, tornavi a udire i suoni della guerra fatta coi razzi e i mortai e l’artiglieria. Però a quel punto incominciava un tumulto nuovo e non meno agghiacciante: quello dei galli che impazziti dalla paura avevano perso la nozione del tempo e che invece di annunciare il sorger del sole si sgolavano a commentare quei suoni coi chicchirichì. Una cannonata e un chicchirichì. Una mitragliata e un chicchirichì. Una fucilata e un chicchirichì. Disperato, terrorizzato, umano. Un doppio singhiozzo nel quale ti pareva di riconoscere la parola aiuto. «Aiuto! Aiuto!» Migliaia di galli. Avresti detto che ogni casa, ogni cortile, ogni terrazza ospitasse un pollaio in delirio e che ogni gallo vivesse all’unico scopo di strillare la propria follia. O la follia della città, i tormenti dell’assurdo luogo che le mappe militari indicavano con la sigla 36S-YC-316492-Q15? Fuso 36, fascia S, quadrato YC, coordinate 316492, quota 15, uguale Comando del contingente italiano a Beirut.
(Oriana Fallaci)
 

franceska

CON LA "C"
Se il sole muore

Il sasso non si vedeva, tanto l’erba era fitta e rigogliosa: ci incastrai un piede e caddi distesa, parallela alla strada. Nessuno mi venne in aiuto. E poi chi? Nessuno camminava in quella strada e forse in tutte le strade della città. Nessuno all’infuori di me. Nessuno esisteva, nessuno con due piedi e due gambe, un corpo sulle due gambe, una testa sul corpo: esistevano solo automobili che scivolavan via unte, ordinate, sempre alla stessa velocità, alla stessa distanza, e non un uomo dentro, una donna. Sedevano figure umane al volante, d’accordo: ma così ferme, composte, che certo non si trattava di uomini, donne, si trattava di automi, robot. La tecnologia moderna non è forse in grado di fabbricare robot identici a noi? La prima legge dei robot non è forse «ricorda che non devi interferire con le azioni degli umani ammenoché gli umani non sollecitino il tuo intervento»? Io sollecitavo forse un qualsiasi intervento? Al contrario. Distesa sul prato lungo la strada, le guance in fiamme per l’imbarazzo, speravo solo che non mi si scorgesse, che non si ridesse di me. E i robot obbedivano: scivolando via unti, ordinati, sempre alla stessa velocità, alla stessa distanza, nemmeno chiedendo al loro calcolatore elettronico se la donna a pochi passi era morta o era viva e se era viva perché non si rialzava. Non mi rialzavo perché avevo notato qualcosa di assurdo, di atroce: quell’erba non aveva odore di erba.
Ci tuffai dentro il naso, aspirai. No, non aveva odore di erba, non aveva odore di niente. Agguantai tra il pollice e l’indice un filo, tirai. No, non si sradicava, non si strappava neanche. Frugai con l’unghia giù in basso, cercai un granellino di terra. No, non si afferrava neanche un granellino di terra: che strano. Eppure era terra, aveva il color della terra, la consistenza della terra. E l’erba piantata lì dentro era erba, aveva il colore dell’erba, la consistenza dell’erba, erba morbida, fresca, annaffiata perfino con un ingegnoso sistema di spruzzi perché restasse verde, crescesse, mio Dio, non stavo mica delirando, sognando, quel prato era un prato, sì, certo, era un prato... Era un prato? Di nuovo ci tuffai dentro il naso, aspirai. Di nuovo agguantai tra il pollice e l’indice un filo, tirai. Di nuovo frugai con l’unghia giù in basso, cercai un granellino di terra e, quasi una coltellata al cervello, il sospetto divenne certezza. Era un prato di plastica. Sì, di plastica. E tutti i prati che avevo visto in quei giorni, i prati lungo i viali, i prati lungo le autostrade, i prati dinanzi alle case, alle chiese, alle scuole, i prati curati dai giardinieri, annaffiati, trattati come prati vivi, prati veri, prati che nascono e muoiono, erano dunque in plastica. Un immenso sudario di plastica, di erba mai nata e mai morta, una beffa.
Come punta da mille vespe mi alzai, rientrai di corsa in albergo, spalancai la porta del mio appartamento e quasi caddi sulla pianta di cactus che adornava il soggiorno. Era un grande cactus: verde, succoso, irto di aculei e con un fiore sul capo. Tastai prima il fiore, lo piegai, lo contorsi: rimase intatto. Infilai un dito fra gli aculei, pigiai la polpa, supplicai una stilla di liquido: mi rispose una cedevolezza di gomma. Gli strinsi con entrambe le mani gli aculei, disperatamente pregando che mi bucassero, che mi dicessero ti sei sbagliata: mi donarono solo un solletico lieve, gli aculei eran di alluminio con le punte arrotondate. E il ficus nel corridoio? Falso anch’esso, s’intende. E la siepe là nel giardino? Falsa anch’essa, s’intende. E forse eran falsi anche gli alberi intorno ai quali non v’erano mai moscerini né uccelli: ogni filo d’erba, ogni ramo, ogni foglia era falso in questa città dove niente nasceva cresceva moriva nel verde. False le margherite, le azalee, i rododendri. False le rose in quel vaso, false... Il vaso stava sulla TV e avvicinandomi non avevo più speranza né dubbio. Sfilai piano una rosa, la alzai all’altezza del viso, la lasciai ricadere, e la rosa fece crac! poi si infranse sul pavimento in mille schegge di minutissimo vetro. Sul pavimento rimase una brinata di freddo, una goccia di luce. Ero giunta a Los Angeles, prima tappa del mio viaggio dentro il futuro e me stessa. (Oriana Fallaci)



 

skitty

Cat Member
"E' giunta l'ora di andare. Ciascuno di noi va per la propria strada: io a morire, voi a vivere. Che cosa sia meglio, Iddio solo lo sa. Platone"


"L'amara scoperta che Dio non esiste ha ucciso la parola destino. Ma negare il destino è arroganza, affermare che noi siamo gli unici artefici della nostra esistenza è follia: se neghi il destino, la vita diventa una serie di occasioni perdute, un rimpianto di ciò che non è stato e avrebbe potuto essere, un rimorso di ciò che non si è fatto e avremmo potuto fare, e si spreca il presente rendendolo un'altra occasione perduta."

Oriana Fallaci - Un uomo
 
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skitty

Cat Member
“L'abitudine è la più infame delle malattie perché ci fa accettare qualsiasi disgrazia, qualsiasi dolore, qualsiasi morte. Per abitudine si vive accanto a persone odiose, si impara a portar le catene, a subire ingiustizie, a soffrire, ci si rassegna al dolore, alla solitudine, a tutto. L'abitudine è il più spietato dei veleni perché entra in noi lentamente, silenziosamente, cresce a poco a poco nutrendosi della nostra inconsapevolezza, e quando scopriamo d'averla addosso ogni fibra di noi s'è adeguata, ogni gesto s'è condizionato, non esiste più medicina che possa guarirci”.

Da "Un uomo"
 

skitty

Cat Member
“Che supplizio inaudito le catene con cui l'essere amato ti lega impedendoti di alzare le ali, che ricchezza sterminata lo spazio di cui ti chiude con le stesse catene le porte. Però, quando lui non c'è più, e quello spazio si spalanca infinito dinanzi a te, sicché puoi volare nel pulviscolo d'oro a tuo piacimento, gabbiano senza affetti e senza lacci, avverti un vuoto spaventoso.”

(Un uomo)
 

curzio

New member
"Stop. Quello che avevo da dire l'ho detto. La rabbia e l'orgoglio me l'hanno ordinato. La coscienza pulita e l'età me l'hanno consentito. Ora basta. Punto e basta."

Da "La rabbia e l'orgoglio"

Condivido questa conclusione del libro, non tutto il contenuto e le idee.
Le condizioni in cui siamo costretti a lavorare e vivere mi portano quotidianamente a mettere in pratica un comportamento simile. E' inevitabile.
 

franceska

CON LA "C"
Niente e così sia

La guerra, vista da lontano, appare solo come un incubo. Si stenta a credere che possano esistere veramente simili massacri. Forse neppure si riesce a immaginarli. È solo la lontananza che la rende accettabile. Per questo, prima nemica della pace è l’ignoranza intorno a ciò che veramente accada in un campo di battaglia, dove anche la vita di schiere di ragazzi perde il suo valore e la sacralità che tutti noi le riconosciamo.
C’è qualcosa che stride. È folle un mondo nel quale, nello stesso momento, in un luogo decine di persone si affannano per regalare ad un uomo carico d’anni qualche settimana in più e in un altro posto contemporaneamente, a centinaia, a migliaia, dei giovani muoiono dissanguati, mutilati da orrende ferite, stesi nel fango senza che nessuno si curi di loro.
C’è chi passa una vita di studi per capire come andare sulla Luna e c’è che si affanna nell’inventare una pallottola che squarci meglio la carne del nemico.

Oriana Fallaci


 

franceska

CON LA "C"
Da Intervista con la storia, 1974

Giulio Andreotti

Roma, marzo 1974
Lui parlava con la sua voce lenta, educata, da confessore che ti impartisce la penitenza di cinque Pater, cinque Salve Regina, dieci Requiem Aeternam, e io avvertivo un disagio cui non riuscivo a dar nome. Poi, d’un tratto, compresi che non era disagio. Era paura. Quest’uomo mi faceva paura. Ma perché? Mi aveva ricevuto con gentilezza squisita: cordiale. Mi aveva fatto ridere a gola spiegata: arguto, e il suo aspetto non era certo minaccioso. Quelle spalle strette quanto le spalle di un bimbo, e curve. Quella mancanza quasi commovente di collo. Quel volto liscio su cui non riesci a immaginare la barba. Quelle mani delicate, dalle dita lunghe e bianche come candele. Quell’atteggiamento di perpetua difesa. Se ne stava tutto inghiottito in se stesso, con la testa affogata dentro la camicia, e sembrava un malatino che si protegge da uno scroscio di pioggia rannicchiandosi sotto l’ombrello, o una tartaruga che si affaccia timidamente dal guscio. A chi fa paura un malatino, a chi fa paura una tartaruga? A chi fanno male? Solo più tardi, molto tardi, realizzai che la paura mi veniva proprio da queste cose: dalla forza che si nascondeva dietro queste cose. Il vero potere non ha bisogno di tracotanza, barba lunga, vocione che abbaia. Il vero potere ti strozza con nastri di seta, garbo, intelligenza.
L’intelligenza, perbacco se ne aveva. Al punto di potersi permettere il lusso di non esibirla. A ogni domanda sgusciava via come un pesce, si arrotolava in mille giravolte, spirali, quindi tornava per offrirti un discorso modesto e pieno di concretezza. Il suo humour era sottile, perfido come bucature di spillo. Lì per lì non le sentivi le bucature ma dopo zampillavano sangue e ti facevano male. Lo fissai con rabbia. Sedeva a una scrivania sepolta sotto i fogli e dietro, sulla parete di velluto nocciola, teneva una Madonna con Bambin Gesù. La destra della Madonna scendeva verso il suo capo a benedirlo. No, nessuno lo avrebbe mai distrutto. Sarebbe stato sempre lui a distruggere gli altri. Con la calma, col tempo, con la sicurezza delle sue convinzioni. O dei suoi dogmi? Crede al paradiso e all’inferno. All’alba va a messa e la serve meglio di un chierichetto. Frequenta i papi con la disinvoltura di un segretario di Stato e guai, scommetto, a svegliare la sua ira silenziosa. Quando lo provocai con una domanda maleducata, il suo corpo non si mosse e il suo volto rimase di marmo. Però i suoi occhi s’accesero in un lampo di ghiaccio che ancora oggi mi intirizzisce. Dice che a scuola aveva dieci in condotta. Ma sotto il banco, scommetto tirava pedate che lasciavano lividi blu.
Ci sarebbe da comporre un saggio su Giulio Andreotti. Un saggio affascinante e inquietante perché tutto ciò che egli è va ben oltre il caso di un individuo. Rappresenta un’Italia. L’Italia cattolica, democristiana, conservatrice, contro cui tiri pugni che feriscono le tue nocche e basta. L’Italia di Roma col suo Vaticano, il suo scetticismo, la sua saggezza, la sua capacità di sopravvivere, sempre, di cavarsela, sempre, sia che vengano i barbari sia che vengano i marziani: tanto li porti tutti in San Pietro, a pregare. Alla politica non giunse di proposito: ignorava d’averne il talento. Al potere non giunse attraverso la lotta e il rischio: non aveva combattuto i fascisti. All’una e all’altro approdò per destino, vi rimase per volontà. La straordinaria invidiabile volontà che hanno gli sgobboni capaci di svegliarsi col buio: per lavorare. Ci comanda da circa trent’anni, cioè da quando ne aveva venticinque. Continuerà a comandarci in un modo o nell’altro, fino al giorno in cui gli impartiranno l’estrema unzione. Intimo di De Gasperi, membro della Consulta, deputato alla Costituente, alla Camera senza interruzioni, sei volte sottosegretario alla presidenza, segretario del Consiglio dei ministri, capogruppo parlamentare, ministro degli Interni, del Tesoro, due volte ministro delle Finanze e dell’Industria, sette volte alla Difesa, tre volte capo del governo. Lo sanno anche i bambini insieme alle storie che costruiscono il suo personaggio e che gli procurano tonnellate di voti: dai ricchi, dai poveri, dai giovani, dai vecchi, dai colti, dagli analfabeti. Ama il gioco del calcio, adora le corse dei cavalli, gli piace Rischiatutto, colleziona campanelli, ignora i vizi, è marito devoto e felice di una professoressa di lettere che gli ha dato quattro figli belli, buoni, studiosi. Ha un debole per l’America, per le corse dei cavalli, per le bionde esangui e brillanti come la buonanima di Carole Lombard. Quest’ultime platonicamente, s’intende. Possiede grandi qualità di scrittore e, giustamente, i suoi libri non passano mai inosservati. Peccato che scriva solo di cose da cui si leva un profumo d’incenso.
Ecco l’intervista. Avvenne nel suo ufficio del centro studi, si svolse in tre fasi, durò cinque ore. E per cinque ore, io che fumo disperatamente, accesi un’unica sigaretta. Da ultimo. Non osai farlo prima. Non sopporta il fumo. Nessun genere di fumo, figuriamoci poi il fumo del fuoco che brucia il vecchio per costruire il nuovo. Lo combatte con una candela, il fumo e il nuovo, neanche fosse Satana.

Oriana Fallaci
 

franceska

CON LA "C"
“Il linguaggio parlato è per sua natura sciatto e impreciso. Non dà tempo di riflettere, di usar le parole con eleganza e raziocinio, induce a giudizi avventati e non fa compagnia perché richiede la presenza di altri. Il linguaggio scritto, al contrario, dà tempo di riflettere e di scegliere le parole. Facilita l'esercizio della logica, costringe a giudizi ponderati, e fa compagnia perché lo si esercita in solitudine. Specialmente quando si scrive, la solitudine è una gran compagnia."
Oriana Fallaci
 

franceska

CON LA "C"
Da: ORIANA FALLACI intervista ORIANA FALLACI

… Però mi piace la vecchiaia, mi diverte. Sono sciocchi quelli che la rifiutano e che per rifiutarla si fanno il lifting, si vestono da ventenni, barano sull’età. Sciocchi ed ingrati. Lo dissi anche ai due amici che dopo l’uscita de La Rabbia e l’Orgoglio vennero a New York per intervistarmi. L’intervista non gliela detti, no. Però li invitai a cena, e a un certo punto gli dissi che la vecchiaia è una bellissima età. L’età d’oro della Vita. Non tanto perché l’alternativa è morire senza conoscere il lusso di quel privilegio, quanto perché è la stagione della libertà. Da giovane credevo d’essere libera, aggiunsi. Ma non lo ero. Mi preoccupavo del futuro, mi lasciavo influenzare da un mucchio di cose o persone, e in pratica non facevo che ubbidire. Ai genitori, ai professori, ai direttori dei giornali dove lavoravo già a diciott’anni… Da adulta credevo d’essere libera. Ma non lo ero. Mi preoccupavo ancora del futuro, mi lasciavo condizionare dai giudizi malevoli, temevo le conseguenze delle mie scelte… Oggi non le temo più. I giudizi malevoli non mi condizionano più, il futuro non mi preoccupa più. Perché dovrebbe? È arrivato ormai. E sgombra di inutili desideri, di superflue ambizioni, di errate chimere, mi sento libera come non lo sono mai stata. Libera d’una libertà completa, assoluta. Inoltre la vecchiaia è bellissima, perché da vecchi si capisce ciò che da giovani e perfino da adulti non s’era capito. Perché con le esperienze, le informazioni, i ragionamenti che abbiamo accumulato, tutto s’è fatto chiaro. O molto più chiaro. Alcuni chiamano questa saggezza, e se sono saggia io non lo so. Spesso lo escludo. Però so che grazie a quelle esperienze, quelle informazioni, quei ragionamenti, il mio cervello è migliorato come un buon vino rosso. Ha intensificato il suo sapore, ha assorbito le energie che il resto del corpo ha perduto. Non che sia scandalosamente vecchia, intendiamoci. Sulla faccenda ci gioco un po’. È la mia civetteria. Ma l’Alieno mi consuma, a volte non mi reggo in piedi. E, come ho detto all’inizio della nostra chiacchierata, quando non mi reggo in piedi penso meglio. Studio meglio, lavoro meglio. È come se la forza delle mie gambe, delle mie braccia, dei miei polmoni si fosse trasferita nella mia testa. Mi sento più intelligente, insomma. E questo mi riempie di tale felicità che non mi dico mai «Vorrei-tornare-indietro, ricominciare-daccapo». Tutt’al più, sapendo che non durerò molto, esclamo «Proprio ora! Dio, che spreco. La morte è uno spreco».

(Da qualche parte in Toscana, luglio 2004)
 

franceska

CON LA "C"
"La nostra logica è piena di contraddizioni. Appena affermi qualcosa, ne vedi il contrario. E magari ti accorgi che il contrario è valido tanto quanto ciò che affermavi."

Oriana Fallaci
 
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