I viaggi di Gulliver (sottotitolo: Tutta colpa di Tanny e del juke-box)
C’era una volta un signore che si chiamava Gulliver e viaggiava sempre, sempre. Un giorno capitò nel Paese delle meraviglie, dove conobbe una signorina bionda che si chiamava Alice e che aveva una strana occupazione: guardava i gatti e i gatti guardavano nel sole mentre il sole faceva l’amore con la luna. Il compito di Alice era quello di stanare i gatti minorenni, che non potevano e non dovevano vedere quelle scene sconce, ma i gatti, più curiosi dell’esercito delle 12 scimmie, al suo avvicinarsi riuscivano a nascondersi o si procuravano documenti falsi. Gulliver era in cerca di una compagna con la quale, finalmente, potersi fermare e vivere una vita tranquilla e appagante; in realtà, pur essendo Alice molto carina, egli non aveva voglia di trascorrere il resto della sua vita a fare il controllore dei gatti, perciò, con rammarico e tra le lacrime di lei, se ne andò. Cammina, cammina, arrivò nel paese delle ultime cose, dove c’era una fiera detta delle vanità, con un luna-park e tre fratelli, tali Karamazov, che litigavano perché non riuscivano a mettersi d’accordo su chi dovesse fare l’ultimo giro di giostra. Gulliver fece spallucce e passò dritto. Cammina e cammina ancora, giunse ad una fattoria. A Gulliver non sarebbe dispiaciuto sposarsi con una fattoressa, ma lì fattoressa non ce n’era, a meno che non si consideri la maiala, nel senso di sorella del maiale, unico proprietario e gestore della fattoria. Valutata bene la situazione, Gulliver decise di andarsene per via dell’odore insostenibile, e poi perché la maiala aveva le orecchie a sventola, che a lui proprio non piacevano, e poi ancora, e soprattutto, perché di fare da servo ad un maiale non gli andava proprio. Ma non si perse d’animo: di lontano intravide un’insegna, “Macondo”, diceva. Bel nome, pensò. Ma il paese era vuoto: solo un abitante, un colonnello di cent’anni che da una vita attendeva una lettera che non arrivava mai. Va be’, ognuno ha il suo scopo nella vita, pensò Gulliver e decise di non perdere altro tempo. Cammina, cammina, e cosa videro i suoi occhi? Tre donne che andavano verso di lui. Ma gli andò male: dopo una breve conversazione, apprese che la prima, Dona Flor, aveva già due mariti; la seconda, Teresa Batista, era troppo stanca perché aveva combattuto in guerra; la terza, Gabriella, sarebbe anche potuta andare bene, ma era pronta a mettersi in viaggio, aveva già appuntamento con un maghetto per andare alla ricerca della pietra filosofale. Salutate le tre signore e rimessosi in cammino, Gulliver giunse all’improvviso nella città di K., dove incontrò un certo signor K. che aveva a suo carico una grave accusa non si sa per cosa, uno scarafaggio che qualche tempo prima era stato un uomo e un certo Kafka che viveva in una spiaggia. Fu lo scarafaggio a illuminarlo: gli disse che poco lontano esisteva una montagna incantata, dove viveva un signore detto degli anelli per via della sua gioielleria un po’ particolare. Egli vendeva a caro prezzo collane, bracciali, orecchini ma soprattutto anelli speciali, magici: bastava indossarli una volta perché venisse esaudito il desiderio più grande di chi li portava. Il caro prezzo, oltre ad una consistente cifra in denaro, era l’obbligo di vivere nella montagna incantata, senza alcuna proprietà privata e alle complete dipendenze del signore, il quale li costringeva a vivere in minuscole baracche, a lavorare duramente nelle campagne e a mangiare sempre la solita zuppa di fagioli. Gulliver decise che non era tanto male; i soldi li possedeva perché li aveva ereditati dalla moglie dello zio Vanja, una signora anziana e ficcanaso sposatasi in tarda età con un uomo (appunto, lo zio Vanja) molto più giovane, un’ex-zitella che lavorava sempre a maglia e che risolveva tutti i casi di omicidio; inoltre, pur di avere una donna al suo fianco, era pronto a fare qualsiasi sacrificio. Quando giunse in cima alla montagna però non aveva più forze e, arrivato al cospetto dell’anellaro, svenne. Il signore degli anelli chiamò in suo aiuto un certo dottor House, un montanaro zoppo un po’ stravagante, ma con una laurea in medicina: il dottor House da anni non esercitava più la sua professione, perciò non ricordava come si facesse rinvenire una persona, ma conservava da circa 20 anni una pillola, per ogni evenienza, sebbene non ricordasse per curare cosa. Va be’, meglio di niente, decise il signore degli anelli e ficcò in bocca a Gulliver la pillola. Improvvisamente quegli riprese le forze, si alzò e si chiese: “Che cavolo sono venuto a fare qui? Ah, già”, prese l’accetta che teneva nella sua Samsonite per precauzione “sono venuto a liberare dalla schiavitù gli abitanti della montagna incantata” e con un colpo staccò la testa al signore degli anelli. “Ma che hai fatto? Sei impazzito?” esclamò il dottor House. “Ah, no, hai ragione, non ero venuto per questo, mi sono confuso, sono venuto per… quest’altro” e, così dicendo, decapitò il dottor House, però non riuscì a decapitarlo del tutto, infatti la testa del dottor House rimase attaccata al collo per un quarto e penzoloni per il resto, cosa che non gli impediva di parlare e perciò di sentenziare la “diagnosi”: “Acc … ora ricordo a cosa serviva la pillola, a provocare il morbo di Bartleby lo scrivano!” Il morbo di Bartleby lo scrivano era una malattia che spingeva chi ne era affetto alla massima ribellione. Non lo si poteva contraddire perché poteva reagire violentemente, come infatti era successo. L’effetto della pastiglia però svaniva dopo 30 minuti, perciò ora Gulliver era di nuovo “normale” e, pentito, andò a cercare un medico che riattaccasse la testa sul collo del medico. A quell’ora gli abitanti delle baracche erano tutti al lavoro nei campi; solo da una casupola giungeva un lamento … Gulliver, dubbioso, bussò alla porta; nessuno aprì ma, essendosi fatto il lamento più insistente, egli sfondò la porta … e cosa vide? Una signorina dalla pelle candida come la neve e i capelli neri come l’ebano, che disse, piangendo “Ho mangiato una mela e mi è venuto mal di pancia … non riesco a lavorare così … avrebbe per caso una pillola? Se non lavoro il signore degli anelli non mi dà la zuppa di fagioli …” In quella, il dottor House con ciò che rimaneva della sua testa si affacciò e rispose “No, e comunque, con i nostri precedenti, mi sa che non è proprio il caso di prendere pillole così a caso … vero, mister Gulliver?” dando una manata sulle spalle a quest’ultimo. Ma la signorina, vedendo la testa penzoloni di House, era svenuta dallo spavento. Gulliver, incantato dalla sua bellezza e illuminato da un’idea, corse fino alla gioielleria ormai incustodita e prese tutti i gioielli che riuscì a prendere. Giunto, trafelato, alla baracca, mise al collo della ragazza tutte le collane che poteva, al braccio tutti i bracciali e, soprattutto, alle dita tutti gli anelli, sperando che così venisse esaudito il più grande desiderio di lei, pur priva di conoscenza. E così fu. Il desiderio di lei, originalissimo, era che un uomo bello e facoltoso la portasse via da quella stamberga e da quella montagna “incantata”. Gulliver la prese tra le braccia e la portò via; non si sa dove, ma pare che, in qualche parte del mondo, vivano ancora felici e contenti, seppure lei non abbia mai ripreso conoscenza. Entrambi hanno trovato l’amore e Gulliver, non più solo, ha smesso di viaggiare; inoltre pare che una brava sarta abbia ricucito la testa al dottor House, il quale ha ripreso la sua professione e nutre con le sue flebo la ragazza, che così non ha più bisogno di lavorare nei campi per poter mangiare.