spoiler segnalati ma direi inevitabili
Questo romanzo ha in sé i connotati dell’incubo: in nessun altro modo si potrebbe spiegare che un uomo accetti di essere arrestato, processato e (spoiler) alla fine giustiziato senza alcun motivo. A pensarci bene i sogni sono così: delle cose assurde, inconcepibili in stato di veglia, si realizzano come se fossero la cosa più normale del mondo, al punto che − quando sogniamo − non possiamo fare altro che accettare la realtà così com’è, come se inconsciamente sapessimo che si tratta, appunto, di un sogno e per questa ragione non osassimo ribellarci. L’unica ribellione possibile sarebbe il risveglio: “ah, ecco! Lo dicevo io che non poteva essere... eppure sembrava così reale!”
Mentre leggevo avevo proprio questa impressione: che se mai Josef K. si fosse reso conto che la situazione in cui era incorso era non solo assurda, ma del tutto impossibile, se insomma ne fosse stato pienamente convinto, la cosa sarebbe davvero finita lì: il misterioso tribunale non avrebbe avuto più alcuna presa su di lui, sarebbe rimasto confinato nel regno del sogno, mentre lui − solo − si sarebbe “svegliato”. All’inizio in effetti succede qualcosa di molto simile: K. crede che si tratti di uno scherzo o di un mostruoso equivoco, intuisce che dare peso a un’accusa così infondata è ridicolo e controproducente, e cerca di andare avanti come se niente fosse. E sembra che ci riesca. Non si è svegliato, ma non è stato ancora “afferrato” dal suo sogno: la liberazione sembra ancora possibile.
Ma, giorno dopo giorno, le cose cambiano: a parte lui, tutti gli altri (venuti a conoscenza − chissà come! − del suo processo) non solo non si stupiscono (tutt’altro), ma lo invitano a prenderlo sul serio, a impegnarsi nel tentare di vincere la causa, benché − come ognuno di loro è disposto ad ammettere − sappiano fin da subito che non servirà a nulla. Non esistono regole in questo tribunale: difendersi non è concesso, ma al massimo “tollerato”; ci sono avvocati, ma nemmeno loro sanno di cosa è accusato l’imputato e possono intervenire solo ad interrogatori conclusi; “la graduatoria dei funzionari è infinita e imperscrutabile”, per cui tutti fanno il proprio dovere ma nessuno ne sa davvero qualcosa... nemmeno i giudici, che sono sempre quelli al “livello più basso”, mentre coloro che sono “al vertice” nessuno li conosce né li ha mai visti. Ma la cosa più grave è che non sembra esserci assoluzione possibile: meglio quindi cercare di rimandare la sentenza il più a lungo possibile, secondo la formula del “differimento”...
Eppure, per quanto tutto ciò sia contrario a ogni logica, “l’unica via giusta − gli dice l’avvocato − è quella di accettare le condizioni esistenti, (...) cercar di comprendere che questo grande organismo giudiziario rimane, per così dire, sospeso in perpetuo e, quando si modifichi qualcosa di propria iniziativa, ci si scava il terreno sotto i piedi e si può precipitare.”
Ma “accettare le condizioni” vuol dirsi abbandonarsi senza riserve al proprio sogno. Se − riconoscendo l’assurdità della propria situazione e non risolvendosi ad accettarla − il protagonista custodiva e alimentava la propria libertà, lasciandosi aperta la possibilità di “svegliarsi”, adeguarsi alle non-regole di questo gioco significa firmare la propria condanna. Nel momento stesso in cui Josef K. acconsente a prendere sul serio il proprio processo, egli perde la sua innocenza, si rende e si dichiara colpevole.
Questa componente soggettiva e psicologica (che costituisce solo una delle tante interpretazioni possibili) mi ha del tutto affascinato, dandomi la certezza di avere a che fare con un capolavoro assoluto della letteratura. Siamo condotti inesorabilmente verso la fine sentendoci anche noi “soffocare” nelle anguste stanze della cancelleria, osservati, giudicati e (s)consigliati da chi sembra saperne sempre più di noi... la presa di coscienza della nostra impotenza sancisce la nostra impotenza.
Le pagine conclusive sono straordinarie, la “predica” impartita a K. fa venire i brividi... Fra l’altro, a questo proposito, ho trovato divertente e molto interessante il fatto che Kafka (solitamente così enigmatico) ci abbia volontariamente offerto una chiave di lettura per la sua opera, inserendo al suo interno un brevissimo racconto da lui stesso scritto: “Dentro la legge”. Per me, che lo avevo già letto nei Racconti senza che − come è ovvio − mi fosse fornita alcuna spiegazione, è stato bellissimo ritrovarlo qui, commentato da Kafka stesso e messo in relazione con il romanzo, nei confronti del quale si pone quasi come un metaracconto. SPOILER Le ultime parole che il prete rivolge a K. sono insieme l’apice e la conclusione dell’intera opera: “Perchè dovrei volere qualcosa da te? Il tribunale non ti chiede nulla. Ti accoglie quando vieni, ti lascia andare quando vai.” E sarà Josef K., ormai tutt'uno col suo incubo, a scegliere di farsi “accogliere”.
Geniale e magnificamente scritto.
Questo romanzo ha in sé i connotati dell’incubo: in nessun altro modo si potrebbe spiegare che un uomo accetti di essere arrestato, processato e (spoiler) alla fine giustiziato senza alcun motivo. A pensarci bene i sogni sono così: delle cose assurde, inconcepibili in stato di veglia, si realizzano come se fossero la cosa più normale del mondo, al punto che − quando sogniamo − non possiamo fare altro che accettare la realtà così com’è, come se inconsciamente sapessimo che si tratta, appunto, di un sogno e per questa ragione non osassimo ribellarci. L’unica ribellione possibile sarebbe il risveglio: “ah, ecco! Lo dicevo io che non poteva essere... eppure sembrava così reale!”
Mentre leggevo avevo proprio questa impressione: che se mai Josef K. si fosse reso conto che la situazione in cui era incorso era non solo assurda, ma del tutto impossibile, se insomma ne fosse stato pienamente convinto, la cosa sarebbe davvero finita lì: il misterioso tribunale non avrebbe avuto più alcuna presa su di lui, sarebbe rimasto confinato nel regno del sogno, mentre lui − solo − si sarebbe “svegliato”. All’inizio in effetti succede qualcosa di molto simile: K. crede che si tratti di uno scherzo o di un mostruoso equivoco, intuisce che dare peso a un’accusa così infondata è ridicolo e controproducente, e cerca di andare avanti come se niente fosse. E sembra che ci riesca. Non si è svegliato, ma non è stato ancora “afferrato” dal suo sogno: la liberazione sembra ancora possibile.
Ma, giorno dopo giorno, le cose cambiano: a parte lui, tutti gli altri (venuti a conoscenza − chissà come! − del suo processo) non solo non si stupiscono (tutt’altro), ma lo invitano a prenderlo sul serio, a impegnarsi nel tentare di vincere la causa, benché − come ognuno di loro è disposto ad ammettere − sappiano fin da subito che non servirà a nulla. Non esistono regole in questo tribunale: difendersi non è concesso, ma al massimo “tollerato”; ci sono avvocati, ma nemmeno loro sanno di cosa è accusato l’imputato e possono intervenire solo ad interrogatori conclusi; “la graduatoria dei funzionari è infinita e imperscrutabile”, per cui tutti fanno il proprio dovere ma nessuno ne sa davvero qualcosa... nemmeno i giudici, che sono sempre quelli al “livello più basso”, mentre coloro che sono “al vertice” nessuno li conosce né li ha mai visti. Ma la cosa più grave è che non sembra esserci assoluzione possibile: meglio quindi cercare di rimandare la sentenza il più a lungo possibile, secondo la formula del “differimento”...
Eppure, per quanto tutto ciò sia contrario a ogni logica, “l’unica via giusta − gli dice l’avvocato − è quella di accettare le condizioni esistenti, (...) cercar di comprendere che questo grande organismo giudiziario rimane, per così dire, sospeso in perpetuo e, quando si modifichi qualcosa di propria iniziativa, ci si scava il terreno sotto i piedi e si può precipitare.”
Ma “accettare le condizioni” vuol dirsi abbandonarsi senza riserve al proprio sogno. Se − riconoscendo l’assurdità della propria situazione e non risolvendosi ad accettarla − il protagonista custodiva e alimentava la propria libertà, lasciandosi aperta la possibilità di “svegliarsi”, adeguarsi alle non-regole di questo gioco significa firmare la propria condanna. Nel momento stesso in cui Josef K. acconsente a prendere sul serio il proprio processo, egli perde la sua innocenza, si rende e si dichiara colpevole.
Questa componente soggettiva e psicologica (che costituisce solo una delle tante interpretazioni possibili) mi ha del tutto affascinato, dandomi la certezza di avere a che fare con un capolavoro assoluto della letteratura. Siamo condotti inesorabilmente verso la fine sentendoci anche noi “soffocare” nelle anguste stanze della cancelleria, osservati, giudicati e (s)consigliati da chi sembra saperne sempre più di noi... la presa di coscienza della nostra impotenza sancisce la nostra impotenza.
Le pagine conclusive sono straordinarie, la “predica” impartita a K. fa venire i brividi... Fra l’altro, a questo proposito, ho trovato divertente e molto interessante il fatto che Kafka (solitamente così enigmatico) ci abbia volontariamente offerto una chiave di lettura per la sua opera, inserendo al suo interno un brevissimo racconto da lui stesso scritto: “Dentro la legge”. Per me, che lo avevo già letto nei Racconti senza che − come è ovvio − mi fosse fornita alcuna spiegazione, è stato bellissimo ritrovarlo qui, commentato da Kafka stesso e messo in relazione con il romanzo, nei confronti del quale si pone quasi come un metaracconto. SPOILER Le ultime parole che il prete rivolge a K. sono insieme l’apice e la conclusione dell’intera opera: “Perchè dovrei volere qualcosa da te? Il tribunale non ti chiede nulla. Ti accoglie quando vieni, ti lascia andare quando vai.” E sarà Josef K., ormai tutt'uno col suo incubo, a scegliere di farsi “accogliere”.
Geniale e magnificamente scritto.
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