D'Avenia, Alessandro - L'appello

estersable88

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E se l'appello non fosse un semplice elenco? Se pronunciare un nome significasse far esistere un po' di più chi lo porta? Allora la risposta "presente!" conterrebbe il segreto per un'adesione coraggiosa alla vita. Questa è la scuola che Omero Romeo sogna. Quarantacinque anni, gli occhiali da sole sempre sul naso, Omero viene chiamato come supplente di Scienze in una classe che affronterà gli esami di maturità. Una classe-ghetto, in cui sono stati confinati i casi disperati della scuola. La sfida sembra impossibile per lui, che è diventato cieco e non sa se sarà mai più capace di insegnare, e forse persino di vivere. Non potendo vedere i volti degli alunni, inventa un nuovo modo di fare l'appello, convinto che per salvare il mondo occorra salvare ogni nome, anche se a portarlo sono una ragazza che nasconde una ferita inconfessabile, un rapper che vive in una casa famiglia, un nerd che entra in contatto con gli altri solo da dietro uno schermo, una figlia abbandonata, un aspirante pugile che sogna di diventare come Rocky... Nessuno li vedeva, eppure il professore che non ci vede ce la fa. A dieci anni dalla rivelazione di Bianca come il latte, rossa come il sangue, Alessandro D'Avenia torna a raccontare la scuola come solo chi ci vive dentro può fare. E nella vicenda di Omero e dei suoi ragazzi distilla l'essenza del rapporto tra maestro e discepolo, una relazione dinamica in cui entrambi insegnano e imparano, disponibili a mettersi in gioco e a guardare il mondo con occhi nuovi. È l'inizio di una rivoluzione? L'Appello è un romanzo dirompente che, attingendo a forme letterarie e linguaggi diversi – dalla rappresentazione scenica alla meditazione filosofica, dal diario all'allegoria politico-sociale e alla storia di formazione –, racconta di una classe che da accozzaglia di strumenti isolati diventa un'orchestra diretta da un maestro cieco. Proprio lui, costretto ad accogliere le voci stonate del mondo, scoprirà che sono tutte legate da un unico respiro.

Chiamare le cose – e le persone – col loro nome vuol dire dar loro una collocazione, un posto nel mondo, vederle, dar loro l'importanza che meritano. Da troppo tempo i docenti di una classe di un liceo scientifico di una città indeterminata si erano dimenticati di chiamare per nome i loro dieci alunni, i dieci casi disperati rinchiusi in quella classe-ghetto. E loro, i ragazzi, erano completamente spaesati, avevano perso la fiducia nella scuola, ultimo baluardo di cultura, ultima certezza in un mondo al rovescio che confonde, ignora e divora. Poi in classe è entrato un professore di scienze, Omero Romeo, uno che quei ragazzi voleva conoscerli davvero, vederli attraverso le loro storie, il loro volto, i tumulti del loro cuore. Così, prima di cominciare la lezione vera e propria, ha cominciato a fare l'appello… in un modo diverso, che ha prodotto risultati straordinari: i ragazzi, proprio quelli cui sembra sempre non fregare niente, quelli disinteressati, persi, bruciati, hanno risposto in modo grandioso, con un entusiasmo contagioso, virale. L'appello è uscito, per loro volontà, dai confini della classe diffondendosi nel mondo tra l'entusiasmo e l'ostracismo. E così le persone, le vite, le storie hanno ripreso il posto che spettava loro, al centro della scuola, della famiglia, della società. L'appello ha scosso le menti, anche quelle più refrattarie e chiuse, creando bellezza, condivisione, energia.
Amo la prosa ricercata di Alessandro D'avenia, sin dal suo primo romanzo non ho mai smesso di meravigliarmi di fronte al suo modo di dire le cose, di raccontare la scuola, gli adolescenti, i professori, la cultura, la bellezza. Tuttavia questo libro l'ho concluso con fatica… non perché non mi sia piaciuto o perché non sia bello, anzi! I concetti espressi, la visione della scuola, l'energia dei ragazzi, le loro storie e le loro difficoltà… sono tutte cose importantissime raccontate, come sempre, con grande perizia, coinvolgimento e sensibilità. Però in queste pagine c'è qualcosa di troppo che mi ha disturbata… ho fatto fatica a capire cosa fosse, ma poi ci sono arrivata: c'è troppa cecità. Troppi riferimenti alla condizione del professor Romeo, troppa autoironia qualche volta buttata lì a sproposito ("Sono cieco, potrò permettermi di non guardare in faccia nessuno"…), troppo uso della cecità come giustificazione, come motivo della redenzione, quasi a rievocare una conversione sulla via di Damasco che, francamente, dopo un po' rischia di scricchiolare e non reggere più come "espediente narrativo". E badate, queste cose le dico da cieca e per di più molto autoironica. è vero, io cieca lo sono dalla nascita mentre Romeo lo è diventato da appena cinque anni, quindi qualche mio "collega" mi smentirà, ma non è da ciechi rimarcare la propria condizione in ogni frase. Questo continuo uso delle locuzioni "sono cieco" o "da quando sono cieco"… appesantisce, snerva e rende meno realistico il fluire della storia. E aggiungo questo, a beneficio di chi legga il libro prima di questo mio scritto: non so se per chi abbia perso la vista da adulto sia diverso, ma io non ho necessità di toccare il volto delle persone che ho davanti… non mi serve. Per conoscere chi ho vicino mi basta ascoltare le sue parole, anche quelle che non dice: sta lì il segreto, non necessariamente nelle pieghe del volto. Ma questo è un mio pensiero, legato alla mia esperienza, magari altri la pensano – e vivono – diversamente.
In definitiva, il romanzo di D'avenia è molto bello e molto intenso, leggetelo se, come me, siete suoi lettori affezionati, ma non lo consiglio a chi non abbia ancora mai letto niente di quest'autore.
 
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